CAPITOLO I

LA POLITICA AMBIENTALE: L’EVOLUZIONE STORICA

1. La “Questione Ambientale”

a) Il concetto di “Qualità Ambientale”

Il concetto di ambiente presenta alcuni caratteri di ambiguità, a causa dei numerosi e differenziati contesti in cui tale termine può essere utilizzato. Se nel linguaggio corrente esso assume dei toni prevalentemente naturalistici, nelle varie discipline può essere usato con significati diversi. Gli obiettivi di questo lavoro esulano dal trattarne le varie “Categorie Descrittive”,facendo riferimento a un concetto di ambiente inteso soprattutto come habitat,  o come “punto di intersezione tra società e sistema naturale”, in cui si pone l’accento sul rapporto uomo-contesto ambientale. Proprio da queste definizioni discende che i problemi ambientali ai fini della “policy” non hanno un’esistenza oggettiva in sé, ma solo nella misura in cui la società ne percepisce l’esistenza e avverte l’esigenza di un intervento. Molto più importanti ai fini del prosieguo di questo lavoro sono gli elementi che caratterizzano la qualità ambientale:

Rarità.

E’ definita come una condizione di scarsa disponibilità di un determinato elemento all’interno di un ecosistema ( talvolta il termine può essere sostituito con quello di scarsità). La rarità può essere riferita sia alle specie animali che vegetali in relazione con la scala del territorio esaminato. Tale concetto non è stabile nel tempo, dipende cioè dalla velocità di utilizzazione degli elementi o dal loro risparmio, o ritrovamento in zone ancora inesplorate.

Biodiversità o diversità biologica.

Con tale termine si intende la totalità dei patrimoni genetici, delle specie e degli ecosistemi presenti sulla terra. E’ stata definita nel 1992 alla Convention on Biological Diversity come la “mutevolezza tra tutti gli organismi viventi e tutte le risorse terrestri e marine”, riferendosi non solo alla varietà tra le specie ma anche alla variazione genetica dentro e tra le specie. Compito abbastanza arduo nel trattare questo concetto è la misurazione il cui  metodo più semplice è quantificare il numero di specie identificabili in un campione rappresentativo della comunità; sono stati proposti numerosi indici di diversità che permettono di calcolare la distribuzione delle specie a ogni scala territoriale. La biodiversità svolge un ruolo estremamente importante nel funzionamento dell’ecosistema terrestre governando i diversi cicli che in esso avvengono e  anche se solo in tempi recenti ci si è resi conto della necessità di preservarla, tenendo dell’elevata diversità genetica in essa contenuta e non ancora completamente utilizzata.

Capacità di carico.

Rappresenta il numero di organismi o individui di una determinata specie che può essere indefinitamente mantenuto da un ecosistema. Tale termine viene anche utilizzato per indicare i livelli di densità demografica e di attività economica che possono essere mantenute in un territorio senza che vengano superate le capacità di carico delle risorse e di autodepurazione dell’atmosfera.

Stabilità.

Proprietà dell’ ecosistema di resistere alle situazioni di tensione mantenendo la propria situazione di equilibrio. Si distingue una stabilità di resistenza o di resilienza. Il primo caso riguarda la capacità di un ecosistema di conservare intatte le proprie strutture e funzioni sottoposte ad una pressione esterna. Il secondo invece si ha nel momento in cui un ecosistema risponde ad una pressione esterna ritornando allo stato iniziale. Legato al concetto di stabilità di resistenza è quello di sensibilità che esprime le dimensioni della risposta dell’ecosistema ad impatti di origine esterna. Le forme di pressione su un determinato ambiente possono essere molteplici, le due più importanti ai fini di questo lavoro sono:

Il  degrado che sta a significare un cambiamento in senso negativo delle caratteristiche costitutive o funzionali di una realtà ambientale o di una sua componente.

L’inquinamento, che indica la presenza, all’interno di una determinata realtà ambientale, di sostanze estranee che eccedono le capacità ricettive dell’ambiente. Esiste un inquinamento prodotto da cause naturali, ma quello più diffuso e preoccupante è quello provocato dalle attività produttive umane in senso lato, che è il principale oggetto delle politiche ambientali dei vari paesi. Una distinzione solo formale dei vari tipi di inquinamento, può essere fatta tra atmosferico, idrico e dei suoli, a seconda della parte d’ ambiente che colpisce. L’inquinamento è uno dei diversi fenomeni di degradazione ecologica a cui si aggiungono quelli altrettanto gravi di deforestazione, erosione del suolo, e desertificazione, che sono per   la maggior parte dei casi causate dall’attività dell’uomo.

Ai fini della misurazione dei vari aspetti della qualità ambientale, e della sua evoluzione uno dei passi più importanti è la definizione di “segnali”indicatori delle trasformazioni in corso nell’ambiente, che permettano di individuare i mutamenti e le tendenze di cambiamento nelle pressioni ambientali. Il problema degli indicatori ambientali sollecita una molteplicità di discipline, ognuna delle quali lo affronta secondo le proprie caratteristiche e in relazione al proprio punto di vista, è quindi difficile tracciare una definizione di indicatore oggettivamente ideale, poiché tutti in un qual modo peccano di soggettività. Una classificazione interessante può essere fatta suddividendoli per obiettivi di indagine come da tabella.

Fonte: Malscevschi, 1988.

In sintesi, la molteplicità delle funzioni assegnate agli indicatori può essere ricondotta alle seguenti 2 categorie:

Pianificazione: aiutare i decisori sulla situazione attuale, sulla sua evoluzione futura, sull’efficacia e sull’efficienza dell’allocazione delle risorse degli interventi previsti;

Comunicazione: informare e sensibilizzare l’opinione pubblica, legittimando l’identificazione degli obiettivi e le priorità da perseguire.

b)L’ambiente come questione di “policy”

La politica ambientale ricomprende la serie di interventi posti in essere da autorità pubbliche o da soggetti privati al fine di disciplinare quelle attività umane che riducono la disponibilità di risorse naturali o ne peggiorano la qualità e la fruibilità. Oggetto di tale politica sono quindi quei comportamenti che producono il degrado dell’ambiente rispetto allo stato attuale, ovvero la sostanziale modificazione dell’assetto originario caratterizzante uno specifico ambiente, e il prelievo di risorse naturali scarse. Gli obiettivi di questi interventi sono disparati e possono comprendere: il controllo delle diverse forme di inquinamento, la tutela di particolari aree ed ecosistemi, la riparazione e la prevenzione dei danni ambientali, l’incentivazione e l’utilizzo di tecnologie pulite. E’ possibile operare una distinzione tra politiche di carattere tattico e politiche di carattere strategico. Nel primo caso, siamo nell’orizzonte del breve periodo, e abbiamo interventi detti “a valle” (end of pipe), che consistono in azioni di recupero, volte a riportare le condizioni ambientali entro il livello di tolleranza massima, e di ripristino degli equilibri preesistenti o di un nuovo equilibrio. Il secondo caso invece ha un prospettiva di lungo periodo in ottica preventiva, in cui si cerca di raggiungere situazioni di equilibrio dinamico, coerenti con degli obiettivi di sostenibilità riguardo la progressiva riduzione dei carichi ambientali, il risanamento o il recupero del degrado, la conservazione delle risorse. Si hanno in tal caso i cosiddetti interventi “a monte” che riguardano: il mantenimento delle condizioni ambientali al di sopra delle soglie di tolleranza delle alterazioni, o il miglioramento delle stesse; e la prevenzione con l’obiettivo di diminuire la necessità e le dimensioni della politica ambientale stessa. La difficoltà di implementazione di queste politiche e di successo, scaturiscono dalle  varie caratteristiche dei problemi ambientali:

Oggetto. L’oggetto di tali politiche, è da considerarsi un bene pubblico, da ciò discende che la tutela dell’ambiente non può essere lasciata ai rapporti intersoggettiviregolati attraverso le tradizionali vie giudiziarie, ma deve essere regolata da un attore pubblico. Tale caratteristica fa nascere la presenza di esternalità negative, ovvero di costi imposti a terzi che ne subiscono gli effetti senza godere dei benefici, né avere la responsabilità delle cause.

Scarsa visibilità. I problemi ambientali spesso non sono immediatamente percepibili attraverso i canali sensoriali con cui gli individui si relazionano con il mondo fisico che li circonda, richiedono quindi l’impiego di sofisticate strumentazioni ed elaborate ricerche scientifiche.

Tempi sfalsati. I tempi dei processi politici e di “policy”sono profondamente dissonanti rispetto a quelli dei processi ambientali. Difficilmente l’orizzonte degli attori politici si spinge dopo la successiva scadenza elettorale, essi quindi preferiscono affrontare i problemi che attirano di volta in volta l’attenzione dell’opinione pubblica, piuttosto che quelli di lungo periodo, anche se tali scelte risultano alla fine meno efficaci ed efficienti.

Elevato contenuto tecnico-scientifico. L’individuazione sia delle cause del degrado e dell’inquinamento, che delle possibili soluzioni, richiedono l’impiego di conoscenze scientifiche avanzate. Ciò provoca delle difficoltà che sono aggravate dalla rapidità con cui si evolvono le tecnologie di produzione (responsabili degli inquinamenti) e quelle di contenimento degli inquinamenti, richiedendo così continui aggiornamenti.

Incertezza. L’indisponibilità di adeguate informazioni circa le relazioni causa-effetto costringe tipicamente ad  adottare decisioni in condizioni di elevata incertezza.

Costi concentrati, benefici diffusi. I costi della protezione ambientale sono certi, immediati e concentrati su un numero ristretto di attori che quindi sono razionalmente motivati ad investire le proprie risorse per cercare di evitare o limitare tali costi. I benefici invece sono incerti, dilazionati nel tempo e riguardano un numero molto ampio di soggetti che quindi hanno scarse motivazioni a sostenere i costi insiti nella mobilitazione necessaria ad ottenere politiche di tutela dell’ambiente.

Elevata interdipendenza. I problemi e le soluzioni che fanno capo alle politiche ambientali sono profondamente intrecciati agli aspetti sociale, economico e politico. Ai fini di una comprensione adeguata dei processi e degli esiti della politica ambientale si deve tener conto quindi dei processi che si svolgono contestualmente in altre politiche settoriali connesse.

c) Strumenti di politica ambientale

Una buona politica ambientale si caratterizza per un accorto mix di strumenti in relazione agli obiettivi prefissati. Tali strumenti possono essere distinti in 3 categorie: regolativi, economici e volontari. In tal contesto non se ne vuole dare una descrizione esaustiva che è al di fuori degli obiettivi di questo lavoro, ma solo una breve descrizione che verrà approfondita, se nel caso successivamente, prima tramite l’analisi storica, e poi nella trattazione del rapporto Impresa – Ambiente. I primi 2 tipi di strumenti cercano di rispondere al cosiddetto principio”chi inquina paga”(polluter pays), definito dall’OCSE nel 1972, che comporta che l’inquinatore sostenga le spese relative all’adozione delle misure che l’autorità pubblica ritiene necessarie per assicurare che siano rispettate le soglie di tolleranza. L’inquinamento genera infatti dei costi sociali che non sono compresi tra quelli di produzione dell’inquinatore, vi è cioè una differenza tra costi privati e costi sociali che viene internalizzata attribuendo l’esternalità (negativa) a chi a causato l’inquinamento.

Strumenti regolativi

Tali strumenti hanno tradizionalmente rappresentato la base delle politiche ambientali nelle economie industriali di tipo misto. La logica che ne sta alla base consiste nella definizione di comportamenti la cui effettiva esplicazione è sottoposta ad un’azione di accertamento da parte della pubblica amministrazione, che applicherà dalle sanzioni per eventuali violazioni. Tali comportamenti vengono definiti “standard”, e se ne individuano generalmente 4 tipi:

  • Standard di emissione. Vengono fissati i livelli massimi inquinanti negli scarichi al momento dell’emissione in un determinato corpo ricettore. Si impone quindi al produttore dell’emissione la depurazione dei propri scarichi entro i limiti fissati dagli standard.
  • Standard di qualità. Si regolamenta la qualità ambientale di un determinato corpo ricettore a seguito di un’emissione, fissando le concentrazioni massime delle sostanze emesse.
  • Standard di processo.  Si richiede che il processo produttivo sia svolto secondo determinati requisiti, (utilizzo di tecnologie pulite). L’uso di tale strumento necessita una grande competenza tecnica, e inoltre gli standard fissati devono variare nel tempo per stimolare processi più puliti.
  • Standard di prodotto.  Disciplinano le caratteristiche di determinati prodotti o beni, con l’obiettivo di favorire la produzione di prodotti più puliti, di maggior durata o a minor consumo energetico durante il loro utilizzo.

I limiti degli strumenti regolativi risiedono nella mancanza di un efficiente apparato di controllo, a causa del suo alto costo e dell’inefficienza degli organi a questo preposti, dovuta a gravi carenze strutturali ed organizzative. Inoltre la fissazione di tali standard è problematica, non potendo essi essere né troppo permissivi, per non risultare inutili, né troppo rigidi, per non provocare costi insostenibili per il sistema industriale.

Strumenti Economici

Si tratta di una gamma di meccanismi piuttosto differenziata che può essere articolata in 3 grandi gruppi:

  • Incentivi, sovvenzioni e sussidi.  Sono generalmente usati nelle prime fasi di applicazione di una nuova norma ambientale, e si fa ricorso a finanziamenti a tassi agevolati, defiscalizzazioni degli investimenti, o sovvenzioni per ridurre le proprie emissioni al di sotto di certi livelli di inquinamento.

  • Tasse ambientali.  Alla base di questo meccanismo sta la fissazione di un livello ottimo di inquinamento ottenuta eguagliando al margine i costi di depurazione e i costi di ripristino del danno ambientale. Non sarebbe quindi conveniente spingersi al di sopra di tale soglia fissata poiché i costi di ripristino sarebbero superiori ai costi di depurazione. Si possono avere 2 obiettivi nell’imposizione di una tassa: una riduzione sensibile dell’inquinamento (si parla di tassa efficiente), e il finanziamento della realizzazione di impianti di depurazione (si parla invece di tassa redistributiva). Vi sono 4 tipologie di tasse ambientali:
  1. Tasse sulle emissioni. Si pagano in base alla quantità e alla qualità delle emissioni o degli scarichi, fissando cioè una tassa per ogni unità di inquinamento versato. La scelta delle imprese è quindi se depurare o pagare la tassa fissata in base al tasso di inquinamento obiettivo ( si veda il grafico:

CMGD = Costo marginale di depurazione

CMGE = Costo marginale dei danni causati dall’inquinamento.

CMG = Costo dell’inquinamento per la collettività

Q* sarà il livello ottimale di inquinamento, quindi all’inquinatore può essere chiesto di farsi carico, o del solo costo di depurazione (l’area QQ*E) o gli si può addossare un ulteriore indennizzo (area 0Q*E) se il danno residuo a carico della collettività è significativo.

  1. Tasse sui prodotti.  Vengono applicate per disincentivare i prodotti che generano inquinamento nella fase di produzione o consumo. Il loro obiettivo è di segnalare al consumatore un prodotto dannoso e di farne aumentare il prezzo.
  2. Tasse o canoni per il servizio reso.  Tariffe percepite per il ritiro e trattamento di scarichi e rifiuti in strutture collettive, pubbliche o private.
  3. Tasse con deposito a rendere.  Vengono imposte su imballaggi o prodotti che si desidera far restituire dopo l’uso (vetro, lattine, pile).

Questione odierna di politica ambientale è l’alternativa tra standard e tasse sia nelle scelte delle imprese che saranno basate soprattutto sui costi di depurazione, sia nelle scelte di policy, in cui influisce molto la concezione dal punto di vista etico che le tasse sembrano quasi ammettere una liceità dell’inquinamento. Nella realtà, per la collettività le tasse costituiscono una soluzione più efficiente, perché costringono a depurare chi ha i costi di depurazione più bassi e a pagare chi ha i costi di depurazione più alti.

  • La creazione di mercati artificiali.  Si tratta di mercati su cui poter scambiare rifiuti da smaltire o riciclare, o diritti di emissione. Nel secondo caso viene fissata la capacità di carico di una determinata area, e da questa viene desunto il tetto massimo di emissioni, che rappresenta la quota massima da dare alle imprese suddividendola in titoli, ognuno dei quali dà diritto ad una certa quantità di emissioni. Si forma così un mercato di questi titoli che possono essere acquistati anche dai governi o da associazioni ambientaliste per ridurre le emissioni totali.

Strumenti Volontari (o proattivi)

Tali strumenti riguardano da vicino il rapporto Sistema Industriale – Ambiente; danno infatti vita ad un tipo di approccio imprenditoriale all’ambiente, in cui l’impresa diventa parte attiva nel processo di eco – ristrutturazione dell’ambiente, e cerca di trarne un vantaggio competitivo sui concorrenti. Di questi strumenti se ne tratterà meglio nel prosieguo di questo lavoro, dandone ora solo una semplice illustrazione. Si dividono in 2 gruppi: i bilanci ecologici e gli Accordi volontari.

Gli Accordi volontari sono invece una sorta di contratti fra una compagnia, un gruppo

di compagnie o un intero settore industriale e l’autorità nazionale o regionale, in cui le imprese assumono l’impegno di assumere in un tempo predefinito degli obiettivi ambientali predeterminati sia in senso qualitativo che quantitativo e l’amministrazione si astiene dal regolamentare la materia finchè l’impresa dimostra di ottemperare gli accordi presi.

2.Le principali tappe internazionali

a)Stoccolma 1972: Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano.

Lo sviluppo della politica ambientale è stato accompagnato nell’ultimo trentennio da un processo di crescente internazionalizzazione e la stessa scala dei problemi ambientali è aumentata a tal punto che manca la capacità istituzionale a gestirli in maniera autarchica. La rilevanza assoluta della dimensione internazionale delle problematiche ambientali contribuisce a creare tra gli stati una rete di crescente interdipendenza sotto 3 principali profili: culturale, ecologico ed economico. Il primo aspetto riguarda l’affermarsi di una cultura globale che provochi la diffusione di valori o idee tra le popolazioni, influenzando così la domanda ambientale, e la percezione dei problemi e delle possibili soluzioni tra i policy – makers. Il secondo evidenzia la presenza di esternalità negative transfrontaliere causate dal riversarsi degli inquinamenti prodotti in ambito nazionale sui territori di altre nazioni, causando così un peggioramento della qualità ambientale in toto, e creando una situazione di “mali comuni”. In fine sotto il terzo profilo, l’integrazione dei mercati porta ad una progressiva diffusione  di misure ambientali similari per evitare ripercussioni negative sulla competitività tra imprese soggette a diversa intensità di regolazione. La formazione di un mercato globale finisce così per condizionare gli effettivi margini di manovra in termini di opzioni di policy praticabili da parte dei governi nazionali, trasformandosi in una potente spinta verso l’uniformità delle politiche ambientali adottate. Oltre alla dimensione internazionale della questione ambientale, uno degli aspetti che hanno assunto grande rilevanza nel dibattito storico sulla protezione dell’ambiente è stata la presunta incompatibilità tra la qualità dell’ambiente e lo sviluppo economico. Il primo tentativo di discutere di ambiente e sviluppo e delle relazioni tra questi fattori a livello internazionale si ebbe durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano tenutasi a Stoccolma nel 1972, che poneva la sua attenzione sui problemi ambientali dei paesi industrializzati. In quegli anni iniziava la politica degli ambientalisti, i quali insistevano sulla necessità di adottare un tipo di economia che non avesse incrementi e di conseguenza un economia con crescita nulla. Questo concetto era fondato sui risultati ottenuti da una ricerca del MIT (Massachussets institute of technology), commissionata dal “Club di Roma”e trattata nel libro “Limiti allo sviluppo” del 1972. In tale opera dopo una descrizione dei vari fattori alla base dello sviluppo, fra i quali, i più importanti, lo stock di capitale, il patrimonio di conoscenze scientifiche, l’innovazione tecnologica, e la dotazione di risorse naturali ed ambientali; si asseriva la presenza in aggiunta ad innegabili benefici, di rilevanti costi sociali in termini di mobilità, di adattamento e di impatti sull’ambiente, dovuti alla crescita, che avrebbero così causato il depauperamento di importanti risorse naturali e rilevanti problemi di inquinamento. Secondo la ricerca del MIT quindi, si verificherebbe una sorta di trade off tra sviluppo economico e ambiente; cioè la crescita esponenziale di qualunque sottosistema spingerebbe inevitabilmente il sistema economico a scontrarsi con i limiti dovuti alla disponibilità di risorse, all’aumento dell’inquinamento e alla sovrappopolazione. Anche se il rapporto del MIT è stato largamente criticato per le sue fosche ed irrealizzate previsioni, basate su relazioni deterministiche e non probabilistiche, e sulla sottovalutazione degli effetti potenziali del cambiamento tecnologico e della sostituzione delle risorse, esso ha avuto il merito di suscitare l’attenzione del mondo politico sul tema. La dichiarazione del 16 giugno 1972, firmata da 113 paesi partecipanti alla conferenza, rappresenta il primo grande documento di azione globale che prenda in considerazione tutti i fattori della relazione fra uomo e ambiente e che faccia proprie le raccomandazioni presenti nel rapporto del MIT, definendo in buona sostanza con i suoi 26 principi il concetto di sostenibilità dello sviluppo umano come interrelazione complessa fra tutti i fattori rilevanti presi in esame. Nella realtà dei fatti però, il problema ambientale e quello dello sviluppo vennero trattati separatamente, nonostante il fatto che all’incontro preparatorio si fosse ribadita la fiducia nella possibilità di conciliare sviluppo e ambiente in modi che potessero ottimizzare i sistemi ecologici e tecnologici. Il piano d’azione consisteva nei 26 principi sopra menzionati, nella creazione dell’UNEP (United nations environment program), e in 109 raccomandazioni per l’azione. Il risultato più importante fu la creazione dell’UNEP, guidato da un Consiglio Direttivo formato da 58 membri eletti dall’Assemblea Generale per 3 anni, e coadiuvato da un Segretariato ambientale. I compiti del Consiglio erano molteplici tra cui: promuovere la cooperazione internazionale nel campo ambientale, stabilire le linee guida della politica ambientale, esaminare i reports periodici del Direttore Esecutivo, controllare la situazione ambientale attraverso metodi tecnico–scientifici, regolare le politiche ambientali nazionali, istituire e gestire un fondo ambientale da utilizzare esclusivamente in tale ambito. Il Consiglio Direttivo dell’Unep non ebbe molta libertà di azione, sia perchè fu fin dall’inizio osteggiato dalle altre agenzie dell’Onu, che rimanevano comunque responsabili degli aspetti ambientali inerenti alle loro attività, e sia per la collocazione in una sede marginale (Nairobi), e la mancanza di potere operativo conferitogli. L’altro punto del piano d’azione era costituito da 109 raccomandazioni per l’azione il cui oggetto era costituito da: management delle risorse naturali, inquinamento e implicazioni internazionali, aspetti educazionali e sociali dell’ambiente, ambiente e sviluppo, organizzazioni internazionali. Solo 8 riguardavano il rapporto ambiente-sviluppo, ed erano decisamente negative, poiché la preoccupazione principale era quella di minimizzare i possibili costi della protezione ambientale. Durante quegli anni infatti si era sviluppata una concezione di politica ambientale caratterizzata dall’approccio di protezione/riparazione, facente capo ad una concezione di etica ambientale antropocentrica in contrapposizione con quella ecocentrica. La distinzione tra le due ruota attorno al valore che si attribuisce alla natura; nel primo caso “strumentale” in quanto utile per l’uomo attraverso i suoi diversi servizi (fornitrice di risorse ed utilità, ricettrice di scarti e rifiuti), nel secondo caso invece le viene dato un valore “intrinseco” da proteggere e rispettare. Parallelamente a tali etiche si sviluppano due posizioni antitetiche dell’uomo nel campo della riflessione sui problemi ambientali e sul rapporto ambiente-sviluppo rappresentate dalla frontier economics e dalla deep ecology. Per una descrizione si veda la tabella:

Fonte: Devall, Sessions. 1985.

Nell’esaminare le fasi salienti nell’evoluzione del rapporto ambiente-sviluppo si può notare un progressivo spostamento nel tempo, dalla visione dominante della frontier economics ad alcuni principi della deep ecology, passando attraverso diversi approcci collocati in fasi intermedie, che vanno da quello della protezione/riparazione al concetto di sviluppo sostenibile di cui si tratterà nel prossimo paragrafo.

b) Il rapporto Brundtland 1987: Il concetto di sviluppo sostenibile

Dopo la Conferenza di Stoccolma, che pone le basi per la riflessione sulla connessione tra ambiente e sviluppo, si comincia a delineare accanto a quello della riparazione/protezione un nuovo approccio che è oggi ancora molto attuale: quello della gestione delle risorse e del rischio. Il fulcro di questo approccio risiede nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie per incrementare la conservazione delle risorse in generale e l’efficienza energetica. All’ambiente naturale viene così attribuito un valore economico: il problema è pertanto quello di “economicizzare” l’ecologia, e in particolare di inserire le risorse naturali nella contabilità nazionale, considerando accanto alle risorse economiche tradizionali (lavoro, capitale, infrastrutture), il capitale naturale di cui deve essere ottimizzato lo sfruttamento. Anche le politiche ambientali subiscono una variazione di fondo, si tende a superare la classica regolazione diretta tipica dell’approccio riparazione/protezione, fornendo alle forze di mercato un corretto sistema di incentivi mirati alla promozione di una più efficiente gestione ambientale. A partire dagli anni ottanta quindi, si registra un mutamento di atteggiamento da parte dell’industria, che abbandona le posizioni strettamente difensive nei confronti dei problemi ambientali, e si responsabilizza sia cercando di internalizzare i costi ambientali (polluter pays), e sia migliorando la gestione delle risorse (risparmio di energia). La ricerca di una compatibilità ambientale diventa quindi una pre-condizione da perseguire mediante un grosso sforzo innovativo e tecnologico per la prosecuzione dello sviluppo economico. Nasce così un nuovo modello economico che prende in considerazione la compatibilità e l’interdipendenza  tra attività economiche e ambiente naturale, e che ha come presupposto l’idea che attraverso la conservazione delle risorse o la loro sostituibilità si possa avere una crescita che duri nel tempo. E’ questo il concetto base di sviluppo sostenibile divulgato dal Rapporto intitolato Our common future  (1987), durante La Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo sviluppo (Bruntland). In tale rapporto si definirono 22 principi per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile, raccomandando la loro incorporazione nelle leggi nazionali e regionali, o in convenzioni internazionali, e si diede la definizione ufficiale di “Sustainable Development” come: uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri. Tale sarebbe dovuto diventare l’obiettivo delle politiche ambientali, ed era possibile realizzarlo solo tramite l’armonizzazione delle esigenze economiche, ecologiche e sociali. I tre fattori chiave, Ambiente, Economia e Società, formano quindi un triangolo in cui la conservazione delle basi naturali della vita, l’efficienza economica e la solidarietà sociale sono interdipendenti.

Il concetto di sviluppo sostenibile appare quindi come un sistema di obiettivi che si identificano nelle diverse dimensioni della sostenibilità:

Sostenibilità economica. Ha come obiettivo il perseguimento dell’efficienza economica, che vista dal punto di vista ecologico è tanto più alta quanto più ridotto è l’uso delle risorse non rinnovabili e tanto più intenso è quello delle risorse rinnovabili.

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Sostenibilità ambientale. Mira al mantenimento dell’integrità dell’ecosistema, limitando o rimovendo il flusso degli inquinanti diretto verso l’ambiente naturale, ed evitando che quest’ultimo subisca delle trasformazioni strutturali ed irreversibili per effetto dell’azione umana. Si fa riferimento ai limiti ecologici relativi all’assorbimento di rifiuti ed inquinanti. Tali limiti possono essere ampliati sia razionalizzando i consumi e riducendone l’impatto ambientale, sia usando tecnologie volte ad ottenere prodotti più puliti.

Sostenibilità demografica. Tale dimensione pone l’accento sul concetto ecologico di “capacità di carico” inteso come la quantità di popolazione che può essere sostenuta da un dato territorio in relazione ad un dato modello di ...

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