Il significato dei principi del processo nella Cost.

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Il significato dei principi del processo nella Cost.

Non esistono caratteri immutabili e universalmente validi del processo il quale è attualmente retto dai seguenti principi:

  1. nessuno può essere giudice se non è sufficientemente distaccato dall’affare che deve trattare

  1. non è possibile che il giudice inizi egli stesso il processo

  1. deve essere sufficientemente garantita alle parti la possibilità di difendersi

  1. il giudice nel risolvere la controversia non si rifà a canoni di valutazione arbitrari ma si riferisce a canoni di valutazione precostituiti

A questa configurazione del processo si è pervenuti attraverso una lenta evoluzione storica che ha elevato a rango costituzionale i principi che lo reggono per cui nel caso in cui le leggi processuali ordinarie siano contrarie a tali principi esse possono essere denunciate alla Corte Cost. Come è noto nel nostro ordinamento non è possibile una denuncia diretta da parte dei cittadini essendo necessaria la valutazione di non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice del processo presso il quale la questione sia stata sollevata. I principi fondamentali sono complessi e tra loro interdipendenti, ad es. il divieto del giudice di iniziare il processo d’ufficio è il riflesso dell’esigenza di garantire la sua posizione neutrale la quale a sua volta presuppone che il giudice sia pienamente autonomo e indipendente anche se va detto che egli non può decidere arbitrariamente ma deve rifarsi a canoni di valutazione precostituiti. Hanno direttamente la funzione di garantire la neutralità del giudice le norme che prevedono:

  1. il divieto di iniziativa processuale d’ufficio (art 24)

  1. la garanzia del giudice naturale (art 25)

  1. il divieto di costituire giudici straordinari o speciali (art 102)

  1. la soggezione dei giudici alla legge (art 101)

Questi principi sono stati rafforzati e ribaditi dall’art 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo recepita in Italia con la legge del 48 n. 848. Occorre rilevare che il divieto di iniziativa ufficiosa emerge da un esame controluce della disposizione dell’art 24 cost. Al positivo la norma esprime il fondamentale principio secondo cui non è possibile per nessuna ragione ostacolare o limitare i cittadini nella difesa delle posizioni sostanziali riconosciute dall’ordinamento (diritti soggettivi-interessi legittimi). Quanto detto trova conferma nell’art 113 cost. che ribadisce tale principio anche quando ad essere convenuta in giudizio sia la P.A. Dal punto di vista negativo il rispetto delle posizioni riconosciute impone che solo chi si afferma portatore di tali posizioni può decidere se ricorrere o meno alla tutela giurisdizionale. Per quanto riguarda invece la garanzia del giudice naturale va detto che il costituente si è reso conto che non sarebbe mai stato considerato come neutrale dalla collettività il giudice che fosse stato scelto dopo la nascita della controversia o affare giudiziario o in base a criteri elaborati successivamente a tale nascita. E’ naturale dunque il giudice che sia scelto in virtù di criteri oggettivi preesistenti alla nascita del processo e che non sia straordinario o speciale. Per quanto riguarda infine la soggezione dei giudici alla legge va detto che al positivo la norma è in funzione dell’esigenza di garantire l’autonomia e indipendenza dei giudici dalle pressioni degli altri organi cost. mentre al negativo essa costituisce un limite dato che i giudici non possono oltrepassare la legge e devono ricercare in essa il canone di valutazione precostituito per i singoli casi concreti. Una conferma di questo aspetto del processo si ricava dall’art 111 cost. che stabilisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati e che contro le sentenze e gli altri provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dai giudici ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge. Risulta quindi evidente che la motivazione deve fare riferimento alla legge come al parametro oggettivo più rilevante al quale il giudice deve attenersi prima per decidere e poi per giustificare la sua decisione. Va anche precisato che la motivazione adempie alla sua funzione non solo nei confronti delle parti e dell’eventuale giudice dell’impugnazione ma anche nei confronti della collettività la quale attraverso essa è in grado di controllare la razionalità e obiettività dell’attività giurisdizionale.

AUTONOMIA E INDIPENDENZA DEI GIUDICI

Per garantire l’autonomia e indipendenza dei giudici da ogni altro potere statale il costituente ha organizzato la magistratura in un ordine autonomo e indipendente. A tal fine è stato creato un organo di autogoverno il C.S.M. al quale è affidata l’intera carriera dei magistrati. Poiché tuttavia era necessario stabilire un raccordo tra la magistratura e gli altri poteri statali e soprattutto il popolo sono stati immessi nel C.S.M. membri eletti dal parlamento e si è affidata la sua presidenza al P.D.R. al fine così di garantire il rispetto del limite della legge e per evitare che possa essere perseguita dal consiglio una politica di corporazione. Le vicende degli ultimi anni hanno però dimostrato che lo strumento adoperato non è comunque funzionale ai fini per cui era stato creato essendovi la tendenza della magistratura a porsi come un ordine separato e quella del potere politico a riacquistare il pieno controllo su tale ordine. Stando così le cose risultano comprensibili le discussioni e le proposte che vorrebbero modificare l’attuale composizione del C.S.M. dando la prevalenza o almeno parificando i membri eletti dal parlamento che oggi sono i 2/3 ai membri togati e ridurre le garanzie di autonomia e indipendenza dei giudici prevedendo la loro responsabilità. L’attenzione del costituente per le altre pressioni che possono influire sulla neutralità dei magistrati è stata invece minore o del tutto mancante. Tali pressioni possono essere così sintetizzate:

  1. pressioni provenienti dall’interno dell’ordine giudiziario

  1. pressioni provenienti da particolari rapporti che il giudice abbia con la controversia o con una delle parti

  1. pressioni provenienti da particolari ideologie o dall’appartenenza ad associazioni o partiti politici

  1. pressioni provenienti dai gruppi organizzati

Per quanto riguarda le pressioni provenienti dall’interno dell’ordine giudiziario va detto che poiché l’art 107 cost. dispone che i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni attualmente vi è un sostanziale annullamento della carriera che avviene automaticamente essendo del tutto svincolata dalle funzioni concretamente esercitate evitando così che essi possano essere assoggettati al potere dei capi degli uffici giudiziari. Per quanto riguarda i rapporti con la controversia o con una delle parti va detto che essi non sono presi in considerazione dalla cost. ma dalla legge ordinaria che tramite gli istituti della astensione e ricusazione fissa i casi in cui sussiste l’obbligo del giudice di astenersi o il potere della parte di chiederne la ricusazione. Tali casi sono rapporti di parentela, di interesse, di particolare amicizia, di inimicizia, di debito o credito o infine casi in cui il giudice abbia già avuto modo di pronunciarsi sulla causa. Occorre rilevare che il ricorso per ricusazione sospende il processo in corso e che la decisione è pronunciata con ordinanza non impugnabile che se di rigetto o inammissibilità provvede anche sulle spese e condanna il difensore o la parte ad una pena pecuniaria. Per quanto riguarda invece l’influenza che può derivare dalle ideologie o dall’appartenenza ad associazioni o partiti politici va detto che non esiste alcuna norma a riguardo dato che l’art 98 cost. che si limita a prevedere che si possono stabilire con legge limitazioni al diritto dei magistrati di iscriversi ai partiti politici non assolve certamente a tale compito. Allo stesso modo non esistono strumenti per evitare che la serenità di giudizio dei magistrati possa essere influenzata dai mezzi di pressione. L’unica norma che ha una qualche relazione con questo tema è l’art 114 c.p.p. che regola il divieto di pubblicazione di determinati atti.

ORGANI GIUDIZIARI SPECIFICI

Sappiamo che gli affari giudiziari sono affidati ai magistrati ordinari i quali fanno parte di un ordine autonomo e indipendente retto dal C.S.M. L’art 103 cost. prevede però anche altri organi giudiziari con specifiche competenze e precisamente:

  1. il Consiglio di stato e gli altri organi di giustizia amm. per la tutela nei confronti della P.A. degli interessi legittimi e in particolari materie anche dei diritti soggettivi

  1. la Corte dei conti per le materie di contabilità pubblica e per le altre espressamente previste dalla legge

3) i Tribunali militari per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate in tempo di pace e per la giurisdizione prevista dalla legge in tempo di guerra

Occorre rilevare che dopo l’entrata in vigore della costituzione che ha vietato l’introduzione di giudici straordinari o speciali va detto che sono rimasti in vita come giudici speciali:

1) le Commissioni tributarie

2) i Commissari liquidatori degli usi civici

  1. il Tribunale superiore delle acque pubbliche

Poiché tuttavia la creazione di giudici speciali risponde alla fondamentale esigenza di avere per determinati affari giudiziari organi dotati di particolare tecnica e sensibilità rispetto a quella dei magistrati ordinari l’art 102 ha previsto che possono istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari solo delle sezioni specializzate per determinate materie anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. In questo modo la sezione specializzata è un giudice ordinario anche se composta in modo particolare e ciò anche quando i membri togati siano in posizione minoritaria. Le più importanti sezioni specializzate attualmente in funzione sono:

  1. il Tribunale per i minori

  1. il Tribunale regionale per le acque

  1. le Sezioni specializzate agrarie

4) la Sezione speciale della Corte d’appello di Roma cui competono i reclami contro le decisioni dei commissari liquidatori degli usi civici

Non sono invece né giudici speciali né sezioni specializzate le sezioni di pretura e di tribunale operanti come giudici del lavoro dato che esse non sono composte in modo diverso dalle altre.

LA GIURISDIZIONE

In passato si riteneva che le funzioni dello stato fossero solo tre e che esse potevano essere nettamente distinte tra loro:

  1. Funzione legislativa volta all’emanazione delle leggi

  1. Funzione esecutiva volta alla concreta attuazione di tutte le esigenze di governo

3) Funzione giurisdizionale volta all’applicazione delle leggi

Tale ripartizione non è condivisa dagli stati moderni dove da in lato si dubita che le funzioni siano solo tre essendovi anche la funzione di governo e dall’altro riesce sempre più difficile stabilire i confini tra le varie funzioni dato che sia la funzione esecutiva che quella giurisdizionale sono entrambe rivolte in senso ampio all’attuazione delle leggi dello stato. Ciò si verifica sia perché ai giudici sono affidati compiti che assomigliano sempre di più a quelli propri del potere amministrativo (si pensi alla volontaria giurisdizione e al processo esecutivo) sia perché gli Amministratori svolgono funzioni che si avvicinano sempre di più a quelle proprie del potere giurisdizionale (si pensi agli accertamenti AMM. o alle procedure espropriative). In dottrina sono stati fatti numerosi tentativi per cercare di individuare i criteri differenziali. A nostro modo di vedere il proprium della giurisdizione è dato dal fatto che mentre il giudice tratta dell’affare giudiziario sempre nella posizione di terzo imparziale la P.A. invece nell’attuare le pubbliche funzioni realizza sempre un proprio interesse. Definita quindi la funzione giurisdizionale come quella diretta all’attuazione della legge da parte di soggetti che si comportano come terzi imparziali va detto che esistono 4 tipi di giurisdizione:

1) la giurisdizione penale che è quella preposta all’attuazione delle norme penali le quali si contraddistinguono dalle altre per il fatto di essere garantite da sanzione penale

2) la giurisdizione Amm. che ha ad oggetto la tutela degli interessi legittimi e in casi particolari previsti dalla legge anche dei diritti soggettivi

3) la giurisdizione civile che ha ad oggetto tutte le materie che la legge non affida alla giurisdizione penale e a quella Amm.

4) la giurisdizione costituzionale che ha il compito di sindacare la conformità alla costituzione delle leggi e degli atti aventi forza di legge nonché il compito di giudicare sui conflitti di attribuzione tra i vari poteri sia statali che regionali e sulle accuse promosse contro il P.D.R. e i ministri a norma della Cost.

LE VARIE FORME DI GIURISDIZIONE CIVILE

I giudici civili svolgono molteplici funzioni fortemente caratterizzate le une rispetto alle altre. In linea di prima approssimazione si può dire che esiste:

1) una giurisdizione contenziosa caratterizzata dall’esservi una controversia tra più persone che si presentano davanti al giudice in posizione contrapposta

2) una giurisdizione esecutiva che ha la funzione di realizzare anche coattivamente determinati comandi ai quali l’ordinamento riconosce particolare efficacia

3) una giurisdizione volontaria dove non vi è controversia da risolvere ma si tratta di gestire un negozio o affare che richiede l’intervento di un terzo imparziale

La differenza fondamentale tra giurisdizione contenziosa e volontaria è data dal fatto che in sede contenziosa i giudici emettono un provvedimento che è in grado di regolare con stabilità il rapporto controverso tra le parti in lite. Ciò significa che tale provvedimento, una volta che siano stati esperiti tutti i rimedi processuali previsti dall’ordinamento o siano inutilmente decorsi i termini per esperirli, diviene stabile in modo da porsi da questo momento in poi come fonte della normativa che disciplina il rapporto sostanziale controverso. Nella giurisdizione volontaria invece ciò non avviene perché essendo i provvedimenti indirizzati ad una migliore gestione degli affari o negozi essi vengono emessi in base ad una valutazione di opportunità che può anche mutare nel tempo. Occorre tuttavia precisare che esiste una molteplicità di situazioni in cui si passa da forme chiare e semplici di volontaria giurisdizione a forme articolate e complesse che assumono sempre di più i caratteri del processo contenzioso ( si pensi alle nomine di rappresentanti di minori, interdetti o inabilitati il cui iter procedimentale è abbastanza semplice rispetto ai provvedimenti di adozione o affiliazione che invece richiedono la partecipazione al procedimento di una pluralità di interessati o ad es. nel campo successorio alle autorizzazioni a compiere atti di disposizione sui beni ereditari il cui iter procedimentale è semplice rispetto ai provvedimenti riguardanti la fissazione di termini o l’imposizione di cauzioni per i quali vi è l’esigenza di realizzare un preventivo contraddittorio tra più persone interessate al provvedimento). I procedimenti di volontaria giurisdizione sono disciplinati dagli art.737 e ss. i quali prevedono un procedimento in camera di consiglio. Queste disposizioni si adattano bene alle sole procedure in cui vi sia un solo interessato al provvedimento cd. Procedure unilaterali. In questi casi la competenza territoriale è inderogabile e per i provvedimenti ai quali sono interessati i minori il giudice competente si desume ai sensi dell’art 38 disp. att. c.c. Oltre a ciò va detto che:

1) la domanda consiste in un ricorso

2) l’istruttoria si concreta nell’assunzione di informazioni d’ufficio

3) il contraddittorio s’intende realizzato con l’audizione del P.M. al quale vanno previamente comunicati gli atti affinchè stenda il suo parere

4) il provvedimento ha la forma del decreto motivato impugnabile con il reclamo al tribunale o alla corte d’appello entro il termine perentorio di 10 giorni dalla comunicazione se dato nei confronti di una sola parte o dalla notificazione se dato nei confronti di più parti

5) il P.M. può proporre reclamo entro il termine perentorio di 10 giorni solo contro i decreti del giudice tutelare e contro quelli del tribunale per i quali è necessario il suo parere

6) non è ammesso alcun controllo da parte della corte di cassazione

7) i decreti sono sempre revocabili e modificabili ma restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla revoca o modifica

Poiché le procedure unilaterali sfociano di solito in provvedimenti che sono il presupposto di una convenzione si ci è chiesti:

a) se esistano deroghe alla salvezza dei diritti acquistati in buona fede dai terzi (a nostro modo di vedere la risposta deve essere affermativa)

b) se i provvedimenti influiscano sempre sulle convenzioni stipulate successivamente ( a nostro modo di vedere la risposta deve essere negativa)

c) se per convenzione s’intenda un contratto a titolo oneroso ovvero un qualsiasi atto bilaterale (a nostro modo di vedere deve accogliersi la seconda soluzione)

A differenza delle procedure unilaterali quelle bi-plurilaterali possono dar vita a contrasti di interessi che il legislatore ha ritenuto opportuno comporre in sede non contenziosa. Quanto detto trova conferma nel diverso termine previsto per la presentazione del reclamo il quale lascia intendere che il procedimento debba essere organizzato in modo da garantire il rispetto del contraddittorio. Naturalmente se ciò si verifica tali provvedimenti avranno maggiore attitudine a diventare stabili.

L’ARBITRATO

Ci si è chiesti se la funzione giurisdizionale possa essere esercitata oltre che dai magistrati ordinari anche da altre persone. Ciò è impossibile per tutte le forme del processo volontario che sono contrassegnate dall’essere affidate ad un magistrato di carriera, è difficilmente ipotizzabile nel campo del processo esecutivo non essendo consentito l’uso della forza per costringere altri ad adempiere alle proprie obbligazioni mentre è possibile nel campo della giurisdizione contenziosa dove nulla si oppone alla decisione delle parti di far decidere la controversia anziché dai giudici dello stato da persone di loro fiducia. Il legislatore ha regolato questo tradizionale istituto che prende il nome di arbitrato. Dopo le modifiche apportate dalla legge dell’83 n.28 e da quella del 94 n. 25 la disciplina può essere così sintetizzata. Le parti possono stabilire con un contratto scritto cd. Compromesso di far decidere dagli arbitri una controversia già insorta e ben individuata che abbia ad oggetto diritti disponibili. Le

stesse possono anche stabilire con una clausola cd. Compromissoria di un più complesso contratto che stipulano o anche con un atto separato che si colleghi ad esso che le future controversie scaturenti dal contratto siano decise dagli arbitri. Gli arbitri emettono una decisione secondo diritto a meno chè non siano autorizzati dalle parti a pronunciare secondo equità. La pronuncia prende il nome di Lodo e può essere depositata insieme con gli atti preliminari nella cancelleria della pretura nella cui circoscrizione vi è la sede dell’arbitrato. Nel caso in cui il lodo sia depositato il pretore ne accerta la regolarità formale e lo dichiara esecutivo con decreto. Al tribunale può essere proposto reclamo solo contro il decreto che nega l’esecutorietà al lodo. Il lodo è soggetto a correzione degli errori materiali, ad impugnazione per i motivi di nullità di cui all’art 828 davanti alla corte d’appello nella cui circoscrizione vi è la sede dell’arbitrato nonché a revocazione e ad opposizione di terzo nei casi previsti dalla legge. Le ragioni che spingono le parti a fare ricorso all’arbitrato sono essenzialmente due:

1) rapidità della decisione dato che essi devono decidere normalmente entro 180 giorni

2) fiducia nelle particolari conoscenze tecniche richieste dalla controversia di cui gli arbitri sono in possesso

In passato la disciplina del codice imponeva alle parti e agli arbitri di depositare i lodi davanti al giudice subordinandone l’efficacia all’omologazione. Poiché ciò comportava la necessaria pubblicità degli atti e documenti del processo arbitrale i privati pensarono di fare ricorso a degli arbitrati liberi obbligandosi a non depositare i lodi conclusivi e quindi a non farli omologare. Questa prassi diede luogo ai cd. Arbitrati irrituali i quali si distinguevano da quelli rituali per l’efficacia dei lodi e per il regime d’impugnazione. I lodi rituali infatti essendo omologabili erano destinati a tradursi in sentenze mentre quelli irrituali erano e rimanevano negozi. Oggi dopo le riforme dell’83 e 94 tale differenza tende a scemare per ciò che concerne l’efficacia dei lodi (ma non anche per il regime d’impugnazione) dato che anche nell’arbitrato rituale le parti possono decidere ex post se far o non far omologare i lodi. Prima dell’entrata in vigore della cost. l’arbitrato non era visto con eccessivo favore essendo considerato come un privilegio una giustizia alternativa a cui potevano fare ricorso solo i ceti più abbienti. L’intensificarsi delle relazioni economiche e commerciali tra il nostro paese e gli altri stati manifestò tuttavia il bisogno di rendere omogenea la disciplina del c.p.c. a quella delle convenzioni internazionali che regolavano l’istituto dell’arbitrato. Il primo tentativo fu fatto con la legge dell’83 n 28. Il problema principale riguardava l’efficacia del lodo rituale dato che secondo la convenzione di New York del 58 il lodo ha efficacia a prescindere dall’omologazione. Da quanto detto ne derivava che mentre potevano essere delibati in Italia lodi non omologati resi all’estero vi erano delle difficoltà ad ottenere che fossero delibati all’estero lodi non omologati resi in Italia. La legge dell’83 n. 28 intervenne soprattutto per equiparare il trattamento dei lodi italiani a quello dei lodi resi all’estero ammise la partecipazione al collegio arbitrale di arbitri stranieri, la firma separata degli arbitri senza bisogno di una nuova conferenza personale tra loro e individuò il momento di perfezionamento del lodo nella sottoscrizione. Le disposizioni della legge dell’83 diedero luogo a dei contrasti interpretativi per cui il legislatore è dovuto intervenire di nuovo nel 94 modificando la disciplina vigente ed introducendo due nuovi capi dedicati all’arbitrato internazionale e ai lodi stranieri. Tali modificazioni possono essere raggruppate secondo due linee direttive:

1) Disposizioni ispirate al favor per l’arbitrato

2) Disposizioni volte ad eliminare i dubbi sull’efficacia del lodo e sul regime d’impugnazione

Tra le disposizioni di favor per l’arbitrato possiamo ricordare:

a) quella che dispone che la forma scritta del compromesso s’intende rispettata anche quando la volontà sia espressa tramite telegrafo o telescrivente

b) quella che dispone che la validità della clausola compromissoria va valutata in modo autonomo rispetto al contratto

c) quella che prevede che nel caso di parità di arbitri l’ulteriore arbitro sia nominato dal presidente del tribunale se le parti non hanno stabilito diversamente. Lo stesso dicasi nel caso in cui manchi l’indicazione del numero degli arbitri e le parti non si accordino al riguardo (normalmente sono tre)

d) quella che prevede che in caso di mancata nomina dell’arbitro da parte di uno dei soggetti la controparte possa ottenere la nomina giudiziale dal presidente del tribunale nella cui circoscrizione vi è la sede dell’arbitrato o se questa non è determinata da quello del luogo di stipulazione del compromesso o del contratto contenente la clausola compromissoria e nel caso in cui tale luogo si trovi all’estero da quello del tribunale di Roma

e) quella che prevede il procedimento per la sostituzione dell’arbitro che pur essendo stato diffidato ometta o ritardi colpevolmente di compiere atti relativi alle sue funzioni

f) quella che prevede che l’istanza di ricusazione va proposta nel termine perentorio di 10 giorni dalla notificazione della nomina o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione

g) quella che prevede come si determina la sede dell’arbitrato e la possibilità di stabilire con atto separato le norme sul procedimento

h) quella che prevede la sospensione necessaria del giudizio arbitrale solo quando questo dipenda dalla soluzione di una questione che per legge non può costituire oggetto di arbitrato

I) quella che prevede che la competenza degli arbitri non è esclusa dalla connessione della controversia ad una causa pendente davanti al giudice

l) quella che prevede la durata di 180 giorni per la pronuncia del lodo e la possibilità di lodi non definitivi

m) quella che prevede che sul reclamo contro il decreto che nega l’esecutorietà al lodo provvede il tribunale in camera di consiglio

Tra le disposizioni volte ad eliminare i dubbi sull’efficacia e sul regime d’impugnazione possiamo ricordare:

1) quella che sostituisce in alcuni articoli alla parola sentenza la parola lodo

2) quella che prevede la possibilità di proporre opposizione di terzo, di impugnare i lodi parziali nonché la possibilità di impugnare indipendentemente dalla omologazione

3) quella che prevede che l’impugnazione per nullità va fatta alla corte d’appello nella cui circoscrizione vi è la sede dell’arbitrato non oltre un anno dall’ultima sottoscrizione

4) quella che prevede come ulteriori motivi di nullità il contrasto con un precedente giudicato espressamente dedotto e la violazione del principio del contraddittorio

5) quella che consente alla corte d’appello di dichiarare la nullità parziale del lodo e qualora accolga l’impugnazione di pronunciarsi anche sul merito

6) quella che modifica la disciplina della revocazione

7) quella che equipara la domanda arbitrale ad una domanda giudiziale ai fini della interruzione della prescrizione e della possibilità di trascrizione

Solo l’esperienza e la riflessione critica ci diranno se le soluzioni adottate siano tecnicamente corrette dato che qualche dubbio e già stato avanzato in dottrina come ad es. quello sulla disciplina della forma scritta che non prevede i fax e quello sulla disciplina d’impugnazione dei lodi parziali la quale  non è chiara. Per concludere va poi detto che la disciplina dell’arbitrato internazionale ricalca quella della convenzione di Ginevra del 61 e si riferisce a quei giudizi nei quali almeno una delle parti risieda o abbia la propria sede effettiva all’estero nonché a quei giudizi che abbiano ad oggetto controversie relative a rapporti le cui prestazioni debbano eseguirsi all’estero in misura rilevante. Per quanto riguarda infine il riconoscimento e l’esecuzione in Italia dei lodi stranieri va detto che il lodo è straniero non quando sia pronunciato all’estero ma quando le parti o gli arbitri abbiano determinato all’estero la sede dell’arbitrato.

LE QUESTIONI DI GIURISDIZIONE E IL REGOLAMENTO

Il giudice prima di trattare di una controversia deve porsi il quesito se sia o meno fornito di giurisdizione dato che il relativo difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. La risposta al quesito almeno per ciò che concerne il giudice civile non è valida in assoluto ma dipende dall’attuale ordinamento dato che questi può dirsi munito di giurisdizione quando la controversia non rientra nella sfera di giurisdizione del giudice penale e di quello amministrativo (la giurisdizione civile si ricava cioè in via residuale). La giurisdizione ha dunque ad oggetto la sfera di potere giurisdizionale attribuita ai giudici nei rapporti con altri giudici di ordine diverso. Il problema in pratica nasce in relazione ai rapporti tra giudici amministrativi e civili e l’elemento che contraddistingue l’una e l’altra giurisdizione è la natura della situazione sostanziale controversa (a seconda che si tratti cioè di diritti soggettivi o interessi legittimi). Il problema però può sorgere anche con riferimento ad altre due possibili situazioni e cioè:

  1. La situazione sostanziale non è affatto tutelabile in sede giurisdizionale

2) La situazione sostanziale rientra nella sfera di giurisdizione di un giudice straniero

Riguardo alla prima ipotesi va detto che essa è ipotizzabile solo nei rapporti tra cittadini e P.A. per le situazioni di cd. Interesse semplice. Per quanto riguarda la seconda ipotesi va detto che il problema si pone solo quando lo straniero che non ha la residenza o il domicilio in Italia sia convenuto e che in base alla legge del 31/5/95 n. 218 il relativo difetto può essere rilevato solo dal convenuto costituitosi che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana in ogni stato e grado del procedimento mentre deve essere rilevato d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento soltanto nelle cause concernenti beni immobili situati all’estero, quando il convenuto sia contumace nonché nei casi in cui norme internazionali escludano la giurisdizione italiana. Nel caso in cui sorga una questione di giurisdizione le parti possono presentare istanza alla Corte di Cassazione ma solo fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado. L’istanza che si propone con ricorso dopo essere stata depositata nella cancelleria del giudice avanti al quale pende la causa produce la sospensione del processo con ordinanza non impugnabile solo se il giudice non ritenga l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. La sentenza della cassazione che regola la giurisdizione sopravvive all’estinzione del processo e qualora la causa sia riassunta entro sei mesi dalla comunicazione non pregiudica le questioni sulla proponibilità della domanda o sulla pertinenza del diritto. Il regolamento di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c. ha dato luogo ha vari problemi applicativi che la giurisprudenza ha cercato di risolvere. A tal fine si è ritenuto:

1) che il regolamento di giurisdizione non è un mezzo d’impugnazione per cui esso può essere proposto anche da quelle parti che non sono legittimate a proporre impugnazione in via autonoma come ad es. gli interventori adesivi dipendenti

2) che la decisione di primo grado che preclude la proposizione del regolamento è solo quella che forma la cosa giudicata cioè quella che statuisce sull’esistenza o inesistenza del diritto controverso e non anche quella che decide eventuali questioni pregiudiziali di rito

3) che il regolamento di giurisdizione è proponibile non solo nel processo contenzioso ordinario ma anche in pendenza di altri procedimenti come ad es. quelli cautelari o esecutivi ed anche davanti a giudici di ordine diverso come ad es. quelli amministrativi

LA COMPETENZA

Il giudice dopo aver stabilito se abbia giurisdizione deve stabilire se è competente. La competenza è la quantità di potere giurisdizionale riconosciuta a ciascun ufficio giudiziario nei confronti degli altri uffici giudiziari appartenenti allo stesso ordine. Il legislatore ha stabilito tre criteri di collegamento tra le controversie e gli uffici giudiziari:

1) quello fondato sulla natura della causa cd. Competenza per materia

  1. quello fondato sul valore della causa cd. Competenza per valore

3) quello fondato su determinati elementi di collegamento spaziale tra la controversia e gli uffici giudiziari cd. Competenza per territorio

Occorre rilevare che poiché vi sono sia tanti giudici dello stesso tipo sia giudici di tipo diverso gli uffici giudiziari vengono organizzati secondo una dislocazione orizzontale e sono strutturati in senso piramidale. Alla dislocazione orizzontale fanno capo i criteri di competenza territoriale dato che essi stabiliscono se una controversia spetti ad un determinato mandamento pretorile piuttosto che ad un altro, ovvero se la controversia spetti ad un determinato circondario piuttosto che ad un altro, ovvero se la controversia spetti ad un determinato distretto di corte d’appello piuttosto che ad un altro. Alla dislocazione in senso verticale o piramidale fanno invece capo i criteri di competenza per materia e valore dato che essi stabiliscono se la controversia spetti nell’ordine agli uffici del giudice di pace, alle preture o al tribunale e nei gradi successivi alle corti d’appello e alla corte di cassazione. Per stabilire la competenza di una controversia occorre operare nel seguente modo. In primo luogo occorre vedere se la controversia rientri nelle attribuzioni di un determinato ufficio giudiziario per ragioni di materia e se ciò non sia si passa ad esaminare il valore. Determinato il giudice competente in primo grado per materia o valore e cioè il giudice di pace, il pretore o il tribunale si determina quale di essi sia competente per territorio. La competenza per i gradi successivi è determinata automaticamente tenuto conto dei vari scalini della piramide. Da quanto detto ne deriva che mentre la ripartizione della competenza  secondo criteri territoriali risponde a ragioni prevalentemente organizzative e cioè evitare di intasare alcuni uffici e lasciare privi di lavoro altri, la ripartizione della competenza secondo i criteri di materia e valore risponde a valutazioni che attengono alla importanza e alle caratteristiche intrinseche della lite in base alle quali il legislatore ritiene che determinate controversie siano decise meglio da alcuni giudici piuttosto che da altri. Ciò comporta che mentre l’incompetenza per materia o per valore (al quale va assimilata quella territoriale inderogabile) da luogo a dei vizi abbastanza gravi, quella per territorio derogabile da invece luogo ad un vizio meno grave. Dispone infatti l’art 38 c.p.c. che l’incompetenza per materia, valore, e per territorio inderogabile può essere rilevata anche d’ufficio non oltre la prima udienza di trattazione. L’incompetenza territoriale derogabile deve invece essere eccepita dalla parte interessata nel primo atto difensivo del giudizio di primo grado con espressa indicazione del giudice che la parte ritiene competente. Occorre rilevare che l’art 6 c.p.c. disciplina gli accordi sulla competenza anteriori al giudizio i quali sono possibili solo con riguardo alla competenza territoriale derogabile e devono avvenire con le forme previste dal codice. Negli altri casi la deroga è invalida e l’invalidità può essere fatta valere con un eccezione non oltre la prima udienza di trattazione. Il sistema delineato dal nuovo art 38 c.p.c. è simile a quello previsto per le cause di lavoro e se ne discosta sostanzialmente per due punti:

1) la prima differenza è data dal fatto che mentre il giudice ordinario deve rilevare l’incompetenza fino alla prima udienza di trattazione il giudice del lavoro la può rilevare per tutta l’udienza di discussione

  1. la seconda differenza è data dal fatto che mentre nel rito ordinario la parte può eccepire l’incompetenza (tranne quella territoriale derogabile) fino alla prima udienza di trattazione nel rito del lavoro la parte deve eccepirla nella comparsa di risposta.

IL PRINCIPIO DELLA PERPETUATIO JURISDIZIONIS

La distribuzione degli affari giudiziari risponde come è noto ad esigenze organizzatorie e alla necessità di tener conto di alcune caratteristiche intrinseche della controversia. Tale distribuzione per non contrastare con la garanzia del giudice naturale deve essere effettuata in base a criteri precostituiti che si riferiscono ad intere classi di controversie o affari giudiziari. La normativa non sarebbe però completa se le parti fossero in grado di eludere il criterio fissato dal legislatore con artefici posti in essere in pendenza del processo ad es. cambiando residenza o domicilio. Per queste ragioni l’art 5 c.p.c. dispone che la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge e dello stato medesimo. Tale norma nella sua formulazione originaria prevedeva la sola irrilevanza dei mutamenti di fatto ma a seguito della legge del 90 n.353 si è dato risalto anche alla irrilevanza dei mutamenti legislativi. L’innovazione lascia comunque aperti alcuni problemi:

1) in primo luogo è possibile che la legge sopravvenuta incida non sulla giurisdizione ma sul rapporto oggetto della domanda (ad es. trasformazione del rapporto di lavoro da pubblico in privato come nel caso delle F.S.)

  1. in secondo luogo è possibile che la legge sopravvenuta incida sulla giurisdizione originariamente spettante ad un giudice speciale

3) in terzo luogo è possibile che la legge sopravvenuta convalidi una giurisdizione o una competenza che il giudice originariamente adito non aveva

La prima questione che non è risolta dall’art 5 c.p.c. non riguarda il principio della P.I. ma direttamente quello dell’oggetto della domanda per cui nel caso in cui l’attore insista nell’originaria richiesta la domanda non potrebbe essere accolta sulla base della nuova legge mentre nel caso in cui egli modifichi la domanda alla stregua della legge sopravvenuta il giudice adito originariamente dovrebbe dichiarare il sopravvenuto difetto di giurisdizione. La seconda questione va risolta nel senso che l’art 5 c.p.c. si applicherà nei processi pendenti davanti ai giudici speciali solo se in esso si veda l’espressione di un principio generale. Per quanto riguarda infine la terza questione va detto che non vi è alcuna ragione per non ammettere la rilevanza del mutamento.

COMPETENZA PER MATERIA

Per quanto riguarda la competenza per materia cioè quella che viene fissata in considerazione delle caratteristiche intrinseche della controversia va detto che in base alle leggi del 90 n. 353 e del 95 n. 534 essa è oggi così strutturata:

1) Il giudice di pace ai sensi dell’art 7 c.p.c. è competente per le cause relative ad apposizioni di termini e ad osservanza di distanze riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi, per quelle relative alla misura e alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case, per quelle in materia di immissioni moleste nei rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione

2) Il pretore ai sensi dell’art 8 c.p.c. è competente per le cause possessorie (nuova opera e danno temuto) nonché per le cause relative a rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e per quelle relative ad affitto di aziende che non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie

3) La competenza per materia del tribunale si ricava in modo residuale dato che l’art 9 c.p.c. stabilisce che esso è competente per tutte le cause non affidate al pretore e al giudice di pace. Il tribunale è altresì esclusivamente competente per tutte le cause in materia di imposte e tasse, per quelle relative allo stato e alla capacità delle persone, ai diritti onorifici e alla querela di falso. Occorre rilevare per ciò che concerne i tribunali che la legge del 90 n. 353 ha distinto in base alle caratteristiche delle controversie, quelle che devono essere decise monocraticamente dal giudice istruttore da quelle che invece spettano alla decisione collegiale stabilendo peraltro che l’eventuale errore nella scelta tra giudice monocratico e giudice collegiale non è equiparabile a quello derivante dall’incompetenza. Tale soluzione non appare comunque soddisfacente perché non consente al giudice dell’impugnazione, una volta dichiarato l’errore di restituire gli atti al primo giudice dovendo in tal caso decidere anche nel merito.

COMPETENZA PER VALORE

Per quanto riguarda la competenza per valore va detto che:

1) Il giudice di pace è competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a 5 milioni quando non siano attribuite alla competenza di altro giudice e per quelle relative al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli e dei natanti purchè il valore della controversia non superi i 30 milioni

2) Il pretore invece è competente per le cause anche se relative a beni immobili di valore non superiore ai 50 milioni che non siano di competenza del giudice di pace

3) Il tribunale è competente per tutte le altre cause che non siano di competenza del pretore e del giudice di pace ed in generale per quelle di valore indeterminabile

L’art 10 c.p.c. dispone che il valore di una causa ai fini della competenza si determina dalla domanda. Questo principio comporta due conseguenze:

1) in primo luogo va detto che nulla esclude che il giudice adito con la domanda possa pronunciare una sentenza che vada al di sotto dei limiti i sua competenza

2) in secondo luogo va detto che una volta proposta la domanda non è possibile ai fini della competenza modificarla aumentandone o diminuendone il valore

Questo principio che non è altro che una proiezione del principio della P.I. si arricchisce di numerose specificazioni in relazione alle varie ipotesi che possono realizzarsi in concreto. Innanzi tutto va detto che poiché è raro che nella pratica venga proposta una sola domanda l’art 10 2° comma chiarisce che tutte le domande proposte nello stesso processo contro la stessa persona si sommano tra loro per cui vanno trattate unitariamente ai fini della competenza anche se va chiarito che esse restano distinte. La stessa disposizione aggiunge che gli interessi scaduti, le spese e i danni anteriori alla proposizione della domanda si sommano al capitale per cui è come se concorressero a formare una sola domanda. L’art 10 c.p.c. deve essere messo in rapporto con l’art 14 c.p.c. il quale prende in considerazione il caso in cui l’attore non abbia potuto o voluto quantificare la domanda fin dalla presentazione dell’atto introduttivo. Secondo questa disposizione se si tratta di cause relative a somme di danaro o a beni mobili nel caso in cui manchi l’indicazione del valore da parte dell’attore la causa si presume di competenza del giudice adito. Ciò significa che quando l’attore non abbia indicato il valore della causa, per presunzione di legge, alla domanda va attribuito un valore pari al massimo della competenza del giudice adito. Da quanto detto ne deriva che nel caso in cui vengano proposte più domande tutte indeterminate per effetto del combinato disposto degli art 10 e 14 c.p.c. (valore massimo e somma delle domande) e facile che si corra il rischio di aver adito un giudice incompetente. Ci si è chiesti come debbano essere considerate le domande relative agli interessi da scadere, alle spese e ai danni posteriori alla proposizione della domanda. Poiché si tratta di cose che l’attore non può conoscere al momento della proposizione della domanda (il tutto dipende dalla durata del processo) si è ritenuto che per evitare l’incompetenza il valore di tali richieste non debba essere calcolato ai fini della competenza. Va anche precisato che l’ultimo comma dell’art 14 c.p.c. disponendo che se il convenuto non contesta il valore dichiarato o presunto questo rimane fissato nei limiti della competenza del giudice adito anche agli effetti del merito offre allo stesso la possibilità di far si che, nel caso in cui l’attore abbia adito un giudice che abbia una competenza per valore inferiore a quello della controversia effettiva che, questi nel decidere non possa comunque superare con la decisione il valore di sua competenza. A differenza dell’art 14 l’art 15 c.p.c. si occupa della determinazione del valore delle cause relative a beni immobili disponendo che esso è determinato moltiplicando il reddito dominicale del terreno e la rendita catastale del fabbricato alla data di presentazione della domanda :

1) per 200 se si tratta di cause relative alla proprietà

2) per 100 se si tratta di cause relative all’usufrutto, all’uso, all’abitazione, alla nuda proprietà e al diritto dell’enfiteuta

3) per 50 se si tratta di cause relative alla servitù (il bene è il fondo servente)

Il valore delle cause per il regolamento di confini si desume dal valore della parte di proprietà controversa se questa è determinata altrimenti si procede a norma del comma seguente il quale recita che se per l’immobile non risulta all’atto di presentazione della domanda ne il reddito dominicale ne la rendita catastale il giudice determina il valore della causa in base a quanto emerge dagli atti e se questi non offrono elementi di stima ritiene la causa di valore indeterminabile.

COMPETENZA PER TERRITORIO

Per quanto riguarda la competenza per territorio va detto che i FORI ossia gli uffici giudiziari territorialmente competenti si distinguono in:

FORI GENERALI e FORI SPECIALI. Fori generali sono quelli davanti ai quali ognuno può essere convenuto in ogni controversia. Essi sono salva diversa disposizione di legge:

1) Per le persone fisiche quelli del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio e se questi sono sconosciuti quelli del luogo in cui il convenuto ha la dimora. Nel caso in cui il convenuto non abbia ne residenza ne dimora ne domicilio nel territorio della repubblica e quando la dimora sia sconosciuta il foro generale è quello del luogo in cui risiede l’attore

2) Per le persone giuridiche quelli del luogo dove vi è la sede o quelli del luogo dove la persona giuridica ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l’oggetto della domanda. Occorre rilevare che le società non aventi personalità giuridica, le associazioni non riconosciute e i comitati hanno sede dove svolgono attività in modo continuativo.

Fori speciali sono quelli specificamente riservati per determinate controversie( ad es. quelli del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione nel caso di cause relative a diritti d’obbligazione. Essi si distinguono in:

1) Esclusivi quando il convenuto deve esservi tratto a preferenza di qualsiasi altro ad es. quelli del luogo in cui si è aperta la successione per ciò che concerne le cause ereditarie

2) Elettivamente concorrenti che sono quelli che possono essere scelti a discrezione dell’attore ad es. quello del luogo concordato dalle parti

3) Successivamente concorrenti che sono quelli in cui l’attore può adire uno solo in mancanza dell’altro ad es. quello previsto dall’art 413 c.p.c. per il rito del lavoro

Per concludere va chiarito che vi sono dei Fori che sono inderogabili per ciò che concerne le controversie elencate dall’art 28 c.p.c. ad es quelli per le cause di esecuzione forzata e di opposizione alla stessa, e per i processi cautelari e possessori

IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA

Il nuovo art 38 c.p.c. dispone che le parti possono eccepire l’incompetenza per materia, per valore, e per territorio inderogabile fino alla prima udienza di trattazione. Il giudice può rilevarla entro lo stesso termine anche d’ufficio. Stando così le cose non può non condividersi l’atteggiamento dei G.I. i quali avvalendosi del potere previsto dall’art 187 c.p.c. preferiscono non rinviare la causa al collegio per far decidere la questione di competenza rinviando ogni decisione al momento in cui sarà definito anche il merito. Si evita in questo modo quando la questione di incompetenza sia palesemente infondata una inutile frantumazione del giudizio che potrebbe dar luogo a provvedimenti che portati davanti alla suprema corte comportino una inevitabile sospensione della trattazione di merito ( il processo è sospeso d’ufficio nel caso di regolamento di competenza). In sostanza il sistema attuale è questo:

1) se il giudice ritiene di essere competente solitamente si astiene dal decidere sulla competenza rinviando tale decisione al momento in cui deciderà anche il merito

2) se invece il giudice ritiene di non essere competente decide in modo autonomo sulla competenza con una pronuncia allo stato degli atti

Da quanto esposto ne deriva che possono esservi sia decisioni a se stanti con le quali il giudice nega o afferma la propria competenza sia decisioni con cui il giudice affermata implicitamente o esplicitamente la propria competenza decide anche il merito. Benchè entrambe le decisioni assumano la forma di sentenza va detto che solo le seconde sono in grado di divenire immutabili e di diventare per il futuro la fonte della normativa che regolerà il rapporto tra le parti dato che la stabilità è riconosciuta solo alle sentenze sulla competenza della Cassazione e dato che la sentenza sulla sola competenza non chiude una fase del processo. Contro le sentenze sulla competenza a cui vanno equiparate anche i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell’art 295 c.p.c. può essere proposta impugnazione mediante  regolamento di competenza ad istanza di parte. Tale regolamento di competenza è diverso a seconda che sia diretto contro una sentenza che abbia deciso sulla sola competenza ovvero anche sul merito. Nel primo caso infatti il regolamento sarà necessario essendo l’unico modo per far valere le proprie doglianze (cd. Regolamento necessario). Nel secondo caso invece il regolamento sarà facoltativo dato che la parte può scegliere tra l’impugnazione ordinaria e il regolamento (cd. Regolamento facoltativo). Secondo l’art 43 c.p.c. le due impugnazioni sono compatibili anche se va data la precedenza al regolamento. Nel caso in cui sia già stata proposta impugnazione ordinaria la proposizione del regolamento determina la sospensione dell’impugnazione mentre nel caso in cui essa non sia stata ancora proposta la proposizione del regolamento sospende il termine per proporla. Va precisato che il 2° comma dell’art 43 c.p.c. disponendo che la proposizione dell’impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la facoltà di proporre il regolamento va interpretato nel senso che la parte che ha proposto il regolamento può successivamente proporre anche l’impugnazione ordinaria e non viceversa. Se infatti la parte propone prima l’impugnazione ordinaria la facoltà di proporre il regolamento spetta solo alle altre parti dato che essa può far valere come vizio di sentenza l’incompetenza del giudice. Il regolamento di competenza che non è utilizzabile nei giudizi davanti al giudice di pace si propone con ricorso alla corte di Cassazione da notificare alle parti che non vi hanno aderito entro il termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione della sentenza che si sia pronunciata sulla sola competenza( regolamento necessario) o dalla notificazione dell’impugnazione ordinaria nel caso previsto dal 2° comma dell’art 43 c.p.c. (regolamento facoltativo). Ci si è chiesti se nel caso in cui di fronte alla sentenza del primo giudice che si dichiari incompetente le parti si acquietino e vogliano riassumere la causa davanti al secondo giudice quest’ultimo sia o meno vincolato alla decisione del primo giudice e alla riassunzione. Anche se a rigor di logica la risposta dovrebbe essere positiva quale che sia la competenza messa in discussione l’art 45 c.p.c. continua a riconoscere al secondo giudice il potere di chiedere con ordinanza alla corte di cassazione un regolamento d’ufficio quando si tratti di sentenza che dichiari l’incompetenza per materia e per territorio inderogabile. La decisione dei regolamenti avviene con sentenza pronunciata in camera di consiglio con cui la corte  statuisce sulla competenza, da i provvedimenti necessari per la prosecuzione del processo davanti al giudice che dichiara competente e rimette quando occorre le parti in termini affinchè provvedano alla loro difesa. Se la causa viene riassunta nel termine fissato dalla sentenza o in mancanza in quello di 6 mesi il processo continua davanti al nuovo giudice altrimenti si estingue. Da quanto detto ne deriva che nel processo di cognizione di primo grado la competenza non è considerata come un presupposto processuale la cui mancanza far menir meno il processo bensì come un requisito di validità degli atti del giudice e non delle parti i quali restano validi ed efficaci anche se compiuti davanti ad un giudice incompetente.

MODIFICAZIONI DELLA COMPETENZA IN CASO DI CONNESSIONE

In caso di connessione a causa dell’intrecciarsi di domande fra loro variamente collegate può sorgere il problema di modificare la competenza del giudice originariamente adito. A tal fine il legislatore ha cercato di individuare i possibili casi di collegamento e ha previsto delle deroghe maggiori alla competenza nel caso in cui il rapporto fra le cause sia particolarmente intenso in modo così da favorire nel massimo grado il cd. Simultaneus processus e deroghe minori quando il rapporto tra le cause non sia particolarmente intenso

A) Cause accessorie (art 31). E’ accessoria la domanda che sia proposta subordinatamente ad altra cd. Principale e il cui accoglimento dipende dall’accoglimento di quest’ultima ad es. la domanda che chiede la condanna al pagamento degli interessi presuppone che vi sia quella che chiede la condanna al pagamento del capitale e può essere accolta solo dopo che sia accolta quest’ultima. Come è evidente il vincolo tra le domande è particolarmente intenso per cui occorre assicurare il simultaneus processus. A tal fine il legislatore prevede che ai fini della competenza territoriale la causa accessoria sia attratta dalla presso il foro della causa principale e che ai fini della competenza per valore le domande si sommino tra loro. Nel caso in cui per la causa principale viga un criterio di competenza materiale o territoriale inderogabile la domanda accessoria va proposta davanti al giudice della causa principale anche se ecceda la sua competenza per valore. Come è facile intuire le uniche ipotesi in cui la trattazione simultanea non può essere realizzata sono quelle in cui sia per la causa principale che per la causa accessoria vigano diversi criteri di competenza entrambi inderogabili.

B) Cause di garanzia (art 32). La legge prende in considerazione il fenomeno della garanzia propria in cui un soggetto assume un obbligazione di rivalsa nei confronti del terzo direttamente, ovvero è tenuto per legge a rivalerlo per le conseguenze sfavorevoli che questi possa risentire per effetto di atti giuridici intercorsi fra loro. La legge invece non prende in considerazione il fenomeno della garanzia impropria che si ha quando un soggetto è tenuto a rivalere un altro soggetto delle conseguenze economiche sfavorevoli che questi possa risentire per effetto di determinati eventi (si pensi ad es. a quelle derivanti da una risoluzione di contratto nelle vendite a catena). Occorre rilevare che poiché nel caso della garanzia le cause intercorrono tra diversi soggetti e precisamente quella principale tra la parte originaria e il garantito e quella di garanzia tra il garante e il garantito non è possibile sommare le domande ai sensi dell’art 10 c.p.c. dato che questo presuppone che le domande intercorrano tra le stesse parti. A tal fine il legislatore prevede che in questi casi il giudice della causa principale attragga presso di se la causa di garanzia anche se questa ecceda la sua competenza per valore tranne il caso in cui per la causa di garanzia viga un criterio di competenza inderogabile.

D) Cumulo soggettivo (art 33). In caso di cumulo soggettivo che si ha quando le cause che dovrebbero essere proposte contro più soggetti davanti a giudici diversi siano connesse per l’oggetto o per il titolo il legislatore prevede che esse possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o di domicilio di una delle parti per essere trattate e decise nello stesso processo.

E) Accertamento incidentale (art 34). Questa ipotesi si verifica quando in pendenza di un processo sorgono delle questioni pregiudiziali che devono essere risolte dal giudice prima di decidere sulla domanda principale. Dispone al riguardo l’art 34 c.p.c. che se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario che il giudice decida con efficacia di giudicato su una questione che appartiene alla competenza per materia o valore di un giudice superiore questi deve rimettere tutta la causa al giudice superiore assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui ciò si verifica ad es. quando l’attore chiede al pretore la condanna del convenuto al pagamento degli alimenti e questi eccepisce di non esservi tenuto perché non legato da rapporto di parentela con l’attore.

F) Eccezione di compensazione (art35). L’art 35 c.p.c. disciplina il caso in cui sia sollevata una eccezione di compensazione con riguardo al credito contestato che ecceda la competenza per valore del giudice adito ad es. l’attore chiede la condanna del convenuto al pagamento di una somma di danaro e il convenuto eccepisce un contro credito il cui valore supera la competenza del giudice adito. In questo caso il legislatore prevede che se la domanda principale è fondata su di un titolo non controverso o facilmente accertabile il giudice può decidere subito sulla domanda principale e rimettere la questione sull’eccezione al giudice superiore. In caso contrario il giudice superiore attrae presso di se l’intera causa.

G) Domanda riconvenzionale. In caso di domande riconvenzionali che sono quelle che dipendono dal titolo dedotto in giudizio o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione il meccanismo processuale è lo stesso di quello previsto per l’eccezione di compensazione e per l’accertamento incidentale. Si ha domanda riconvenzionale allorchè il convenuto non solo eccepisce un contro credito il cui valore ecceda la competenza del giudice adito ma chiede anche che il giudice condanni l’attore al pagamento della differenza

H) Litispendenza (art 39). La litispendenza è la contemporanea pendenza davanti a giudici diversi di due cause identiche. Per stabilire dunque se vi è litispendenza è necessario sapere quand’è che due domande sono identiche e quand’è che il processo pende. Per quanto riguarda il primo quesito va detto che due domande sono identiche quando sono uguali gli elementi di identificazione e cioè i soggetti, il petitum, e la causa petendi. Per quando riguarda il secondo quesito occorre in primo luogo chiarire che esistono due diversi atti introduttivi del processo:

1) l’atto di citazione che è un atto che viene notificato prima alla controparte e poi depositato nell’ufficio giudiziario

2) il ricorso che è un atto che viene prima depositato nell’ufficio giudiziario e poi notificato alla controparte

Nel primo caso si dirà che il processo pende quando la citazione è notificata alla controparte ed è considerato processo anteriore quello iniziato dall’atto di citazione notificato per primo. Nel secondo caso si dirà che il processo pende quando il ricorso sia depositato ed è considerato processo anteriore quello iniziato dal ricorso depositato per primo. Chiarito ciò è evidente che in caso di contemporanea pendenza davanti a giudici diversi di una stessa causa ci troviamo di fronte ad un doppione da eliminare. Al riguardo l’art 39 c.p.c. dispone che il giudice adito successivamente deve dichiarare in ogni stato e grado del processo anche d’ufficio la litispendenza con sentenza impugnabile con il regolamento di competenza e disporre con ordinanza  la cancellazione della causa dal ruolo. Come è facile intuire il legislatore ha configurato la litispendenza come una questione di procedibilità che deve essere risolta prima e in modo autonomo rispetto a quella sulla competenza.

I) Continenza (art 39). La continenza si verifica in tutti i casi in cui tra una causa e l’altra ricorre un rapporto tra contenuto e contenente per cui la causa contenente avrà in sé tutti gli elementi della causa contenuta ed in più almeno una diversa domanda ancora ( differenza quantitativa del petitum). Anche in questo caso si pone il problema di eliminare una delle due cause che però non è un doppione non essendovi tra le due cause perfetta coincidenza. In questo caso l’eliminazione di uno dei due processi non può avvenire solo in base al criterio della prevenzione (prevale cioè il processo anteriore) ma bisogna tener conto anche dei rapporti fra causa contenuta e causa contenente e soprattutto bisogna vedere se i giudici investiti delle cause siano competenti per il tutto dato che se uno dei due non è competente per la causa maggiore o contenente si dovrà concentrare l’attività processuale davanti all’altro giudice. Da quanto detto ne deriva che ai sensi dell’art 39 c.p.c.

1) se la causa anteriore è quella maggiore o contenente e il giudice adito sia competente il giudice adito successivamente per la causa minore o contenuta deve dichiarare la continenza con sentenza e fissare con ordinanza un termine perentorio entro il quale le parti devono riassumere la causa davanti al primo giudice (criterio della prevenzione)

2) se la causa anteriore è quella minore o contenuta e il giudice adito per primo non ha competenza per la causa maggiore o contenente sarà lui ad dover dichiarare con sentenza la continenza e ad emettere l’ordinanza che fissa il termine per la riassunzione davanti al secondo giudice (criterio dell’assorbimento)

3) se infine la causa anteriore è quella minore o contenuta e il giudice adito per primo sia competente anche per quella maggiore o contenente sarà il secondo giudice a dover dichiarare la continenza con sentenza e ad emettere l’ordinanza che fissa il termine perentorio per la riassunzione davanti al primo.

In tutti i casi sopraddetti la sentenza che dispone la continenza è impugnabile con il regolamento di competenza davanti alla corte di cassazione.

L) Connessione (art 40). Premesso che la connessione è la coincidenza di taluni ma non di tutti gli elementi d’identificazione di due o più azioni l’art 40 c.p.c prende in esame il caso in cui due cause connesse pendano davanti a giudici diversi. Nella sua formulazione originaria tale articolo si limitava a stabilire che il giudice fissa con sentenza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. L’eccezione e il rilievo della connessione sono possibili fino alla prima udienza di trattazione e la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa o preventivamente proposta non consenta l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. La sentenza sulla connessione è impugnabile con il regolamento di competenza. Poiché tale disposizione non teneva conto che molto spesso accade che cause con rito speciale debbano essere trattate unitamente a cause con rito ordinario la legge del 90 n. 353 ha aggiunto all’art 40 c.p.c. altri tre commi i quali dispongono:

1) che dopo la riunione prevale il rito ordinario a cui vanno assoggettate le cause riunite salvo il caso in cui una delle cause connesse rientri tra quelle indicate dagli art 409 e 442 c.p.c.

2) che qualora le cause riunite siano assoggettate a diversi riti speciali prevale quello previsto per quella in ragione della quale viene determinata la competenza o in subordine il rito previsto per la causa di maggior valore

3) che qualora la causa sia stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile il giudice dispone il mutamento di rito ai sensi degli art 426, 427, 439 c.p.c.

Altri due commi all’art 40 c.p.c. sono stati aggiunti dalla legge del 91 n. 374 (cd. Legge dei giudici di pace). In virtù di essi si è stabilito che ove una causa di competenza del giudice di pace sia connessa con una di competenza del pretore o del tribunale la parte può proporre domanda direttamente al pretore o al tribunale affinchè esse siano trattate e decise nello stesso processo e che nel caso in cui esse siano state introdotte separatamente il giudice di pace deve pronunciare anche d’ufficio la connessione a favore del pretore e del tribunale.

IL PRINCIPIO DELLA DOMNDA E QUELLO DELLA CORRISPONDENZA TRA CHIESTO E PRONUNCIATO

Il principio della domanda è espresso dall’art 99 c.p.c. il quale recita che chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve proporre domanda. Tale principio in realtà non fa altro che specificare il precetto contenuto nell’art 24 cost. secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad affermare e a ribadire il principio della domanda sono essenzialmente due:

1) la prima è che il principio della domanda è lo strumento migliore per garantire che il giudice sia terzo di fronte alla controversia o affare giudiziario

2) la seconda è data dal fatto che essendo l’azione il mezzo per far valere determinate situazioni riconosciute e tutelate dall’ordinamento sostanziale il monopolio in ordine al potere di tutelarle in giudizio è la logica conseguenza di tale riconoscimento

Chiarite le ragioni che sono alla base del principio della domanda risulta evidente che eccezioni a tale principio sono in genere altamente sconsigliabili perché potrebbero attentare all’imparzialità del giudice. Per questo motivo le eccezioni al principio della domanda sono nel nostro ordinamento assai rare (ad es. dichiarazione di fallimento d’ufficio). Esse sono poi impossibili quando verrebbero a compromettere situazioni giuridiche sostanziali che l’ordinamento riconosce in modo pieno ai soggetti (i cd. Diritti disponibili) in quanto la disponibilità delle stesse non può non comprendere anche la disponibilità processuale. Una possibilità di trovare un contemperamento fra opposte esigenze si ha tutte le volte in cui fermo restando il principio secondo cui il giudice non può iniziare il processo d’ufficio si cerca di allargare la sfera dei soggetti che sono capaci di proporre la domanda (si pensi ad es. al potere d’azione del P.M. ex art 2907 c.c.),ovvero di allargare la sfera dei soggetti legittimati all’azione (si pensi ad es. ad alcuni casi di nullità del matrimonio previsti dagli art 117, 118 c.c.) o infine di costruire l’azione come un potere pubblico riconosciuto ad un soggetto in quanto membro di una collettività(si pensi ad es. alle cd. Azioni popolari o alla disciplina urbanistica). Si tratta in questi casi di situazioni sostanziali che non interessano un solo soggetto particolare ma la collettività (i cd. Diritti indisponibili). Al principio della domanda deve essere collegato quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato espresso dall’art 112 c.p.c. il quale recita che il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Secondo il combinato disposto di tali articoli non solo le parti possono scegliere se adire o no il magistrato ma hanno anche il monopolio in ordine alla determinazione del tema decidendum, ossia dell’oggetto sul quale il giudice dovrà decidere. In altre parole le parti hanno il potere di condizionare il giudice sia inizialmente decidendo se adire o no il magistrato sia successivamente determinando su che cosa il giudice dovrà giudicare. Nel proporre la domanda giudiziale un soggetto espone un avvenimento o episodio di vita da ricondurre a una o più disposizioni di legge per ricavarne conseguenze favorevoli. Ci si è chiesti se il giudice sia vincolato alle richieste delle parti sia in relazione al fatto, sia in relazione alle norme invocate, sia infine in relazione alle conseguenze giuridiche dedotte. Al riguardo va innanzitutto precisato che esistono nei vari codici norme che prevedono l’obbligo del giudice di giudicare anche quando le parti non abbiano indicato le norme giuridiche da loro ritenute applicabili. In linea generale va poi detto che mentre il giudice non è vincolato alla prospettazione giuridica proposta dalle parti (le cd. Norme invocate) è invece vincolato alla prospettazione dell’episodio di vita cioè del fatto. Poiché tuttavia le parti nell’esporre il fatto spesso lo arricchiscono di particolari che servono ad individuarlo e specificarlo bisogna fare una distinzione tra Fatti principali che sono quelli che integrano il suo nucleo essenziale e Fatti secondari che sono quelli che integrano le circostanze che arricchiscono, precisano e chiariscono il fatto principale senza tuttavia incidere sul suo nucleo essenziale. Il vincolo del giudice riguarda la cd. Attività assertiva cioè l’inserimento di fatti nel processo e non invece la cd. Attività asseverativa cioè l’attività svolta dalle parti diretta a fornire al giudice elementi di convincimento in altri termini l’acquisizione del materiale probatorio. Nell’ambito dell’attività assertiva poi mentre è sicuro il vincolo del giudice quanto ai fatti principali non è altrettanto sicuro che tale vincolo si estenda anche ai fatti secondari. Appare comunque fondamentale al riguardo il potere del giudice nel corso della prima udienza di chiedere alle parti sulla base dei fatti allegati i chiarimenti necessari e di indicare le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Attraverso l’uso accorto di questo potere che viene di regola esercitato in sede di interrogatorio libero il giudice può ottenere quelle integrazioni nella narrazione dell’episodio che siano indispensabili (fatti principali) o utili (fatti secondari) per il giudizio. Per quanto riguarda poi la possibilità delle parti di modificare nel corso del processo le domande, eccezioni e conclusioni già formulate va detto che le nuove norme consentono di allargare i fatti da loro ritenuti rilevanti fino alla prima udienza di trattazione e comunque non oltre il termine concesso all’uopo dal giudice nonché la possibilità delle parti di produrre e articolare i mezzi di prova non oltre la successiva udienza o quella ancora successiva ai sensi dell’art 184 c.p.c. Il nuovo testo dell’art 183 c.p.c. prevede infatti che entrambe le parti possono modificare e precisare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate. In linea di principio va detto che vi è una modificazione quando la parte ha bisogno  di introdurre ulteriori fatti storici per supportare le sue richieste. Alla determinazione del voluto concorre non solo l’attore ma anche il convenuto allorchè questi introduca nel processo altri fatti che servono a togliere in tutto o in parte valore a quelli dedotti dall’attore. In questi casi infatti il giudice per stabilire il tema della decisione deva guardare non solo all’attività assertiva svolta dall’attore ma anche a quella del convenuto. Al riguardo la seconda parte dell’art 112 c.p.c. dispone che il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti. Così com’è formulato tale articolo sembrerebbe dire che normalmente le eccezioni possono essere rilevate d’ufficio tranne il caso in cui la legge non preveda espressamente la necessità dell’eccezione della parte. In realtà se si considera la disciplina positiva si vede che non possono essere rilevate d’ufficio ad es. la prescrizione, la compensazione ,o il beneficio della preventiva escussione in caso di fideiussione. Negli altri casi in cui la parte avrebbe un potere da far valere autonomamente nel processo (ad es. novazione, rinuncia al diritto, risoluzione consensuale, condizione, remissione) non è facile dire se sia o meno consentito il rilievo dell’eccezione d’ufficio e la soluzione del caso va ricercata di volta in volta. In ogni caso va precisato che il rilievo dell’eccezione d’ufficio è possibile solo quando risultino acquisiti agli atti del processo i fatti storici su cui essa è basata. In precedenza si è detto che il giudice non è vincolato alle parti nella individuazione ed interpretazione delle norme applicabili. A fondamento di tale regola vi è l’esigenza di garantire la parità di trattamento assicurando che colui che individua e applica le norme non è il soggetto interessato ma un soggetto imparziale. Al riguardo va però precisato che la libertà di individuare ed interpretare la norma non comporta sempre anche la libertà di individuare le conseguenze giuridiche. Di regola se la parte ha chiesto sulla base di un determinato fatto il riconoscimento di determinate conseguenze e il giudice invece ritiene che lo stesso fatto giustifichi altre conseguenze egli non può sostituirsi alla parte nella derivazione delle diverse conseguenze tranne il caso in cui si tratti di conseguenze dichiarabili d’ufficio (ad es la nullità del contratto) o di conseguenze dedotte in via alternativa dalla stessa fattispecie (ad es. nella vendita di cosa gravata da oneri o la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo). Allo stesso modo se la parte ha posto a base dell’effetto giuridico un determinato fatto e il giudice invece ritiene che tale effetto sia giustificato da altro fatto pure risultante dal processo egli non può sostituire l’uno all’altro fatto tranne il caso in cui l’effetto sia dichiarabile d’ufficio (ad es l’attore chiede l’annullamento del contratto per violenza e il giudice ritiene che il contratto sia annullabile per errore. Per concludere vanno chiarite le conseguenze che derivano dal mancato rispetto da parte del giudice dei vincoli derivanti dal principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. In teoria sono possibili due casi:

1) se il giudice pronuncia senza tener conto di tutte le richieste delle parti oppure modificandole si dice che vi è un difetto di pronuncia

2) se il giudice pronuncia senza che siano state fatte apposite istanze si dice che vi è un eccesso di pronuncia cd. Ultrapetizione.

In entrambe le ipotesi il provvedimento è viziato ma mentre nel caso di difetto di pronuncia sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che la pronuncia non esiste e che quindi le parti possono riproporre la  domanda in un successivo giudizio nel caso di ultrapetizione le parti se vogliono evitare il passaggio in giudicato della sentenza devono proporre impugnazione.

IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

L’art 101 c.p.c. recita che salvo che la legge disponga altrimenti il giudice se la parte contro la quale è proposta la domanda non è stata regolarmente citata e non sia comparsa non può emettere alcun provvedimento. A parte la non felice formulazione della norma che sembra riferirsi al solo processo di cognizione e che sembra non tener conto dell’esistenza del processo contumaciale va detto che essa si pone come la proiezione nel campo della legislazione ordinaria del principio dell’art 24 cost. secondo cui la difesa è un diritto sacro e inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Alla base del principio del contraddittorio vi sono essenzialmente due ragioni:

1) la prima ragione è che il principio del contraddittorio è l’unico modo per garantire il trattamento paritario dei soggetti nel processo

2) la seconda ragione è che si ritiene che il contraddittorio sia lo strumento migliore e più facilmente utilizzabile dal giudice per raccogliere il materiale necessario all’emanazione del provvedimento più giusto

Chiarito ciò in teoria e a rigor di logica non dovrebbero essere consentite eccezioni al principio del contraddittorio. L’art 101 c.p.c con l’inciso salvo che la legge disponga altrimenti sembra tuttavia ammetterle. La norma è stata ritenuta non viziata da incostituzionalità sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza solo in relazione a due ipotesi:

1) quando il provvedimento se fosse emesso dopo la realizzazione del contraddittorio potrebbe risultare inutile

2) quando la situazione giuridica azionata abbia caratteristiche tali da giustificare una tutela immediata

In entrambe le ipotesi  però la deroga al principio è possibile solo a condizione che il contraddittorio possa essere instaurato in un momento successivo (cd. Realizzazione eventuale o differita). Il meccanismo utilizzato al riguardo dal legislatore può essere triplice:

a) lo stesso giudice che ha emanato il provvedimento inaudita et altera parte dispone la convocazione delle parti in contraddittorio dando vita ad un processo a contraddittorio pieno che si conclude con la revoca o la conferma dello stesso ad es. decreto ex art. 669 sexies

b) la parte che ha ottenuto il provvedimento inaudita et altera parte deve instaurare un processo a contraddittorio pieno entro un termine perentorio ad es. una misura cautelare richiesta ante causam

c) la parte contro cui e stato emanato il provvedimento senza la sua preventiva audizione propone opposizione entro un termine perentorio instaurando un processo a contraddittorio pieno ad es. un decreto ingiuntivo

Ci si è chiesti quando è che si ha la violazione del contraddittorio e qual’è la disciplina del correlativo vizio del provvedimento. Al riguardo si sono isolate due ipotesi:

1) il giudice ritiene la parte contumace senza rilevare un vizio nella notificazione che avrebbe imposto la rinotificazione dell’atto cd. Contumacia involontaria

2) la parte è rappresentata nel processo da un rappresentante senza potere cd. Falsus procurator

Nel primo caso la sentenza è impugnabile e vi è un correttivo quanto al termine per impugnare dato che il contumace può essere ignaro del processo. Nel secondo caso alcuni ritengono l’inopponibilità della sentenza al falso rappresentato, altri lo parificano al contumace involontario mentre altri ritengono invece che egli abbia la possibilità di proporre opposizione di terzo ordinaria la quale è soggetta solo a prescrizione.

PRINCIPIO DISPOSITIVO E INQUISITORIO

Per poter provvedere il giudice deve accertare che i fatti rilevanti ai fine della decisione siano veri, deve cioè istruire la causa. Occorre rilevare che una cosa è introdurre i fatti rilevanti nel processo (cd. Asserzione o allegazione) altro è invece controllare che tali fatti rispondano al vero. Questo secondo problema è il problema della prova. Riguardo al modo secondo il quale il giudice debba procedere all’istruzione probatoria vi sono in dottrina due diverse tendenze. Alcuni ritengono che sia preferibile lasciare alle parti le iniziative probatorie in modo così da evitare poteri arbitrari del giudice. Altri invece ritengono che debba essere il giudice a dover assumere in prima persona il compito di ricerca della verità senza essere condizionato dalle parti. Si tratta di una contrapposizione tra due diverse ideologie:

1) quella liberale individualista che vede nel processo uno strumento di risoluzione delle liti al fine di ricomporre la pace sociale

2) quella socialista che vede nel processo un mezzo di ricerca della giustizia sostanziale

L’art 115 c.p.c. disponendo che salvo i casi previsti dalla legge il giudice  deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal P.M. si ispira come è ovvio alla ideologia liberale dato che tale articolo ha accolto il sistema secondo cui rientra nella disponibilità delle parti anche l’attività istruttoria. In dottrina si è soliti dire che nel nostro processo valgono sia il principio dispositivo in senso ampio il quale ha per oggetto il potere delle parti di proporre la domanda, di fissare il tema decisionale e di produrre le prove sia il principio dispositivo in senso stretto il quale ha per oggetto il potere delle parti di produrre le prove e di far decidere soltanto sulla loro base. L’analisi delle altre norme del codice dimostra tuttavia che il principio dispositivo in senso stretto non si è realizzato pienamente nel nostro ordinamento tanto è vero che alcuni affermano che non si può dire che tra poteri probatori delle parti e poteri probatori ufficiosi corra un rapporto di regola ed eccezione e che quindi il principio dispositivo prevalga su quello inquisitorio. Le ipotesi richiamate dall’inciso dell’art115 c.p.c. salvo i casi previsti dalla legge che si risolvono in una rilevante possibilità per il giudice di intervenire al fine di controllare le parti nell’indagine istruttori evitando così il loro monopolio esclusivo nella ricerca della verità sono:

1) il potere di disporre d’ufficio l’interrogatorio libero

2) il potere di ordinare l’ispezione di persone o di cose

3) il potere di disporre la consulenza tecnica

4) il potere di deferire il giuramento suppletorio ed estimatorio

5) il potere di richiedere informazioni alla P.A. relativamente ad atti e documenti della stessa

6) il potere del giudice di rivolgere ai testi tutte le domande che ritenga necessarie o utili a chiarire i fatti su cui i testi sono chiamati a deporre, di disporre il confronto tra testi, di assumere altri testi e di rinnovarne l’esame

7) il potere del pretore e del giudice di pace di disporre d’ufficio la prova per testi quando le parti nell’esposizione dei fatti si siano riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità

Il 2° comma dell’art 115 c.p.c. si riferisce ai cd. fatti notori disponendo che il giudice può porre a fondamento della decisione senza bisogno di prove le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Si deve trattare di fatti che  fanno parte del patrimonio comune di conoscenza di una determinata collettività in un determinato momento storico. L’appartenenza dei fatti al patrimonio comune di conoscenza funge in questo caso da filtro idoneo evitando che vi sia un’attentato alla imparzialità del giudice e alla regola dell’assunzione delle prove nel contraddittorio delle parti. Premesso che anche se i fatti notori non hanno bisogno di prova hanno tuttavia bisogno di essere allegati va detto che in realtà il potere riconosciuto dall’art 115 2° comma c.p.c. dovrebbe essere un potere-dovere il cui mancato esercizio dovrebbe viziare il provvedimento ma la giurisprudenza non lo ritiene sindacabile. Per concludere va detto che la possibilità di tener conto dei fatti notori esclude argomentando a contrario che il giudice possa far ricorso alle sue conoscenza personali(cd. Divieto di scienza privata). La ragione del divieto è data dall’esigenza di non lasciare la coscienza del giudice arbitra di ritenere fondati o non fondati determinati fatti che non siano di pubblica conoscenza.

LA VALUTAZIONE DELLE PROVE

Ci si è chiesti come il giudice deve valutare le prove. Anche in questo caso il legislatore sembra aver fissato un rapporto di regola ed eccezione disponendo all’art 116 c.p.c. che il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento salvo che la legge disponga altrimenti. In questo modo il legislatore sembra dire che normalmente il giudice valuta le prove secondo il suo prudente apprezzamento cd. Prova libera ed eccezionalmente non le può valutare in questo modo cd. Prova legale. Questa soluzione data anche la molteplicità di eccezioni è criticata da coloro che ritengono che tutte le prove dovrebbero avere pari valore  ed essere tutte soggette al libero apprezzamento del giudice. Per comprendere bene il senso della critica occorre precisare bene i concetti di prova libera e prova legale. Nel primo caso il giudice deve valutare le prove secondo criteri non arbitrari ma razionali che gli consentono di stabilire se e in che limiti la prova è utilizzabile ai fini della ricostruzione del fatto. In sostanza la conclusione del giudice è tratta da una premessa minore ad es. una testimonianza e da una premessa maggiore ad es. il criterio razionale secondo cui tutti sono disposti a credere che le persone oneste dicano il vero specie sotto giuramento. Questa premessa maggiore che è razionale nella misura in cui riceve il consenso della collettività è in sostanza una massima comune di esperienza la quale si pone come il necessario anello di congiunzione tra il fatto probatorio processuale e la conclusione che il giudice ne deriva nel formarsi la sua convinzione. Nel caso della prova legale invece il legislatore ha cristallizzato la massima comune di esperienza rendendola regola giuridica e quindi non modificabile nel caso concreto ad es. poiché la parte che dichiara fatti a se sfavorevoli e favorevoli all’altra parte normalmente dice il vero tranne il caso in cui sia folle il legislatore è giunto alla conclusione che la dichiarazione confessoria deve essere ritenuta vera dal giudice  il quale pertanto non può liberamente valutarla anche se abbia il sospetto che la parte dica il falso. Allo stesso modo poiché chi giura normalmente dice il vero il giudice è tenuto a credere a quanto risulta dal giuramento. In ogni caso va chiarito per ciò che concerne la prova legale che i meccanismi di valutazione preventiva presuppongono da un lato che i soggetti siano pienamente capaci e dall’altro che i diritti su cui incidono siano diritti disponibili. Alcuni hanno obiettato che la razionalità del ragionamento giudiziale non è dimostrabile, che i giudici decidono sulla base di impulsi istintivi, di sensazioni, di intuizioni non oggettivabili, che le motivazioni sono sovrastrutture posticce ed insincere con le quali si cerca di giustificare decisioni già prese, che le massime di esperienza non hanno alcuna validità scientifica ecc. Se queste obiezioni fossero vere dovremmo concludere che l’attività del giudice è arbitraria, soggettiva e incontrollabile. A parte il fatto che queste conclusioni non sono condivise dagli studiosi di logica va detto che neppure il nostro legislatore ha accolto simili presupposti. Una traccia evidente di questo orientamento si ricava dall’art 111 cost. che impone l’obbligo della motivazione. E’ infatti ad essa che le parti, i giudici superiori e la collettività possono e devono fare riferimento per stabilire se il giudice abbia deciso secondo il suo prudente apprezzamento. La conferma di ciò è data dal fatto che tra i motivi di ricorso in cassazione cioè in una sede dove si dovrebbe sindacare solo l’esistenza di errori di diritto non  a caso viene annoverato quello derivante da omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Il 2° comma dell’art 116 annovera accanto alle prove gli argomenti di prova elencando tra i fatti che possono dar luogo ad argomenti di prova le risposte delle parti in sede di interrogatorio libero, il loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni, ed in generale il loro contegno nel corso del processo. Tali fatti nella logica del legislatore possono servire ad interpretare le prove altrimenti acquisite. In altri termini tali fatti che di per se non sono sufficienti dato che il giudice non può fondare solo su di essi il proprio convincimento diventano rilevanti potendo essere utilizzati dal giudice per pervenire alla valutazione critica delle vere e proprie prove.

LA REGOLA DELL’ONERE DELLA PROVA

Ci si è chiesti come deve comportarsi il giudice quando nonostante tutti i tentativi istruttori esperiti non sia sufficientemente convinto che un fatto necessario per dichiarare un determinato effetto giuridico si sia realmente verificato. La risposta più ovvia è che egli non può provvedere e che quindi deve liberarsi della questione pronunciando un non liquet cioè una non decisione che lascerebbe le cose al punto di partenza facendo così salva la possibilità  per le parti di riproporre la questione . Questa soluzione non può essere accolta perché nel nostro ordinamento le pronunce di merito anche se negative sono idonee a diventare cosa giudicata in senso formale e sostanziale. Si potrebbe pensare che il giudice sia libero di scegliere accogliendo o rigettando la domanda sulla base di personali convinzioni ad es. la maggior fiducia che gli ispira una parte ma anche tale soluzione non può essere accolta perché il principio di legalità e la certezza del diritto intesi come prevedibilità e controllabilità delle decisioni giudiziarie  si oppongono a tale conclusione. L’unico modo è dunque quello di precostituire un canone di valutazione per il caso dell’incertezza. A tal fine l’art 2697 c. c. disponendo che chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provarne i fatti che ne costituiscono il fondamento comporta che il giudice rigetti l’istanza ove non risulti acquisita al processo una prova sufficiente dell’esistenza dei fatti su cui l’istanza è fondata. Tale norma pone il problema di individuare quali siano i fatti fondamentali bisognosi di prova ai fini dell’accoglimento della richiesta. A tal fine il legislatore ha distinto i fatti in due categorie:

1) quelli che sono alla base della situazione sostanziale dedotta nel processo (cd. Fatti principali)

2) quelli che hanno il potere di modificare, estinguere o impedire gli effetti che i primi hanno prodotto o sono idonei a produrre (cd. Fatti secondari)

In questo modo il rischio della mancata prova viene ad essere ripartito tra le parti del processo dato che il provvedimento sarà rifiutato se l’attore non provi i fatti costitutivi mentre sarà concesso se l’attore dia tale prova e il convenuto a sua volta non provi i fatti impeditivi, estintivi o modificativi. Occorre rilevare che l’art 2697 c.c. non dice nulla in ordine al modo secondo cui si possono individuare i fatti costitutivi, impeditivi, estintivi e modificativi essendo questo il risultato di un indagine da svolgere sulla disciplina sostanziale cercando di individuare a quali interessi il legislatore ha dato preferenza.

L’APPLICAZIONE DEL DIR. E L’EQUITA’

Nel momento della decisione il giudice dovrà valutare il fatto così come accertato o ricostruito nel processo secondo criteri di valutazione precostituiti che egli rinviene nella legge in virtù di quanto affermato dall’art 101 cost. Da quanto detto ne deriva che l’art 113 c.p.c. disponendo che il giudice nel pronunciare sulla causa deve seguire le norme di diritto salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità non fa altro che attuare un’esigenza già espressa dalla carta cost. Anche l’art 113 c.p.c. è costruito sullo schema della regola e dell’eccezione: normalmente il giudice decide solo secondo diritto e in casi eccezionali secondo equità. Il giudice non può esimersi dal giudicare asserendo di non conoscere la norma da applicare. Ciò significa che egli deve risolvere da se tale problema anche in mancanza di collaborazione delle parti. La soluzione non crea molte difficoltà quando si tratti di norme pubblicate in raccolte ufficiali come ad es. le leggi statali e regionali e gli atti normativi delle provincie e dei comuni, nonché per gli usi e le consuetudini che sono anch’esse pubblicate in raccolte ufficiali che fanno  fede fino a prova contraria. La soluzione diventa più difficoltosa per ciò che concerne il reperimento del diritto antico e straniero. Per quanto riguarda il diritto straniero va detto che, a parte l’art 205 disp. Att. c.p.p. che abilita il giudice che per ragioni d’ufficio deve conoscere il testo di una legge straniera a farne richiesta al Ministrero di grazia e giustizia  indicandone il motivo, mancano nel nostro ordinamento disposizioni al riguardo. Anche se gli stati moderni cercano di risolvere il problema stipulando al riguardo apposite convenzioni a nostro modo di vedere sarebbe stato più utile consentire al giudice di fare ricorso in questi campo ad esperti della materia i quali gli possano fornire tutte le necessarie informazioni in ordine alle norme di diritto straniero, al loro significato e al modo secondo cui sono interpretate negli ordinamenti di provenienza. Questa soluzione cioè quella della consulenza è del resto quella già adottata per ciò che concerne il diritto antico. Occorre tuttavia precisare che in caso di mancata prova della norma di diritto straniero o antico la giurisprudenza ritiene doversi applicare la regola dell’onere della prova o doversi applicare la norma prevista per il caso concreto dal vigente ordinamento italiano. Per quanto riguarda il giudizio di equità  va detto che si è soliti distinguere tre forme:

1) Equità formativa che si ha quando essendovi delle lacune nell’ordinamento il legislatore offre la possibilità di colmarle facendo ricorso al provvedimento equitativo. Ciò si verifica di solito nei periodi di instabilità socio politica come ad es. nel periodo post bellico

2) Equità suppletiva che si ha quando le disposizioni di legge si limitano a prevedere l’ipotesi ma non collegano ad essa precise conseguenze lasciandole alla determinazione equitativa del giudice come ad es. accade in tema di alimenti

3) Equità sostitutiva che si ha quando il giudice può valutare il caso concreto in modo diverso da come è stato valutato in astratto dalla legge dato che esso pur rientrando nella fattispecie legale tipica presenta tuttavia alcuni aspetti particolari che richiedono una diversa valutazione

Ci si è chiesti a quale tipo di equità faccia riferimento l’art 113 c.p.c. La risposta non può che essere ovvia. Si tratta dell’equità sostitutiva dato che il giudice non può creare delle norme e dato che anche se concreta una norma come accade nell’equità suppletiva egli applica pur sempre quest’ultima. Il giudizio di equità ex art 114 c.p.c. è possibile solo a due condizioni:

1) la prima condizione è che la controversia riguardi diritti disponibili

2) la seconda condizione è che le parti ne abbiano fatto richiesta concorde

Dalla disciplina processuale del giudizio di equità si desume che le sentenze pronunciate secondo equità sono inappellabili e che il giudice deve dar conto dei criteri seguiti nella decisione dato che devono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata la sentenza. Attualmente il potere di pronunciare secondo equità è riconosciuto al giudice di pace solo per le controversie il cui valore non ecceda i due milioni. L’intenzione del legislatore è quella di addivenire ad una rapida e definitiva conclusione delle controversie minori scoraggiando le impugnazioni sia per la sproporzione tra il valore della controversia e il costo del ricorso in cassazione sia perché il sindacato di questa è necessariamente assai ridotto per ciò che concerne le decisioni pronunciate secondo equità.

LA PROBLEMATICA DELL’AZIONE

La parte nel dare impulso al processo esercita senza dubbio un potere cd. Potere d’azione. Alcuni ritengono che si tratti di un potere di fatto essendo il fenomeno giuridico interamente disciplinato dal diritto sostanziale. Secondo questa teoria che si avvicina alla tradizione romana l’azione non è altro che una proiezione del diritto sostanziale. Altri invece ritengono che il fenomeno giuridico è rilevante e apprezzabile solo se viene dedotto nel processo e che quindi che il diritto soggettivo si identifichi con l’azione e in tanto esiste in quanto esiste l’azione. Al centro di queste teorie che sono entrambe moniste dato che per una esiste solo il diritto sostanziale e per l’altra esiste solo il diritto processuale vi sono le teorie intermedie le quali cercano di costruire il diritto d’azione come il necessario elemento di raccordo tra il fenomeno giuridico sostanziale e il fenomeno processuale. Entrambe le teorie moniste risentono di una determinata ideologia. Quella che risolve l’azione in una manifestazione del diritto sostanziale è ispirata ad un’ideologia liberale individualista che vede nel processo un mero strumento per la protezione delle situazioni giuridiche sostanziali di cui le parti possono disporre a loro piacimento. Quella che risolve il diritto sostanziale nell’azione si ispira invece alle ideologie e ai regimi autoritari che vedono nel processo uno strumento che può essere utilizzato anche contro gli obiettivi e la volontà delle parti. Le teorie intermedie invece ritenendo che il diritto sostanziale e il diritto processuale sono due fenomeni giuridici distinti e di pari livello che devono essere raccordati tra loro sono più congeniali all’ideologia del nostro legislatore il quale all’art 24 cost. non solo riconosce l’autonomia del diritto d’azione ma esprime anche l’esigenza della normale correlazione tra diritto d’azione e posizione giuridica sostanziale riconosciuta dall’ordinamento. Le teorie sull’azione svolgono una funzione di garanzia evitando che l’ordinamento sottragga ai cittadini quanto gli è assicurato sul piano sostanziale attraverso un’inadeguata protezione processuale. Chiarito che il potere d’azione è un potere autonomo ci si è chiesti quali siano le sue caratteristiche essenziali. Al riguardo vi sono in dottrina tre tendenze di fondo:

  1. secondo una prima teoria l’azione è un potere giuridico riconosciuto alla parte in quanto soggetto all’ordinamento è cioè un potere di carattere pubblicistico ad ottenere un provvedimento giudiziale qualsiasi anche meramente processuale (cd. Potere d’azione in senso astratto)

2) secondo un’altra teoria l’azione è un potere giuridico della parte ad ottenere un provvedimento giudiziale di merito qualsiasi, sia favorevole che sfavorevole e quindi un potere che in tanto può essere esercitato dal soggetto in quanto questi lo raccordi ad una posizione giuridica sostanziale che assumi essere propria e meritevole di tutela

3) secondo una terza teoria l’azione è un potere giuridico della parte ad ottenere un provvedimento giudiziale di merito favorevole e quindi un potere che in tanto esiste, in quanto esista nella parte e non sia meramente affermata, una situazione giuridica sostanziale meritevole di tutela (cd. Azione in senso sostanziale)

Si è detto che presupposto dell’azione in senso astratto è il mero interesse processuale ad agire, che presupposti dell’azione intesa come aspirazione ad un qualsiasi provvedimento di merito sono l’interesse ad agire e la legittimazione, che presupposti dell’azione in senso sostanziale sono l’interesse ad agire, la legittimazione e l’esistenza del diritto. La dottrina nel cercare di stabilire quali delle tre nozioni debba essere accolta dimentica di considerare sia che non esiste una nozione valida sub specie aeternitatis essendo essa il risultato di una determinata disciplina positiva sia che non è dimostrato che le varie nozioni sono tra loro incompatibili. Da quanto detto ne deriva che:

1) il problema giuridico dell’azione non è un problema giuridico formale ma un problema di diritto positivo

2) che nulla esclude che nel nostro ordinamento alcune norme facciano riferimento ad una nozione d’azione mentre altre si riferiscano ad un’altra nozione

Quanto detto trova conferma nell’analisi delle varie norme. Si riferiscono infatti all’azione in senso astratto tutte le norme che prendono in considerazione l’attività processuale del soggetto per il solo fatto di essere svolta come ad es. quella che prevede che il soggetto che propone la domanda anticipi le spese giudiziali, quella che dispone che le parti tengano comunque un comportamento probo e leale, quella che prevede che attore e convenuto essendo ormai parti del processo non possono intervenirvi in altra veste ecc. ecc. Si riferiscono invece all’azione come diritto ad un qualsiasi provvedimento di merito tutte quelle norme che vedono nel processo un servizio organizzato per rendere giustizia come ad es. quella che prevede che la pronuncia d’incompetenza non comporta la chiusura del processo ma la rimessione degli atti al giudice competente, quella che prevede la possibilità di riassunzione della causa entro sei mesi dalla sentenza della cassazione sulla giurisdizione, quella che impedisce al giudice di dichiarare d’ufficio l’estinzione in caso di inattività delle parti ecc. ecc. Si riferiscono infine all’azione in senso sostanziale tutte quelle norme che cercano di realizzare il principio messo in luce da Chiovenda secondo cui la durata del processo non deve danneggiare in alcun modo l’attore che ha ragione come ad es quella che obbliga il possessore in buona fede a restituire i frutti a partire dalla data di proposizione della domanda e quelle che disciplinano la trascrizione delle domande giudiziali ed in genere i cd. Effetti sostanziali della domanda giudiziale.

ELEMENTI DELLE AZIONI

Poiché l’identificazione delle azioni è necessaria per stabilire quand’è che il giudice abbia giurisdizione o competenza, se c’è litispendenza, continenza, connessione, corrispondenza tra chiesto e pronunciato, se in appello sono state proposte nuove domande e per determinare su che cosa il giudice si è pronunciato onde ricavarne i limiti soggettivi ed oggettivi del giudicato ci si è chiesti come si fa a distinguere un’azione dalle altre e i vari tipi di esse. Di solito si dice che l’azione va identificata in base agli elementi essenziali e cioè i soggetti, il petitum e la causa petendi. L’oggetto o petitum può essere inteso in due diversi modi:

1) l’oggetto diretto o immediato che è il provvedimento di giustizia richiesto ad es. la sentenza di condanna, di accertamento, costitutiva, il decreto ingiuntivo, il provvedimento cautelare ecc. ecc.

2) l’oggetto indiretto o mediato che è il bene della vita o l’utilità concreta che si cerca di ottenere attraverso il provvedimento ad es. la somma di danaro, la certezza, il trasferimento del bene ecc. ecc.

La legge sembra dare maggiore importanza al secondo dato che individua come requisito della domanda previsto a pena di nullità la determinazione della cosa oggetto della domanda. La causa petendi è la ragione in base alla quale si ritiene di avere una determinata pretesa e quindi di poter ottenere un determinato provvedimento. Poiché la dottrina distingue tra episodio di vita concreto che è alla base della domanda ad es. il trasferimento di una somma di danaro e la qualificazione giuridica che se ne può desumere ad es. un contratto di mutuo alcuni ritengono che per identificare la causa petendi è sufficiente individuare il rapporto giuridico e quindi la normativa in base alla quale si ritiene di poter ottenere un determinato provvedimento (cd. Teoria della individuazione) mentre per altri è invece necessario individuare e specificare i fatti concreti sulla cui base si agisce (cd. Teoria della sostanziazione). La questione non è solo concettuale ma costituisce uno dei punti fondamentali del processo dato che da essa dipende la soluzione dei problemi relativi alla identificazione della domanda, alla litispendenza, modificazioni successive, corrispondenza tra chiesto e pronunciato nonché quello dei limiti soggettivi ed oggettivi del giudicato. Poiché secondo la teoria della sostanziazione tutto ciò che non è contenuto nelle allegazioni delle parti non può essere introdotto successivamente nel processo e non può formare oggetto di decisione per cui si corre il rischio che ciò che non sia contenuto nelle allegazioni delle parti possa suffragare nuove ed autonome domande mentre secondo la teoria della individuazione si corre il rischio di non poter dedurre in altri processi i fatti non allegati in base al principio che il giudicato copre il dedotto e il deducibile nonché di non poter dedurre i fatti non allegati in successive fasi processuali in base al divieto di nuove domande in appello si è pervenuti  a delle soluzioni elastiche in relazione alle vari ipotesi di azione di cognizione. Per quando riguarda le azioni di condanna va detto che poiché vi sono processi volti alla tutela di diritti che non possono coesistere simultaneamente più volte tra le stesse parti e cioè diritti assoluti, diritti reali di godimento e diritto di credito ad una prestazione specifica (cd. Diritti autodeterminati) e processi volti alla tutela di diritti che possono esistere più volte contemporaneamente tra gli stessi soggetti con lo stesso contenuto e cioè diritti di garanzia e diritti di credito ad una prestazione generica (cd. Diritti eterodeterminati) in dottrina si ritiene che solo per quest’ultimi le parti debbano specificare compiutamente il fatto generatore. Per quanto riguarda invece le azioni costitutive va detto che poiché alla loro base vi sono delle fattispecie tipiche non sarebbe sufficientemente precisata una domanda che non individuasse compiutamente il fatto generatore ad es. si chiede l’annullamento del contratto senza specificare l’errore, la violenza o il dolo. Per quanto riguarda infine le azioni di accertamento va detto che in questi casi ha rilievo solo la qualificazione giuridica e non anche la vicenda concreta che l’ha provocata si pensi ad es. ad una nullità che può essere rilevata sia d’ufficio sia eccepita da chiunque vi abbia interesse.

L’AZIONE D’ACCERTAMENTO

L’azione di accertamento ha la funzione di dare certezza. Il cittadino che si rivolge al giudice con tale azione vuole conseguire attraverso il provvedimento giurisdizionale la certezza in ordine al diritto o alla situazione giuridica dedotti nel processo. Ci si è chiesti se basta il bisogno di certezza perché si possa dar vita al processo. La risposta al quesito è diversa a seconda che si ritenga l’azione di accertamento un mezzo di tutela di carattere generale ovvero un’azione tipica e quindi esercitabile solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Se si accoglie la prima opinione si deve ritenere sempre esercitabile l’azione di accertamento salvo le ipotesi di giudizi palesemente inutili o defatigatori. Se si accoglie invece la seconda opinione l’azione di accertamento può essere esercitata solo nei casi tipici in cui la legge lo consenta. Qualcuno ha ritenuto di poter argomentare l’esistenza di un’azione di accertamento di carattere generale dall’art 100 c.p.c. il quale recita che per proporre domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse ma questa opinione non può essere accolta perché la norma ci dice solo che l’interesse è necessario non che l’interesse sia sufficiente. Quali siano le condizioni di carattere sostanziale a cui è preordinata la tutela giurisdizionale non può dirlo l’art 100 c.p.c. ma solo il diritto sostanziale. Nel codice civile esistono non poche disposizioni che fanno riferimento all’azione di accertamento. Gli esempi più chiari si hanno in tema di diritti assoluti e di diritti reali si pensi ad es. all’azione negatoria o confessoria o all’azione di accertamento a tutela dell’immagine e del nome dell’imprenditore. In altri termini non sembra che l’ordinamento abbia problemi nel ritenere ammissibile l’azione di accertamento in relazione a situazioni giuridiche che si svolgono fuori della collaborazione di altri soggetti. Nel campo dei diritti di credito invece poiché la situazione conforme al diritto non può svolgersi senza la collaborazione del soggetto obbligato alcuni ritengono che l’azione di accertamento sia ammissibile solo nei casi previsti dalla legge dato che il creditore insoddisfatto deve e non può non chiedere anche la condanna del debitore. Altri invece ritengono che pur in mancanza di una norma ad hoc l’ammissibilità dell’azione di accertamento anche nel settore dei diritti relativi possa argomentarsi da altre disposizioni come ad es. quella che prevede che il riconoscimento del debito da parte dell’obbligato interrompe la prescrizione. Ciò infatti comporterebbe la legittimazione del creditore a far accertare il suo diritto al fine di interrompere la prescrizione. Posto che a nostro modo di vedere una generale azione di accertamento è compatibile con il nostro sistema va detto che il vero problema di tale azione riguarda i requisiti che la situazione d’incertezza deve avere per poter dar vita al processo. In generale si ritiene:

1) che deve trattarsi di un’incertezza che riguardi diritti o situazioni giuridiche

2) che l’incertezza non sia meramente ipotetica e subiettiva

La conferma di ciò si ha dalle disposizioni che sicuramente disciplinano l’azione d’accertamento. Per l’art 949 c.c. il proprietario può agire per far dichiarare l’inesistenza dei diritti affermati da altri sulla cosa quando ha ragione di temerne pregiudizio (cd. Azione negatoria), per l’art 1079 c.c. il titolare di una servitù può agire contro chi ne contesta l’esercizio e può far cessare gli eventuali impedimenti e turbative. Come è evidente per entrambe le disposizioni è necessario che vi sia una controversia in atto e che da essa possa derivarne ragionevolmente un pregiudizio per l’attore

L’AZIONE DI CONDANNA

A differenza dell’azione di accertamento che ha alla base una situazione giuridica assoluta, a base dell’azione di condanna vi è invece un diritto di credito non soddisfatto non essendo stato il relativo obbligo adempiuto spontaneamente dal debitore. Si tratta quindi di un rapporto giuridico relativo. Il giudice di fronte ad un’azione di questo tipo dovrà fare due cose:

1) accertare l’esistenza dei presupposti in base ai quali si è chiesto il provvedimento

2) emanare un provvedimento che non solo fissi la situazione così come è stata ipotizzata dall’attore ma imponga altresì al convenuto di adempiere all’obbligazione di cui è stato riconosciuto debitore

Se dunque risulta chiaro che a base dell’azione di condanna vi è una pretesa non soddisfatta è facile comprendere che a differenza della sentenza di accertamento che da all’attore tutto quello che questi pretende, la sentenza di condanna non servirebbe a nulla se non fosse in grado di essere portata ad esecuzione nel caso in cui l’obbligato-condannato continui a non adempiere. Poiché nel nostro ordinamento il debitore che subisce la condanna è obbligato solo civilmente ed è assoggettato unicamente all’esecuzione forzata la sentenza di condanna non è altro che un ordine pubblicistico rivolto non al debitore ma agli organi del processo esecutivo affinchè la medesima sia messa in esecuzione a richiesta del creditore. Al riguardo va precisato che l’idoneità a diventare titolo esecutivo non comporta però che ogni sentenza di condanna sia esecutiva dipendendo ciò da una scelta discrezionale dell’ordinamento giuridico positivo. Per il nostro  codice le sentenze di condanna anche se di 1° grado sono provvisoriamente esecutive tra le parti ai sensi dell’art. 282. L’ordinamento ricollega alla sentenza di condanna altre due utilità dato che essa è titolo per l’iscrizione dell’ipoteca legale sui beni del debitore e dato che essa trasforma le prescrizioni brevi dei diritti accertati in prescrizioni lunghe (decennali). Accanto alla sentenza di condanna vera e propria l’art 278 prevede una sentenza di condanna particolare largamente utilizzata nella prassi. Si tratta della cd. Sentenza di condanna generica con la quale il giudice riconosce l’AN debeatur ma non determina il Quantum debeatur. L’ipotesi tipica è la seguente: si agisce in giudizio per chiedere la condanna dell’obbligato  ma essendo sorte nel corso del processo delle difficoltà per la determinazione del Quantum si chiede per ora l’emanazione di una sentenza parziale e non definitiva sull’AN mentre il processo prosegue per la determinazione del Quantum. La prassi ha poi ulteriormente potenziato le possibilità applicative dell’art 278 ammettendo persino che l’attore possa iniziare il processo per chiedere solo la cd. Condanna generica con riserva di chiedere in un successivo processo la liquidazione del quantum. Ci si è chiesti se la sentenza di condanna generica produca gli stessi effetti di una sentenza di condanna vera e propria. Al riguardo la legge dice solo che essa è titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale mentre tace in ordine all’efficacia esecutiva e a quella sulla prescrizione. Quanto all’efficacia esecutiva deve senz’altro escludersi che la sentenza di condanna generica possa essere esecutiva dato che l’art 474 c.p.c. richiede che i titoli esecutivi per essere tali devono rappresentare un credito certo, liquido, ed esigibile mentre nel nostro caso il credito è certo ma non anche liquido ed esigibile. Quanto all’efficacia sulla prescrizione va detto che la soluzione è dubbia in dottrina mentre la giurisprudenza è concorde nel ritenere che anche la sentenza di condanna generica trasformi le prescrizioni brevi dei diritti accertati in prescrizioni lunghe. Per concludere si ci è chiesti se sia necessario attendere che l’obbligo sia inadempiuto per poter proporre la domanda giudiziale o se invece sia sufficiente anche la previsione dell’inadempimento. Se al quesito dovessimo dare una risposta positiva si dovrebbe concludere che il nostro sistema ammette la condanna in futuro cosa invece che la legge consente solo in casi eccezionali come ad es. il decreto di ingiunzione dei canoni di locazione ancora da scadere.

L’AZIONE COSTITUTIVA

A differenza dell’azione di condanna e di quella di accertamento, l’azione costitutiva è disciplinata dalla legge dato che l’art 2908 c.c. recita che nei casi previsti dalla legge l’autorità giudiziaria può  modificare, estinguere o costituire rapporti giuridici. Come è facile intuire le azioni costitutive a differenza di quelle di condanna o di accertamento sono azioni tipiche cioè azioni che possono essere esercitate solo quando vi sia una disposizione di legge sostanziale che le preveda. La ragione di questa limitazione è dovuta al fatto che l’azione costitutiva si inserisce nella sfera di autonomia riservata ad ogni soggetto limitandola. Con l’azione costitutiva infatti si fa valere un potere o un diritto potestativo in virtù del quale un soggetto è in grado di provocare effetti sulla sfera giuridica di un altro soggetto a prescindere dalla collaborazione di quest’ultimo a realizzarli. A base delle azioni costitutive vi è dunque una situazione giuridica attiva che s’inquadra nella categoria di un potere e una situazione giuridica passiva che s’inquadra nella categoria della soggezione. Di fronte a tali situazioni è evidente che il legislatore non ha voluto lasciare ad una valutazione discrezionale del giudice l’ammissibilità dell’azione ma ha preferito di indicare i casi in cui essa può essere esercitata. Le ipotesi previste dal legislatore possono essere inquadrate in due categorie:

1) casi in cui i soggetti possono conseguire la costituzione, modificazione, estinzione del rapporto o della situazione giuridica solo attraverso il processo si pensi ad es. all’annullamento del matrimonio ai sensi degli art. 119-123 c.c.

2) casi in cui la costituzione, estinzione, o modificazione del rapporto o della situazione giuridica possono essere realizzate anche fuori del processo tramite la collaborazione degli interessati e solo quando ciò non avvenga si possono ottenere tramite il provvedimento giudiziale si pensi ad es. all’azione per ottenere la comunione forzosa del muro o l’imposizione coattiva di una servitù

Nel primo gruppo di casi la situazione sostanziale può essere spesa solo nel processo e perciò si concreta in un potere che finisce con l’essere assorbito nell’azione. Spesso queste azioni prescindono da un’effettiva contestazione e si avvicinano notevolmente alle ipotesi di giurisdizione volontaria. Nel secondo gruppo di casi la situazione sostanziale può essere esercitata già prima del processo e quindi ha una sua propria individualità per cui si parla di diritto potestativo. La distinzione potrebbe essere utilizzata anche per stabilire il tipo  di efficacia della sentenza costitutiva non essendo chiaro se la fattispecie costitutiva, estintiva, o modificativa debba ritenersi realizzata già al momento della proposizione della domanda giudiziale e se la sentenza operi o meno con efficacia retroattiva al momento in cui si sono verificate le condizioni di fatto della tutela. Si potrebbe perciò essere tentati dal distinguere tra azioni costitutive cd. Necessarie perché correlate ad un mero potere dove la sentenza si porrebbe come elemento della fattispecie costitutiva con la conseguenza che gli elementi di fatto e di diritto della tutela dovrebbero esistere indifferentemente o al tempo della proposizione della domanda giudiziale o quando viene emanata la sentenza la quale non avrebbe normalmente efficacia retroattiva e azioni costitutive cd. Non necessarie perché correlate ai diritti potestativi dove le conseguenze sarebbero opposte. Per quanto riguarda il momento in cui si realizza la fattispecie costitutiva va detto che generalmente si ritiene che i mutamenti degli elementi di fatto e di diritto che sono alla base della domanda verificatesi nel corso del processo siano irrilevanti dato che la durata del processo non deve danneggiare la parte che ha ragione, ma ciò non costituisce regola generale si pensi ad es. allo stato di necessità del locatore che abbia chiesto la cessazione della proroga legale il quale deve sussistere nel momento della decisione. Per quanto riguarda invece il tempo da cui partono gli effetti della sentenza passata in giudicato va detto che normalmente essi non siano retroattivi salvo il caso in cui ciò non sia previsto da una norma espressa. Tra i casi di azione costitutiva merita di essere segnalato quello previsto dall’art. 2932 c.c. sull’esecuzione dell’obbligo di contrarre assunto con un contratto preliminare. Nella vigenza del codice del 1865 in mancanza di  una norma espressa la parte adempiente poteva agire solo per ottenere il risarcimento dei danni e non anche per ottenere l’adempimento essendo la prestazione del consenso un facere infungibile. La dottrina ipotizzò che questo poteva essere un campo di utile applicazione dell’azione costitutiva e il legislatore accolse tale orientamento nel codice del 1942. Di conseguenza oggi il giudice quando gli venga proposta domanda ex art 2932 c.c. deve emanare una sentenza che faccia le veci del contratto definitivo non concluso per cui egli non condannerà la parte inadempiente a concludere il contratto, dato che essendo tale obbligo incoercibile le cose rimarrebbero al punto di partenza, ma disporrà direttamente gli effetti del contratto definitivo non concluso ad es. nel preliminare di vendita trasferirà il bene al compratore alle condizioni pattuite. Per concludere va detto che anche se secondo alcuni autori l’inserimento della norma tra le disposizioni del c.c. dedicate all’esecuzione è improprio a nostro modo di vedere la collocazione è giusta perché le sentenze costitutive sono autoesecutive dato che inglobano nel provvedimento giudiziale sia la dichiarazione sia la realizzazione degli effetti perseguiti con la domanda introduttiva.

LE CONDIZIONI DELL’AZIONE

Ci si è chiesti quale sia la fattispecie alla cui esistenza è subordinata la nascita del diritto-potere d’azione. La risposta com’è ovvio non può essere univoca dato le varie nozioni d’azione.

1) chi ritiene l’azione come diritto ad un provvedimento giudiziale qualsiasi ritiene che presupposti della fattispecie siano l’interesse ad agire e l’astratta possibilità del provvedimento richiesto

2) chi ritiene l’azione come diritto ad un provvedimento di merito qualsiasi ritiene che presupposti della fattispecie siano l’interesse ad agire, la legittimazione ad agire e la possibilità del provvedimento richiesto

3) chi ritiene infine l’azione come diritto ad un provvedimento di merito favorevole ritiene che presupposti della fattispecie siano l’interesse ad agire, la legittimazione ad agire, la possibilità del provvedimento richiesto e l’esistenza del diritto cioè le condizioni sostanziali per la sua concessione.

L’INTERESSE AD AGIRE

L’art 100 c.p.c. disponendo che per proporre domanda giudiziale o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse sembra dire che non basta affermarsi titolari di una situazione giuridica sostanziale per poter agire davanti al giudice essendo necessario che vi sia anche un interesse. Per interesse s’intende il bisogno di tutela giurisdizionale conseguente alla violazione o contestazione del diritto sostanziale oppure alla realizzazione di una modificazione giuridica. Occorre rilevare che il ruolo dell'interesse è diverso a seconda delle varie azioni. Nelle azioni costitutive poiché si tratta di azioni tipiche cioè di azioni previste dalla legge per determinati casi il ruolo dell’interesse è minimo dato che una volta che si sia realizzata l’ipotesi prevista dalla legge non sembra necessario altro. Si pensi ad es. all’art 119 c.c. che fissa in quali casi il matrimonio può essere annullato per interdizione. Se il giudice ritiene l’ipotesi realizzata accoglie la domanda; in caso contrario la rigetta non perché manca l’interesse ma perché manca il diritto. Nelle azioni di condanna invece poiché si tratta di azioni di carattere generale si potrebbe pensare che l’interesse abbia spazio per svolgere la sua funzione. In realtà se si analizza la situazione standard che è alla base delle azioni di condanna e cioè diritto di credito insoddisfatto--obbligo inadempiuto si vede che le differenze specifiche tra le varie azioni finiscono con l’essere assorbite e rese irrilevanti. Se ciò è esatto anche l’interesse finisce con il diventare irrilevante pur se esistente dato che la proposizione dell’azione e la sottostante situazione di interesse viene ad essere giustificata dal credito insoddisfatto a cui corrisponde un obbligo inadempiuto. Nelle azioni di mero accertamento invece il ruolo dell’interesse è di enorme importanza dato che concorre a definire quando il ricorso al giudice non è una inutile provocazione essendo bandite dal nostro ordinamento le azioni di mera iattanza.

LA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE

Ogni qualvolta venga proposta una domanda giudiziale il giudice prima ancora di stabilire se sia o meno fondata la domanda deve chiedersi se il provvedimento possa essere concesso a favore dell’attore e contro il convenuto. Se a tale quesito il giudice dia una risposta positiva si dirà che la domanda è stata proposta da persona legittimata attivamente e contro persona legittimata passivamente. La legittimazione attiva è dunque la coincidenza tra chi propone la domanda in nome proprio e colui che nella domanda è affermato come titolare del diritto mentre la legittimazione passiva è la coincidenza tra colui contro il quale è proposta la domanda e colui che nella domanda è affermato come soggetto passivo del diritto o come violatore di quel diritto. Di solito non si pone il problema di distinguere tra legittimazione ad agire ed esistenza del diritto perché chi propone la domanda assume anche di essere titolare del diritto ed assume altresì che colui contro il quale la domanda è proposta è il titolare della posizione giuridica passiva e poiché nel nostro ordinamento vige il principio della normale correlazione tra titolarità dell’azione e titolarità del diritto ciò basta per dire che l’attore è il legittimato attivo e il convenuto il legittimato passivo. In pratica il problema sorge quando la legge ammette all’azione soggetti diversi dai titolari del diritto sostanziale nonché quando dovendosi svolgere il processo tra più persone si deve stabilire se sono presenti tutti i soggetti legittimati. Al riguardo l’art. 81 c.p.c. recita che fuori dai casi espressamente previsti dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio diritti altrui mentre l’art. 102 c.p.c. recita che se il processo nelle ipotesi di litisconsorzio necessario è promosso solo da alcuni o contro alcuni dei litisconsorti il giudice deve ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti pretermessi. Dalla prima di queste disposizioni si desume che normalmente può agire in giudizio solo chi assume di essere titolare della situazione sostanziale che si vuole tutelare nel processo e che le ipotesi in cui l’azione può essere promossa da chi non assume di essere il titolare del diritto azionato sono eccezionali ( si tratta delle ipotesi di cd. Sostituzione processale). Dalla seconda di queste disposizioni si ricava invece che il giudice non può pronunciarsi sul merito della causa se non sia stato convenuto in giudizio il destinatario o nel litisconsorzio i destinatari del provvedimento giudiziale. Il problema della legittimazione coincide dunque con quello dei destinatari provvedimento giudiziale e non riguarda il merito. E’ infatti possibile che il giudice rigetti la domanda per difetto di legittimazione attiva o passiva senza scendere all’esame del merito con la conseguenza che la domanda potrà essere proposta da o contro il vero legittimato.

LA POSSIBILITA’ DEL PROVVEDIMENTO E L’ESITENZA DEL DIRITTO

Per quanto riguarda la possibilità del provvedimento richiesto e l’esistenza del diritto va detto che non c’è molto da dire. Secondo la teoria dell’azione come diritto ad un provvedimento di merito qualsiasi va detto che in tanto è possibile agire in giudizio in quanto il provvedimento rientri in uno dei tipi previsti dall’ordinamento altrimenti il giudice deve dichiarare l’improponibilità assoluta della domanda. Secondo invece la teoria dell’azione come diritto ad un provvedimento di merito favorevole va detto che il giudice nel rigettare la domanda nel merito finisce anche col dichiarare inesistente l’azione. In definitiva si può concludere che l’autonomia dell’azione dal diritto sostanziale finisce con l’essere confermata dalla disciplina delle condizioni dell’azione. Il giudice infatti prima di provvedere nel merito deve risolvere una serie di problemi che non sono di carattere processuale e che consentono di passare alla trattazione di merito ( cd. Condizioni per la trattazione di merito). Occorre rilevare che l’eventuale decisione del giudice che ritiene inesistenti tali condizioni non preclude la possibilità di riproporre una nuova identica domanda quando le condizioni si siano verificate. Alcuni ritengono che tra queste condizioni vi sia anche l’esistenza del diritto.

L’AZIONE ESECUTIVA

L’azione esecutiva è il necessario completamento della tutela concessa con l’azione di condanna dato che le sentenze di condanna offrono solo la possibilità concreta di ottenere soddisfazione ad es. con la sentenza di condanna l’attore che è creditore di una somma di danaro non ottiene la somma se non traduca in atto il comando giuridico contenuto nella sentenza stessa. A fare ciò provvede l’azione esecutiva. Occorre rilevare che il nostro ordinamento consente tuttavia l’azione esecutiva anche senza il preventivo passaggio attraverso il processo di cognizione richiedendosi solo come presupposto indispensabile un titolo esecutivo il quale ex art. 474 c.p.c. può essere sia di formazione giudiziale sia di formazione stragiudiziale. Ci si è chiesti quale sia la funzione dei titoli esecutivi. Poiché un diritto di credito in tanto può essere azionato nel processo esecutivo in quanto sia certo la funzione del titolo esecutivo è appunto quella di escludere dal processo di esecuzione tutte le questioni che riguardino l’esistenza e il modo di essere del diritto di credito. Da quanto detto ne deriva che nel processo esecutivo si potrà discutere della regolarità del processo di cognizione o dei singoli atti ma non della sostanza del rapporto fra creditore e debitore. Occorre rilevare che la delineata funzione dei titoli esecutivi di rendere l’azione esecutiva astratta rispetto al diritto di credito non crea problemi quando il titolo sia costituito da una sentenza passata in giudicato dato che le parti hanno avuto la possibilità di far valere tutti i loro diritti e di esercitare tutte le loro difese. Se invece il titolo sia costituito da una sentenza ancora impugnabile o da un atto di autonomia privata è invece ben possibile che le parti abbiano ancora qualcosa da dire sulla situazione sostanziale quale risulta dal titolo. Tenuto conto di ciò se si tratta di una sentenza ancora impugnabile la legge consente alla parte esecutata di far valere le sue ragioni davanti al giudice dell’impugnazione il quale può disporre con procedura d’urgenza la sospensione dell’esecuzione. Se invece il titolo è costituito da una sentenza passata in giudicato o da un atto dell’autonomia privata la legge consente alla parte esecutata di proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. Tale opposizione non è che l’atto iniziale di un vero è proprio processo di cognizione e ciò anche se l’istanza venga presentata al giudice dell’esecuzione. La conferma di ciò è data dal fatto che il giudice dell’esecuzione trattiene la causa presso di se solo se sia competente a conoscerla in base ai normali criteri di materia o di valore altrimenti assegna all’opponente un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti all’ufficio giudiziario competente. I motivi che si possono far valere con l’opposizione coincidono con quelli che si possono far valere in un processo ordinario quando il titolo sia costituito da un atto di autonomia privata o da una sentenza ancora impugnabile mentre si riducono quando il titolo sia costituito da una sentenza passata in giudicato dato che in questo caso si deve trattare di motivi che non erano proponibili prima del passaggio in giudicato come ad es. il pagamento effettuato dal debitore dopo l’emanazione della sentenza. L’opposizione all’esecuzione di regola non sospende il processo esecutivo tranne il caso in cui ricorrano due presupposti e cioè:

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1) l’istanza della parte

2) l’esistenza di gravi motivi che vengono valutati dal giudice dell’esecuzione e che di solito si concretano nella rilevante possibilità che l’opposizione sia accolta

Occorre precisare che il processo esecutivo non è preceduto da una fase preliminare diretta all’accertamento della proprietà dell’esecutato sui beni o della titolarità dei diritti espropriati dato che si ci accontenta di solito di indici esteriori come ad es. trovarsi il bene mobile presso il debitore o essere l’immobile intestato al debitore, indici questi che possono anche non corrispondere alla situazione reale. Se in conseguenza di ciò si assoggettano ...

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