1) l’istanza della parte
2) l’esistenza di gravi motivi che vengono valutati dal giudice dell’esecuzione e che di solito si concretano nella rilevante possibilità che l’opposizione sia accolta
Occorre precisare che il processo esecutivo non è preceduto da una fase preliminare diretta all’accertamento della proprietà dell’esecutato sui beni o della titolarità dei diritti espropriati dato che si ci accontenta di solito di indici esteriori come ad es. trovarsi il bene mobile presso il debitore o essere l’immobile intestato al debitore, indici questi che possono anche non corrispondere alla situazione reale. Se in conseguenza di ciò si assoggettano all’esecuzione beni sui quali i terzi vantano dei diritti la legge consente a costoro di fare ricorso ad un’autonoma azione di cognizione che si inserisce nel processo esecutivo e può ricorrendone i presupposti anche sospenderlo. Si tratta della cd. Opposizione di terzo all’esecuzione prevista dall’art 619 c.p.c. Per concludere va chiarito che se nel corso del processo esecutivo vengano compiuti atti irregolari o invalidi la legge consente agli interessati che possono essere sia il debitore o il creditore e talvolta anche terze persone la possibilità di proporre opposizione agli atti esecutivi ex art 617 e 618 c.p.c. la quale da vita ad un mero incidente nell’ambito del processo esecutivo per cui il giudice competente è quello dell’esecuzione e la procedura è assai semplificata. La relativa sentenza è inappellabile per cui è proponibile solo il ricorso in cassazione o il regolamento di competenza. Tale opposizione non fa sorgere alcun problema di sospensione del processo esecutivo dato che l’opposizione fa corpo con il processo medesimo ma comporta solo la sospensione del termine di 90 giorni dal pignoramento entro il quale il creditore deve presentare istanza di assegnazione o di vendita. Il legislatore infatti ha ritenuto che i soggetti possano compiere gli atti processuali previsti come se l’opposizione non fosse stata presentata a meno che non ritengano più utile attendere l’esito dell’opposizione.
L’AZIONE CAUTELARE E I PROVVEDIMENTI SOMMARI
La disciplina delle azioni cautelari è contenuta principalmente nel capo 3° del 4° libro del codice anche se va detto che vi sono molti provvedimenti cautelari previsti sia dal c.c. sia dalla legislazione speciale. L’azione cautelare è subordinata essenzialmente a due condizioni:
1) la dimostrazione che il diritto sostanziale che si vuole cautelare molto probabilmente esiste cd. Fumus boni iuris
2) la prova che durante il tempo necessario per ottenere un provvedimento definitivo si possono verificare dei pregiudizi alla situazione giuridica o di fatto del soggetto interessato al provvedimento cd. Periculum in mora
Queste due condizioni si coordinano con la funzione dell’azione la quale pertanto tende all’emanazione di provvedimenti che hanno lo scopo di assicurare la situazione di fatto e di diritto così com’è attualmente in vista del futuro provvedimento definitivo. L’indagine del giudice in ordine all’esistenza del diritto che s’intende proteggere è necessariamente sommaria dato che altrimenti il procedimento cautelare coinciderebbe con quello di merito. Il giudice infatti dovrà limitarsi ad accertare che il diritto ha buone possibilità di essere riconosciuto esistente dal giudice della cognizione e dovrà rendersi conto che il pericolo che il ricorrente afferma di correre durante il processo ordinario esiste realmente e cioè che è probabile che si abbiano i temuti mutamenti della situazione materiale e/o giuridica. Come è facile intuire l’azione cautelare è un’azione astratta in quanto non è collegata alla piena prova del diritto per cui assume rilievo preminente come condizione della tutela l’interesse ad agire. Il procedimento cautelare è stato modificato dalla legge del 90 n. 353 la quale ha lasciato immutata solo la disciplina dei provvedimenti d’istruzione preventiva. Tale procedimento prevede:
1) che la domanda si propone con ricorso
2) che la competenza spetta al giudice competente per il merito in caso di richiesta ante causam ovvero al giudice investito del merito in caso di richiesta in corso di causa
3) che il provvedimento di rigetto implica la condanna alle spese
4) che il provvedimento positivo è modificabile e revocabile
5) che in caso di richiesta ante causam è necessario iniziare il giudizio di merito entro un termine perentorio
6) che contro il provvedimento di accoglimento o di rigetto è proponibile reclamo al giudice superiore
7) che il provvedimento di accoglimento perde efficacia ove il giudizio di merito non sia iniziato ovvero si estingua o si concluda con sentenza anche non passata in giudicato che dichiari l’inesistenza del diritto per il quale la cautela era stata concessa
Tra i provvedimenti cautelari meritano di essere ricordati i sequestri e i provvedimenti d’urgenza. Tra i sequestri i più noti sono:
1) il sequestro giudiziario che può essere ordinato quando è controversa la proprietà o il possesso dei beni ed è quindi strumentale al processo di cognizione. Esso comporta la nomina di un custode del bene controverso e la predisposizione di misure per impedire che atti materiali di disposizione pregiudichino il sequestrante.
2) il sequestro conservativo che può essere chiesto da chi assume di essere creditore e di avere fondato motivo di perdere la garanzia del proprio credito. Tale provvedimento che è strumentale ad un futuro processo di esecuzione si concreta sostanzialmente in una sorta di anticipazione degli effetti del pignoramento.
Per quanto riguarda invece i provvedimenti d’urgenza va detto che essi possono essere concessi alle seguenti condizioni:
1) quando non è possibile il ricorso ad altra misura cautelare (hanno cioè carattere sussidiario)
2) quando si ha il fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il diritto in via ordinaria questo sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile
Il carattere sussidiario e le condizioni richieste per i provvedimenti d’urgenza dimostrano che il legislatore ha pensato ad essi come ad una specie di valvola di sicurezza a cui fare ricorso solo in casi eccezionali. Poiché tuttavia il nostro sistema processuale non ha mai funzionato bene e la lunghezza dei tempi processuali è divenuta esasperante alcune applicazioni pratiche dell’art 700 c.p.c. hanno contribuito a trasformare un rimedio pensato dal legislatore come cautelare in un procedimento sommario per cui è necessario fissare bene la linea di demarcazione tra i due provvedimenti. Abbiamo detto che caratteristiche delle azioni cautelari sono:
a) una cognizione superficiale o una valutazione di mera probabilità del diritto che si vuole cautelare
b) la predisposizione di misure conservative dell’attuale situazione di fatto o di diritto o addirittura l’anticipazione in tutto o in parte della tutela ordinaria
c) la mancanza di autonomia dei relativi provvedimenti dato che essi o si risolveranno o si convertiranno integralmente nel provvedimento ordinario o verranno meno per le vicende processuali successive
I provvedimenti sommari invece sono conclusivi di un autonomo procedimento che non si svolge secondo il modello normale bensì secondo un modello semplificato al quale può ma non deve necessariamente seguire un processo a cognizione piena. Si pensi ad es. all’art 28 dello statuto dei lavoratori secondo il quale gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali possono presentare in caso di condotta antisindacale del datore un ricorso al pretore il quale nei due giorni successivi convocate le parti e assunte sommarie informazioni se lo ritiene opportuno emana decreto motivato ed immediatamente esecutivo con il quale concede la cautela. Entro 15 giorni la parte interessata può proporre ricorso al pretore il quale decide con sentenza immediatamente esecutiva altrimenti in caso di mancata opposizione il decreto resta fermo e diviene immutabile. Come è facile intuire la differenza rispetto al procedimento cautelare non è data dal tipo di cognizione che anche in questo caso è sommaria e superficiale ma nella disciplina del provvedimento conclusivo che nel procedimento sommario ha l’attitudine a diventare stabile. I provvedimenti sommari si distinguono in:
1) necessari quando la parte interessata deve e non può fare ricorso alla procedura semplificata come ad es. nel caso dell’art 28 dello statuto dei lavoratori o nel caso di sentenza dichiarativa di fallimento
2) non necessari quando la parte interessata può scegliere tra procedura semplificata o procedura ordinaria ad es. il creditore in possesso di cambiale può fare ricorso sia alla procedura monitoria sia all’azione ordinaria di condanna
Dai provvedimenti cautelari vanno tenuti distinti anche i provvedimenti interinali i quali si caratterizzano per i seguenti aspetti:
1) sono emanati nel corso di un processo a cognizione piena
2) sono fondati su una cognizione che allo stato degli atti è sufficiente a far accogliere in tutto o in parte la domanda
3) possono essere sempre revocati ove l’istruttoria successiva porti ad una modificazione del convincimento del giudice
Come è facile intuire tali provvedimenti essendo basati sulla tecnica dell’anticipazione dovrebbero essere assorbiti da quelli che concludono l’ordinario processo di cognizione e venir meno qualora il processo ordinario non si concluda con una sentenza di merito (esempi sono le ordinanze ex art 423 per il pagamento delle somme non contestate o nei limiti in cui si ritenga raggiunta la prova). A nostro modo di vedere l’unica differenza rispetto ai provvedimenti cautelari è data dal fatto che i provvedimenti interinali sono fondati su una cognizione allo stato degli atti la quale però non sempre è distinguibile nella realtà da una cognizione sommaria o superficiale.
LE ATTIVITA’ DEL CONVENUTO
Al convenuto l’ordinamento riconosce vari poteri che possono essere ordinati in una sorta di scala a seconda della loro intensità. In particolare il convenuto può:
1) restare contumace
2) costituirsi in giudizio ma rimanere assente
3) conservare una posizione meramente negatoria
4) proporre eccezioni
5) proporre domanda riconvenzionale
6) proporre domanda di accertamento incidentale
7) secondo alcuni qualora non accetti la rinunzia dell’attore può assumere l’iniziativa processuale chiedendo l’accertamento negativo
LA CONTUMACIA
Si ha la contumacia quando il convenuto decide di non costituirsi in giudizio e di non presentarsi davanti al giudice per ragioni che possono essere varie ad es. per noncuranza dei propri affari o per eccesso di sicurezza o per impossibilità economica di anticipare le spese del processo etc. etc. Per il legislatore il convenuto è libero di restare contumace dovendo l’attore fornire la prova del suo diritto sotto pena di rigetto della domanda. Questo atteggiamento del legislatore è criticato da quelli che non vogliono che il processo sia uno strumento di cui le parti possono disporre a loro piacimento. Un risultato di questo orientamento si vede nelle leggi del 90 n. 353 e del 73 n. 533 le quali cercano di costringere le parti ad essere presenti di persona nel processo dato che la mancata comparizione costituisce argomento di prova e rimuovono gli ostacoli derivanti dall’impossibilità pratica di parteciparvi dando alle parti la facoltà di farsi rappresentare da un terzo anche in sede di interrogatorio libero. Alcuni pensano di equiparare la contumacia alla non contestazione ma tale soluzione a nostro modo di vedere è arbitraria potendosi al massimo equiparare la contumacia alla mancata comparizione personale e quindi ad un argomento di prova.
L’ASSENZA
Si ha l’assenza quando il convenuto dopo essersi costituito in giudizio dichiarando di aver avuto notizia della lite e di voler probabilmente resistere ad essa rimane inerte e non compare più davanti al giudice. La situazione è simile a quella della contumacia solo che qui il convenuto ha avuto modo di prendere posizione sui fatti affermati dall’attore con la domanda per cui se non l’ha fatto ciò può integrare quel comportamento concludente che da luogo a non contestazione.
LA CONTESTAZIONE DELLA DOMANDA
Si ha la contestazione della domanda quando il convenuto oltre a costituirsi in giudizio e ad essere presente svolge ulteriori attività processuali. In particolare egli contesta che i fatti affermati dall’attore siano in tutto o in parte veri e nega che siano comunque idonei a produrre le conseguenze volute dall’attore. A differenza della contumacia e dell’assenza è probabile che in questo caso si abbia un dibattito probatorio nel corso del quale il convenuto non rimane inerte ma s’industria nel portare prove contrarie ai fatti affermati dall’attore. Sarà poi il giudice a dover valutare le prove addotte da entrambe le parti e in caso di dubbio dovrà rigettare la domanda applicando la regola dell’onere della prova tranne il caso in cui non ritenga di deferire il giuramento suppletorio.
L’ECCEZIONE
Di solito si ha la proposizione di un’eccezione quando il convenuto dopo essersi costituito in giudizio non si limita a negare i fatti affermati dall’attore ma introduce nel processo altri fatti che arricchiscono la vicenda prospettata dall’attore. Di questi fatti alcuni sono di per se giuridicamente rilevanti altri invece sono soltanto strumentali. Si pensi ad es. al caso dove di fronte all’attore che assume di aver dato in prestito un milione al convenuto nel gennaio del 96 il convenuto risponda di aver conosciuto l’attore nel giugno del 96. Questo nuovo fatto di per se non è giuridicamente rilevante ma solo strumentale perché se provato rende impossibile l’assunto dell’attore (si tratta di un fatto cd. Secondario ). Il convenuto però può anche rispondere di aver pagato l’attore ed in questo caso allega un fatto di per se giuridicamente rilevante (cd. Fatto principale) che se provato ha l’effetto immediato di estinguere quello addotto dall’attore. L’allegazione di fatti di questa specie ha un ulteriore caratteristica e precisamente quella di far si che pure essendo tali fatti giuridicamente rilevanti il tema decisionale rimane fermo alla situazione sostanziale dedotta nel processo dall’attore ad es. anche dopo l’allegazione dell’avvenuto pagamento il giudice dovrà decidere sull’esistenza o meno del diritto di credito vantato dall’attore. In queste ipotesi i dice che il convenuto allega delle eccezioni le quali pertanto hanno per oggetto fatti che senza modificare il tema decisionale fissato dall’originale domanda arricchiscono la vicenda storica narrata dall’attore concretandosi in circostanze che hanno di per se l’efficacia di estinguere, modificare o impedire quella dei fatti dedotti nel processo dall’attore. Occorre rilevare che vi sono delle eccezioni che possono essere rilevate d’ufficio dal giudice a condizione però che i fatti storici su cui sono basate risultino acquisite agli atti del processo essendovi il divieto del giudice di fare uso della sua scienza privata. Nell’esempio fatto il giudice può rigettare la domanda dell’attore qualora dagli atti della causa risulti che il debito è stato pagato mentre non potrà rigettarla se abbia personale notizia del pagamento. Per concludere va precisato che l’onere di provare le eccezioni ricade sulla parte che le allega e che in caso di rilevabilità d’ufficio il dubbio del giudice si risolve a favore della parte che non ha l’onere dell’allegazione. Nell’esempio fatto il giudice se non sia sufficientemente convinto dell’avvenuto pagamento dovrà accogliere la domanda.
LA DOMANDA RICONVENZIONALE
Con l’eccezione il convenuto arricchisce il fatto su cui il giudice deve giudicare con nuove circostanze ma resta pur sempre nell’ambito del rapporto o della situazione giuridica dedotta nel processo dall’attore. Se invece il convenuto allega delle circostanze che non solo arricchiscono il fatto originariamente fissato dall’attore ma introducono altresì nel processo un nuovo rapporto o una nuova situazione giuridica collegata con quella dedotta nell’atto introduttivo e su cui il convenuto chiede che il giudice decida autonomamente si dice che questi propone domanda riconvenzionale ad es. l’attore chiede la condanna del convenuto ad una somma di danaro e il convenuto costituitosi oppone un contro credito di importo maggiore chiedendo al giudice di condannare l’attore al pagamento della differenza. Come è facile notare il convenuto ha approfittato della pendenza del processo per introdurvi una propria azione che avrebbe potuto esercitare anche in via autonoma. Ciò è reso possibile dal fatto che fra la domanda originaria e quella successiva esiste un collegamento che nell’esempio fatto è dato dal formare la materia su cui incide già oggetto di eccezione (art. 36 c.p.c.). In caso contrario il giudice deve dichiarare inammissibile la domanda riconvenzionale. Per concludere va precisato che sia l’eccezione sia la domanda riconvenzionale possono essere proposte anche dall’attore quando nel processo le posizioni risultino ribaltate.
L’ACCERTAMENTO INCIDENTALE
L’accertamento incidentale non è necessariamente collegato al potere processuale del convenuto anche se di solito è il convenuto ad avervi interesse. L’unica disposizione che regola l’istituto è l’art 34 c.p.c. Da questa norma si desume che non tutti i punti che il giudice deve fissare per pervenire alla pronuncia conclusiva sono decisi allo stesso modo dato che ve ne sono alcuni che sono fissati solo in vista della decisione finale e che restano interni al processo. Questi per venir fuori ed acquistare autonomia devono essere o diventare oggetto di accertamento incidentale. Al riguardo la dottrina classica aveva distinto tra:
1) i punti pregiudiziali che riguardano tutte quelle situazioni che il giudice deve fissare nella sentenza per pervenire al dispositivo finale senza che sugli stessi sia sorta una controversia tra le parti
2) le questioni che sono quei punti che devono essere risolti dal giudice previo esercizio della sua attività di ricerca e di ricostruzione del fatto essendo sorti sugli stessi una controversia tra le parti. Anche le questioni si pongono come una delle tappe che il giudice deve oltrepassare per giungere alla decisione finale.
3) gli accertamenti incidentali che sono quelle questioni che per esplicita richiesta delle parti o per imposizione di legge devono essere isolate e decise dal giudice come se si trattasse di un’autonoma controversia dato il loro carattere pregiudiziale alla controversia originaria. In questi casi il giudice non decide sulla questione con efficacia interna al processo in corso ma emana sulla questione una sentenza autonoma che è idonea a passare in giudicato e quindi a regolare per il futuro il rapporto giuridico
Come è facile intuire la differenza tra punto, questione, e accertamento incidentale è data dal modo e dalla efficacia della decisione su di essi dato che mentre la decisione sul punto o sulla questione serve solo a stabilire le premesse per la decisione definitiva ma non estende la sua efficacia fuori dell’attuale processo quella sulla questione su cui si sia chiesto l’accertamento incidentale è una sentenza autonoma idonea a passare in giudicato. Si pensi ad es. al caso in cui di fronte all’attore che chiede la condanna del convenuto al pagamento di una rata di un’obbligazione il convenuto costituitosi deduca l’invalidità del negozio da cui deriva l’obbligazione. In questo caso se il convenuto si limita a chiedere che il giudice accerti ciò nel processo e con efficacia limitata al processo la decisione del giudice avrà effetti solo sulla lite attuale per cui l’attore scaduta un’altra rata potrà proporre altra domanda contro la quale il convenuto non potrà opporre il giudicato sull’invalidità del contratto dato che questo non ha potuto formarsi per il carattere endoprocessuale dell’accertamento. Se invece il convenuto chiede che il giudice decida sulla questione con efficacia di giudicato la decisione potrà essere utilizzata anche per il processo successivo. Altre volte è l’ordinamento a pretendere che sulla questione si decida con efficacia di giudicato come ad es. avviene quando l’attore chiede la condanna del convenuto al pagamento degli alimenti e questi si opponga affermando di non essere legato da alcun rapporto di parentela con l’attore.
L’ACCERTAMENTO NEGATIVO
Parte della dottrina partendo dall’art 306 c.p.c. che richiede per l’efficacia della rinunzia agli atti del giudizio l’accettazione dell’altra parte pensa di individuare un potere di accertamento del convenuto che ha ad oggetto l’inesistenza del diritto azionato dall’attore e che resta quiescente fino a quando l’attore coltivi l’azione emergendo in tutta la sua autonomia allorchè costui rimanga inerte. A nostro modo di vedere tale opinione non può essere accolta essendo tale presunto potere del convenuto nient’altro che il riflesso del carattere necessariamente dialettico e contraddittorio del processo il quale una volta sorto tende alla sua soluzione fisiologica cioè alla sentenza tranne il caso in cui tutti i soggetti partecipi del contraddittorio siano d’accordo nell’impedirlo.
LE PARTI
Per acquistare la qualità di parte basta compiere l’atto iniziale del processo previsto da una serie di disposizioni del c.p.c. e seconda dei casi si diventerà attore, appellante, ricorrente, interventore, creditore pignorante, creditore interveniente. Di solito poi con il compimento dell’atto iniziale acquista la qualità di parte anche il controinteressato il quale sarà a seconda dei casi convenuto, appellato, resistente, intimato, debitore esecutato. Occorre tuttavia precisare che tale coincidenza non vi è quando il processo sia iniziato con ricorso dato che mentre il ricorrente acquista la qualità di parte con la presentazione del ricorso al giudice il controinteressato e cioè il resistente acquista tale qualità in un momento successivo che di solito coincide con la notificazione del ricorso stesso mentre talvolta ha luogo con la notificazione del provvedimento con cui il giudice accoglie l’istanza (ad es. decreto ingiuntivo). In definitiva si può concludere che parte è colui che propone la domanda in nome proprio o colui nel cui nome si propone la domanda e rispettivamente colui nei confronti del quale la domanda è proposta.
LA CAPACITA’ DI ESSERE PARTE
Si è soliti dire che è capace di essere parte chi è soggetto di diritto per cui la capacità di essere parte finisce con l’essere la trasposizione nell’ambito del diritto processuale della nozione della capacità giuridica. Il legislatore non dedica all’argomento alcuna disposizione espressa del codice di procedura ritenendo la materia completamente disciplinata dal diritto sostanziale. In questo modo la capacità di essere parte sarebbe modellata sulla capacità giuridica essendovi tra le due perfetta coincidenza. Come è noto la capacità giuridica è automaticamente collegata alla nascita delle persone fisiche (in qualche caso è addirittura anticipata) o al riconoscimento della personalità giuridica quando si tratti di persone giuridiche. L’art 75 4° comma c.p.c. nel disporre tuttavia che le associazioni e i comitati che non siano persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate dagli art 36 e ss del c.c. conferisce a queste associazioni o comitati la capacità di essere parti nel processo e ciò malgrado a queste entità non sia stata riconosciuta la qualifica di persone giuridiche. Ciò comporta che le eventuali vicende che dovessero riguardare le persone fisiche abilitate a stare in giudizio (ad es. la morte) non influiranno sul regolare svolgimento del processo il quale continuerà come se tali eventi non si fossero verificati. In sostanza l’art 75 4° comma c.p.c. prevede una deroga alla normale coincidenza tra capacità giuridica sostanziale e capacità giuridica processuale quando si tratti di associazioni e di comitati non riconosciute come persone giuridiche. Ci si è chiesti se il riferimento alle associazioni o ai comitati sia tassativo o se invece la disposizione sia applicabile anche a tutte le altre entità non riconosciute come persone giuridiche come ad es. un condominio quando questo agisca in giudizio per le controversie che riguardino le parti comuni dell’edificio. L’opinione prevalente è che tale elencazione non sia tassativa per cui la disposizione può essere applicata anche ad altre figure simili come ad es. una società non riconosciuta, una società irregolare, una comunione etc. etc. Accanto a queste ipotesi si pongono ipotesi simili in cui l’ordinamento ricollega norme giuridiche sostanziali ad entità che pur non avendo ancora capacità giuridica sostanziale hanno però la capacità di essere parte nelle controversie che riguardano le fattispecie sostanziali. Si tratta dei nascituri già concepiti o non ancora concepiti. Poiché tuttavia in questi casi è la legge a stabilire chi sia il soggetto che possa e debba prendersi cura degli interessi del nascituro il legame tra la posizione del nascituro e quella del rappresentante non può non essere rilevante nel processo per cui le eventuali vicende che dovessero riguardare il rappresentante influiranno sul regolare svolgimento del processo. Normalmente anche se l’art 643 c.c. affida la rappresentanza al padre e in mancanza di questo alla madre a nostro modo di vedere la norma che faceva riferimento alla patria potestà va intesa come se dicesse che la rappresentanza spetta sempre e comunque ad entrambi i genitori.
LA CAPACITA’ PROCESSUALE
Il problema della capacità processuale nasce perché non ogni soggetto che è capace di essere parte e anche capace di stare in giudizio. Anche questa situazione trova esatto riscontro nel campo del diritto sostanziale dove si distingue la capacità giuridica dalla capacità di agire che è appunto la capacità del soggetto di compiere atti giuridicamente rilevanti e che di solito si acquista con il compimento del 18° anno di età. In sostanza si può dire che la capacità giuridica sta alla capacità di essere parte così come la capacità di agire sta alla capacità processuale. Al riguardo va però precisato che mentre il primo rapporto è quasi sempre coincidente nel secondo tale coincidenza viene meno spesso. L’art 374 c.c. richiede che il tutore si munisca dell’autorizzazione del giudice tutelare per promuovere i giudizi nell’interesse del minore, l’art 394 c.c. prevede che il minore emancipato può stare in giudizio con l’assistenza del curatore occorrendo l’autorizzazione del giudice tutelare solo quando si tratti di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. Queste disposizioni si applicano anche agli interdetti, inabilitati, interdicendi o inabilitandi. Di conseguenza posto che non hanno assolutamente capacità di agire i minori e gli interdetti i quali sono altresì processualmente incapaci va detto che stanno in giudizio in nome e per conto loro le persone che hanno la rappresentanza legale e cioè i genitori e i tutori. Hanno invece una limitata capacità di agire gli emancipati e gli inabilitati i quali possono stare in giudizio con l’assistenza del curatore. Nel corso del giudizio di interdizione e d’inabilitazione il giudice può provvedere alla cura degli interessi degli interdicendi o inabilitandi nominando loro un tutore o curatore provvisorio i cui poteri sono ritagliati su quelli del tutore o curatore definitivo. Accanto a queste ipotesi ve ne sono delle altre che si riconnettono a svariate situazioni ad es. il fallito perde l’amministrazione e la disponibilità dei beni che passano al curatore, allo scomparso viene nominato un curatore, nel caso di assenza le persone che ottengono l’immissione nel possesso temporaneo dei beni diventano anche rappresentanti in giudizio dell’assente etc. etc. Non va poi dimenticato che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto, che le persone giuridiche pubbliche hanno di solito bisogno dell’autorizzazione degli organi deliberanti e che le amministrazioni dello stato stanno in giudizio nella persona del ministro competente. Per evitare che il processo sia iniziato o proseguito da soggetti che non siano processualmente capaci o da soggetti che non abbiano la rappresentanza, l’assistenza o l’autorizzazione il legislatore ha fatto obbligo al giudice di esaminare i problemi inerenti alla capacità processuale delle parti sin dalla prima udienza di comparizione ex art 180 c.p.c. prevedendo che quando questi rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione può assegnare alle parti un termine per la costituzione della persona a cui spetti la rappresentanza o l’assistenza o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni tranne il caso in cui di sia verificata una decadenza (art 182 c.p.c.). Occorre rilevare che la formulazione della disposizione non è delle più felici perché essendo la ratio di essa quella di evitare un vizio che potrebbe condurre ad una sentenza meramente processuale il giudice così come è obbligato ad eseguire il controllo allo stesso modo è obbligato a concedere un termine salvo il caso in cui particolari circostanze ostative rendano ciò impossibile. Quanto detto trova conferma nell’art 164 c.p.c. il quale evidenzia che le nullità dell’atto di citazione sono sempre sanabili e che esiste un potere-dovere del giudice di disporre la sanatoria con efficacia retroattiva ove il vizio riguardi la vocatio in ius o con efficacia irretroattiva ove il vizio riguardi l’editio actionis. Per quanto riguarda l’inciso salvo che si sia verificata una decadenza va detto che esso deve essere inteso alla stregua di quanto disposto dal 5° comma dello stesso art 164 c.p.c. cioè salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione dato che se si ritenesse che l’autorizzazione possa essere esclusa da una decadenza di carattere processuale non avrebbe senso chiedere ed ottenere l’autorizzazione. In altri termini il giudice nell’autorizzare la sanatoria dovrà fare salvi i diritti quesiti dall’altra parte e non dovrà tener conto delle preclusioni processuali che si siano eventualmente verificate. In definitiva si può dire che:
1) il giudice ha il potere-dovere di concedere un termine per sanare un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione
2) la relativa ordinanza deve fare salvi i diritti quesiti dall’altra parte tra i quali però non vanno compresi le situazioni di vantaggio derivanti da sopravvenute prescrizioni
3) il termine concesso non è perentorio salvo che ciò non sia espressamente disposto
4) se il difetto non viene ravvisato dal primo giudice si ha un vizio della sentenza suscettibile di essere fatto valere con l’appello
5) la norma si applica anche al giudizio di impugnazione ma solo per i vizi di rappresentanza, assistenza o autorizzazione che si siano verificati in quel grado
LA RAPPRESENTANZA PROCESSUALE E LA NEGOTIORUM GESTIO PROCESSUALE
Di solito la parte sta nel processo personalmente. Può accadere tuttavia che la stessa debba servirsi della intermediazione di un altro soggetto come avviene nelle ipotesi di rappresentanza legale e necessaria oppure che ritenga opportuno servirsene come avviene nelle ipotesi di rappresentanza volontaria. Nel primo caso però essendo la rappresentanza necessaria i fatti interruttivi del processo si verificano sia quanto riguardano il rappresentante sia quanto riguardano il rappresentato. Nel secondo caso invece non vi è alcuna necessità giuridica dato che un soggetto conferisce incarico ad altro soggetto di stare in giudizio in nome e per suo conto per esigenze personali o per ragioni di comodo. Prima di parlare dell’istituto della rappresentanza volontaria va chiarito che esso non ha nulla a che vedere con la cd. Rappresentanza tecnica del difensore la quale si ricollega alla necessità-opportunità che la parte abbia nel processo un intermediario che parli lo stesso linguaggio del giudice. Naturalmente nulla esclude che la cd. Rappresentanza tecnica del difensore e la cd. Rappresentanza volontaria possano essere cumulate nella stessa persona. Per quanto riguardo la cd. Rappresentanza tecnica va detto che attualmente:
1) davanti al giudice di pace le parti stanno in giudizio personalmente solo nelle cause il cui valore non ecceda un milione mentre negli altri casi devono stare in giudizio col ministero di un difensore tranne il caso in cui il giudice non le autorizzi a stare in giudizio di persona in considerazione della natura ed entità della causa
2) davanti la pretore, tribunale e alla corte d’appello le parti devono stare in giudizio con il ministero di un avvocato e possono farsi assistere da altri avvocati e da consulenti
3) davanti alla corte di cassazione le parti devono stare in giudizio col ministero di un avvocato iscritto nell’apposito albo dei cassazionisti
Per quanto riguarda invece la cd. Rappresentanza processuale volontaria va detto che il legislatore nell’ammettere l’istituto ha cercato di restringerne il campo di applicazione disponendo all’art 77:
1) che la procura processuale sia conferita espressamente per iscritto
2) che si tratti di persona che sia già procuratore generale della parte ovvero procuratore speciale per singoli affari in relazione ai quali è sorta la controversia
Da quanto detto ne deriva che la rappresentanza processuale non è consentita quando non è possibile la rappresentanza sostanziale ad es. nel campo dei diritti indisponibili. Occorre rilevare che vi sono tuttavia delle ipotesi in cui il conferimento della procura nel campo sostanziale implica normalmente anche la concessione della procura processuale. Ciò si verifica ad es. quando un soggetto che sia residente o domiciliato all’estero conferisca la procura generale ad una persona di sua fiducia, nel caso dell’institore, dell’agente di commercio, del raccomandatario o dell’impresa capogruppo mandataria nei confronti del soggetto appaltante. In queste ipotesi spetterà alla parte interessata dimostrare che alla rappresentanza sostanziale non si accompagna anche quella processuale il che non sempre è consentito. L’art 77 c.p.c. prevede poi una deroga alla necessità dell’espresso conferimento della procura processuale disponendo che il rappresentante sostanziale che non abbia la procura processuale può stare in giudizio per gli atti urgenti e le misure cautelari. Al riguardo va precisato che l’urgenza non può dipendere da ragioni soggettive ma solo da ragioni oggettive che non derivino dal comportamento negligente del rappresentante sostanziale. In mancanza di tale urgenza il giudice dovrà emettere una sentenza processuale con la quale no potrà toccare il merito della controversia. Si potrebbe pensare che in questi casi il terzo sia autorizzato a comportarsi come un gestore di affari altrui e quindi sia che abbia sia che non abbia la rappresentanza sostanziale egli sia comunque legittimato ad agire in giudizio per il solo fatto di essersi preso cura degli affari altrui. Questa soluzione non può essere accolta perché nel caso previsto dall’art 77 c.p.c. è la natura dell’urgenza che legittima il rappresentante sostanziale senza procura processuale ad agire in giudizio. Da quanto detto deve escludersi nel nostro ordinamento l’ammissibilità di una negotiorum gestio processuale. Al riguardo è sufficiente considerare che l’interessato alla gestione utile è tenuto alle obbligazioni assunte dal gestore solo se la gestione sia utilmente iniziata. Poiché una simile valutazione non può essere fatta a priori nel processo dipendendo ciò dall’esito del giudizio si dovrebbe ritenere che la rappresentanza sia valevole secundum eventum litis e cioè riferibile al soggetto interessato solo in caso di esito favorevole del processo conseguenza questa inaccettabile. Allo stesso modo deve escludersi nel nostro ordinamento un mandato processuale senza rappresentanza dato che al rischio di un processo di cui non sia ben chiaro chi sia il destinatario degli effetti si aggiungerebbe la certezza che il concreto svolgimento avvenga senza l’effettiva partecipazione del soggetto interessato mentre non è consentito alla autonomia delle parti di alterare il principio del contraddittorio.
LA SOSTITUZIONE PROCESSUALE
Il legislatore tenuto presente che vi sono rapporti o situazioni sostanziali intrecciate o collegate tra di loro in cui l’intreccio o il legame non può non avere riflessi sul piano processuale consente in alcuni casi che un soggetto possa agire processualmente in nome proprio e per conto di un altro soggetto (cd. Sostituzione processuale). Le ipotesi di sostituzione processuale non possono che essere eccezionali e devono risultare in modo espresso dalla legge dato che la sostituzione processuale importa una deroga alla normale correlazione tra titolarità dell’azione e titolarità della situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo. L’art 81 c.p.c. infatti afferma testualmente che fuori dee casi espressamente previsti dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. Nel codice civile si rinvengono numerose ipotesi di sostituzione processuale si pensi ad es:
1) all’art 273 c.c. che legittima il tutore a promuovere l’azione per la dichiarazione di paternità o maternità naturale nell’interesse del minore (non si tratta di rappresentanza perché si tratta di diritti indisponibili)
2) all’art 1705 c.c. che legittima il mandante a far valere nei confronti dei terzi i diritti di credito derivanti dall’esecuzione di un mandato senza rappresentanza che il mandatario trascuri di far valere (non si tratta di rappresentanza perché i diritti sono in nome del mandatario)
3) all’art 1979 c.c. che consente ai creditori cessionari di esercitare tutti le azioni di carattere personale relative ai beni che il debitore ha ceduto dato che la cessione attribuisce ai creditori il potere di liquidarli
4) all’art 2789 che in caso di pegno consente al creditore pignoratizio di rivendicare il bene nei confronti di chi lo possiede dato che il pegno presuppone la disponibilità materiale del bene
5) all’art 2900 c.c. che è in sostanza la norma che fissa la regola generale da cui discendono tutte le disposizioni sopraddette. Si tratta della cd. Azione surrogatoria che consente al creditore di esercitare tutti i diritti e le azioni di contenuto patrimoniale che spettano al proprio debitore verso terzi e che questo trascura di esercitare.
Anche nel c.p.c. si rinvengono ipotesi di sostituzione processuale si pensi ad es:
1) all’art 93 c.p.c. che consente al difensore di chiedere al giudice che nella stessa sentenza in cui condanna alle spese distragga in suo favore e in favore degli altri difensori gli onorari non riscossi e le spese anticipate
2) all’art 108 c.p.c. che consente al garante di assumere la causa in luogo del garantito quando le altre parti non si siano opposte all’estromissione di quest’ultimo
3) all’art 111 c.p.c. che nella successione a titolo particolare nel diritto controverso consente all’alienante di rimanere in giudizio al posto dell’acquirente
Occorre rilevare che poiché il sostituto processuale è parte nel processo per una situazione giuridica sostanziale che non gli appartiene egli non può compiere atti di disposizione che riguardino il diritto controverso. Si pone dunque il problema di distinguere tra le attività che spettano alla parte solo perché questa è parte processuale e attività che spettano alla parte perché questa è anche collegata alla situazione sostanziale dedotta in lite. Sotto il primo profilo non vi è dubbio che si indirizzano al sostituto processuale tutte le norme che presuppongono la sola posizione formale di parte. Sotto il secondo profilo va invece detto che il sostituto processuale non può ad es. rendere confessione dato che l’efficacia della confessione presuppone che il soggetto che confessi sia capace di disporre del diritto a cui si riferiscono i fatti confessati. Più complessa è la situazione per ciò che concerne il giuramento dato che la legge richiede la capacità di disporre del diritto solo quando si deve deferire o riferire il giuramento ma non anche quando si deve prestarlo. Da quanto detto ne deriva che mentre il sostituto non può deferire o riferire il giuramento deve invece ritenersi che egli possa renderlo. Per analoghe ragioni si ritiene che il sostituto processuale non possa compiere atti processuali che comportino disposizione del diritto controverso. Sotto questo profilo alcuni ritengono che il sostituto possa rinunciare agli atti del processo solo nella fase di primo grado e non anche nelle fasi successive dato che in questo caso alla rinuncia si connette il formarsi del giudicato sulla sentenza impugnata. Si ritiene invece che il sostituto processuale sia legittimato a proporre impugnazione.
IL P.M.
Nel quadro della sostituzione processuale va inserita l’attività del P.M. il quale secondo il legislatore doveva assolvere ad una duplice funzione e cioè:
1) non lasciare ai privati il monopolio esclusivo di agire in giudizio quando si tratti di questioni che interessino non solo le parti ma anche la collettività
2) fare salvi in questi casi il principio della domanda evitando che l’iniziativa processuale possa essere affidata al giudice il quale deve essere terzo anche formalmente
Pur essendo un funzionario dell’amministrazione statale inserito nell’ordine giudiziario al fine di distinguere la funzione giudicante da quella inquirente non vi è dubbio che nei processi il P.M. assume la veste di parte e agisce come parte essendo destinato a tutelare gli interessi della collettività. Poiché tuttavia si ha l’intromissione nel processo di una parte alla quale il legislatore riconosce una legittimazione straordinaria non può non valere lo stesso principio di tassatività che è alla base delle ipotesi di sostituzione processuale. Gli art 69 e ss. c.p.c. infatti rinviano alla legge i casi in cui il P.M. può assumere l’iniziativa processuale. Poiché tuttavia tale iniziativa rientra nell’ambito di una pubblica funzione da quanto detto ne deriva di conseguenza che quando il P.M. venga a conoscenza di fatti che integrano una delle ipotesi in cui egli può proporre domanda giudiziale egli è obbligato a proporla. Allo stesso modo quando il P.M. venga a conoscenza di un processo nel quale è obbligatorio il suo intervento egli verrebbe meno al suo dovere funzionale se non vi prendesse parte. Da quanto esposto ne deriva che ci troviamo di fronte a due situazioni
1) quella in cui il P.M. deve proporre domanda giudiziale dando vita al processo
2) quella in cui il P.M. deve prendere parte ad un processo già iniziato da altri
Come è evidente nella prima ipotesi egli svolge una funzione prevalentemente propulsiva mentre nella seconda finisce con l’esercitare soprattutto una funzione di controllo. Naturalmente sarà la legge a stabilire i casi in cui il P.M. debba azionarsi e quelli in cui debba solo intervenire. Fuori da queste ipotesi tassativamente previste la legge riconosce al P.M. la possibilità di intervenire ogni qualvolta ritenga opportuna la sua partecipazione per salvaguardare un pubblico interesse. In definitiva gli art 69 e 70 c.p.c. individuano tre diverse posizioni del P.M. e cioè:
1) quella in cui egli può e deve intervenire in veste di attore
2) quella in cui egli deve partecipare al processo come interventore
3) quella in cui egli può decidere di intervenirvi
Il settore nel quale è più facile rinvenire ipotesi di azione del P.M. è quello della disciplina della famiglia e dello stato e della capacità delle persone. Si pensi ad es. al potere d’iniziativa del P.M. di far dichiarare l’interdizione o l’inabilitazione, al potere di chiedere la nomina del curatore dello scomparso o la dichiarazione di morte presunta, al potere di chiedere lo stato di adottabilità, al potere di impugnare il matrimonio tra parenti o tra minori etc. etc. Per quanto riguarda invece i casi in cui è sufficiente che il P.M. intervenga va detto che la legge ha individuato intere classi di giudizi non essendo necessaria un’elencazione analitica come quando si deve riconoscere una legittimazione straordinaria e precisamente:
1) giudizi riguardanti cause che il P.M. avrebbe dovuto iniziare
2) giudizi riguardanti cause matrimoniali comprese quelle di separazione personale dei coniugi
3) giudizi riguardanti cause sullo stato e la capacità delle persone
4) giudizi riguardanti gli altri casi previsti dalla legge (ad es. la querela di falso e la delibazione delle sentenze straniere)
5) giudizi riguardanti cause che si svolgono davanti alla corte di cassazione
Ci si è chiesti quale sia la posizione processuale del P.M. Al riguardo bisogna distinguere il caso in cui il P.M. ha il potere d’azione (cd. P.M. agente) dal caso in cui il P.M. può solo intervenire (cd. P.M. interveniente). Nel primo caso il P.M. ha tutti i poteri processuali che spettano alle parti e li esercita nelle forme stabilite dalla legge per quest’ultime. Tali poteri spettano al P.M. anche quando interviene nelle cause che avrebbe dovuto iniziare. Occorre rilevare che nella prassi vi è una resistenza a dedurre da tale principio tutte le conseguenze in considerazione della natura sui generis di parte del P.M. che ha la funzione di tutelare un pubblico interesse ad es. si ritiene che il P.M. non possa essere condannato al pagamento delle spese processuali. Negli altri casi di intervento ed eccezion fatta per le cause davanti alla corte di cassazione invece il P.M. può introdurre documenti, produrre prove e prendere conclusioni nei limiti delle domande formulate dalle parti (art.72 c.p.c.). In sostanza si può dire che il P.M. può svolgere solo un’attività asseverativa e non anche un’attività assertiva essendo questa collegata al potere delle parti di fissare il tema decidendum. A questa regola generale derogano i due commi successivi dell’art 72 c.p.c. che riconoscono al P.M. il potere di impugnare le sentenze relative a cause matrimoniali e quelle di delibazione di sentenze straniere aventi lo stesso oggetto. Il potere d’impugnazione infatti è collegato al potere d’azione e non dovrebbe essere riconosciuto al P.M. se non in quelle cause matrimoniali in cui egli deve proporre la domanda giudiziale. In realtà tale potere che fu riconosciuto nel 1950 aveva lo scopo di consentire l’impugnazione non solo al P.M. del giudice che aveva pronunciato la sentenza ma anche a quello presso il giudice dell’impugnazione dato che in quegli anni il matrimonio era considerato come un vincolo indissolubile da salvaguardare da quelle sentenze di annullamento che largheggiavano nella prassi. Poiché tuttavia il termine per l’impugnazione decorre dalla comunicazione della sentenza alle sole parti costituite e cioè al solo P.M. presso il tribunale o corte giudicante la giurisprudenza ha cercato di risolvere il problema facendo obbligo alla cancelleria di comunicare la sentenza anche al P.M. presso il giudice dell’impugnazione. In ogni caso va chiarito che attualmente è molto difficile che si abbia un’applicazione pratica di tali disposizioni essendovi oggi la legge sul divorzio. Per concludere va chiarito che:
1) quando il P.M. sia stato regolarmente citato si applicano le preclusioni previste dalla legge per le parti concernenti la costituzione in giudizio e le deduzioni istruttorie
2) quando il P.M. sia parte necessaria e non sia stato citato le preclusioni non si applicano se egli interviene spontaneamente mentre se è chiamato dal giudice si applicano le norme sul litisconsorzio necessario e sulla chiamata in causa del terzo
3) quando il P.M. non sia parte necessaria egli può intervenire fino a che non siano precisate le conclusioni ma deve accettare la lite nello stato in cui si trova
LE AZIONI A TUTELA DEGLI INTERESSI DIFFUSI
Negli ultimi anni si è pensato che il processo civile possa essere organizzato in maniera tale da tutelare gli interessi collettivi (o di gruppo) e gli interessi diffusi (o indifferenziati). A parte il fatto che una tale tutela richiede una lunga tradizione ed una esperienza e coscienza sociale come quella anglossassone che è estranea al nostro paese va detto gli interessi diffusi presentano una notevole diversità tra di loro per cui la realizzazione di alcuni di essi può essere confliggente con quella di altri. Ad es. l’interesse alla salvaguardia dell’ecologia può essere in contrasto con quello alla massima produttività delle imprese o alla piena occupazione, l’interesse alla correttezza e completezza dell’informazione può essere confliggente con l’esigenza di controllare i mass media etc. etc. Da quanto esposto risulta evidente:
1) che non è il processo la via più adeguata per apprestare la tutela in tale settore
2) che tra gli interessi diffusi ve ne sono solo alcuni che possono trovare una soddisfacente difesa nel processo ad es. quello alla tutela dei consumatori
3) che in relazione a questi interessi bisogna in primo luogo trovare il soggetto o il gruppo capace di farsene portavoce nel processo in modo indipendente ed autonomo dalle altre forze del sistema
4) che non esiste al riguardo un procedimento tipo per tali situazioni per cui ognuna di esse finisce con l’essere disciplinata autonomamente e con procedura a se stante
Al riguardo va ricordato che il legislatore per ciò che concerne il danno all’ambiente, al paesaggio e alle bellezze artistiche e naturali ha riconosciuto allo stato e agli altri enti territoriali il potere di esercitare l’azione civile anche in sede penale al fine di ottenere il risarcimento dei danni provocati all’ambiente anche se va detto che a nostro modo di vedere sarebbe stato meglio prevedere l’azione davanti alla Corte dei Conti la quale ha competenza in materia di danno erariale. La Corte di Cassazione ha poi riconosciuto al singolo cittadino il potere di agire in giudizio a tutela della salute e della salubrità dell’ambiente mentre il legislatore ha consentito ai portatori di interessi diffusi costituiti in comitati o associazioni di intervenire nel procedimento amministrativo che li riguardi (ad es. comitato dei consumatori). In definitiva si può concludere che l’esigenza di tutelare situazioni superindividuali si è andata affermando nel nostro paese anche se va precisato che vi è la tendenza del legislatore ad escludere meccanismi di autolegittamazione (organizzazioni che negli statuti si definiscono portatori di tali interessi).
SUCCESSIONE A TITOLO UNIVERSALE
Secondo l’art. 110 c.p.c. quando la parte viene meno per morte o per altra causa il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. La prima parte della disposizione si riferisce alle persone fisiche ed individua l’unica vicenda che fa venir meno la capacità giuridica e quindi la capacità di essere parte vale a dire la morte del soggetto a cui è altresì equiparata la morte presunta. La seconda parte della disposizione con l’inciso per altra causa si riferisce invece alle persone giuridiche ed in relazione alla loro possibile estinzione richiede per l’applicazione due condizioni e cioè:
1) il venir meno della persona giuridica
2) l’accompagnarsi a tale vicenda un fenomeno di successione a titolo universale
Da quanto detto ne deriva che è dunque il diritto sostanziale a stabilire quando le persone giuridiche siano da considerarsi estinte e quando a ciò si accompagni una successione a titolo universale. Al riguardo l’art 2504 c.c. ci dice che estinzione e successione a titolo universale si verificano solo in caso di fusione dato che in caso di liquidazione la società resta in vita sino a quando non sia cancellata dal registro delle imprese e dato che dopo la cancellazione non si ha alcun fenomeno successorio ma solo il pagamento delle quote di riparto a favore dei soci. La giurisprudenza ritiene poi che anche dopo la cancellazione la società deve considerarsi ancora esistente se siano pendenti contestazioni giudiziarie con i creditori di essa e che il processo debba proseguire nei confronti di quelle stesse persone che la rappresentavano in giudizio (liquidatori). Questa opinione che è dettata dalla necessità pratica di evitare che i creditori della società abbiano a riassumere il processo nei confronti degli ex soci trova conforto nella prassi non essendovi alcuna disposizione processuale che contempli il caso in questione. Occorre rilevare che quando si tratta di persone giuridiche pubbliche la tendenza è quella di escludere che vi sia una successione a titolo universale tranne il caso in cui si tratti di enti autarchici territoriali. In ogni caso va chiarito che si tratta di un problema di diritto positivo da risolvere caso per caso utilizzando i principi generali sopraddetti cioè escludendo la successione quando vi sia una fase di liquidazione e la soluzione in concreto non si presenta tanto facile basti pensare alle questioni create dalle leggi che hanno previsto l’istituzione dell’ENEL e dell’ENTE FERROVIE DELLO STATO
SUCCESSIONE A TITOLO PARTICOLARE
L’art 111 c.p.c. disciplina la successione a titolo particolare nel diritto controverso stabilendo che se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare il processo prosegue tra le parti originarie. Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte (legato) il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e se le altre parti vi consentono l’alienante o il successore a titolo universale può essere estromesso dal processo. La sentenza pronunciata contro quest’ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui salvo le norme sull’acquisto in buana fede dei mobili e sulla trascrizione. Come è noto la ratio di questa disposizione si ricollega all’esigenza Chiovendiana di evitare che la durata del processo danneggi la parte che ha ragione. La norma dellart. 111 c.p.c. deve essere coordinata con la disciplina dettata dalla legge sostanziale sui conflitti. Vi sono infatti dei casi in cui la posizione del titolare del diritto riconosciuta in giudizio è comunque prevalente su quella del suo avversario processuale e del terzo che eventualmente gli succeda sia anteriormente alla proposizione della domanda giudiziale sia pendente lite. Si pensi ad es. alle situazioni tutelate con azioni di natura reale (rivendicazione) o con azioni cui l’ordinamento riconosce efficacia retroattiva reale. In questi casi è ovvio che avendo la legge sostanziale già risolto il conflitto l’art 111 c.p.c. serve solo ad escludere che la parte vittoriosa debba nuovamente rivolgersi al giudice per far valere il suo diritto nei confronti del terzo che abbia acquistato pendente lite. Se invece la legge sostanziale non prevede alcun criterio risolutore nel caso in cui il terzo acquisti dopo la proposizione della domanda giudiziale e prima del passaggio in giudicato della sentenza l’art 111 c.p.c. emerge in tutta la sua importanza perché equipara il terzo che acquisti pendente lite alla parte originaria a cui succede estendendogli l’efficacia della sentenza pronunciata tra le parti originarie. In altri termini il legislatore ha ritenuto che l’atto di disposizione compiuto pendente lite pur essendo idoneo a produrre effetti sul piano sostanziale non incide sullo svolgimento del processo in corso per cui il giudice dovrà decidere del diritto controverso come se questo fosse ancora della parte originaria a cui il terzo è succeduto anche se per un meccanismo processuale la decisione produrrà effetti anche nei confronti del successore (cd. Teoria della irrilevanza della successione). Da quanto esposto deve escludersi che nel nostro ordinamento possa essere accolta la cd. Teoria della rilevanza della successione secondo la quale il diritto del successore diviene oggetto del processo solo se vi sia stato un mutamento della domanda e cioè solo se la parte originaria abbia chiesto un provvedimento a favore o contro il successore e non più per se o contro il convenuto originario. Dalla teoria della irrilevanza della successione derivano le seguenti conseguenze:
1) il dante causa del terzo sta nel processo in base alla sua legittimazione originaria (non è quindi un vero sostituto processuale)
2) il dante causa può proporre tutte le eccezioni personali proprie che non siano venute meno a causa della successione
3) le eccezioni opponibili al successore possono essere fatte valere solo dopo averlo chiamato in causa
4) la sentenza spiega i suoi effetti compreso quello esecutivo contro il successore anche se la parte non ne abbia fatto al riguardo esplicita richiesta
Occorre rilevare che secondo la dottrina prevalente di successione a titolo particolare nel diritto controverso si parla solo in due casi e cioè:
1) quando venga trasferita la stessa posizione che forma oggetto di controversia ad es. Tizio rivendica la proprietà del bene X nei confronti di Caio e questi trasferisce il bene pendente lite a Sempronio
2) quando il processo abbia ad oggetto la pronuncia di nullità, annullamento, risoluzione, rescissione, etc. etc. di un negozio con cui si sia trasferito il diritto di proprietà su di un bene e nel corso del processo il bene venga trasferito ad un terzo ad es. Tizio chiede che sia dichiarata la nullità del contratto con cui ha trasferito il bene X a Caio e questi trasferisce il bene pendente lite a Sempronio
Come è facile intuire tra le due ipotesi vi è una sostanziale differenza dato che mentre nel primo caso la parte originaria resta in giudizio per un diritto che non è più suo nel secondo caso la parte originaria resta in giudizio per difendere una posizione contrattuale che rimane sua anche se il diritto a cui andava riferita è stato trasferito ad un altro soggetto. Secondo questa impostazione in questo seconda ipotesi non si ha una vera e propria successione nel diritto controverso per cui l’efficacia della sentenza nei confronti del terzo non è diretta come nel primo caso bensì riflessa. Coerentemente a tale impostazione alcuni autori ritengono che non ogni effetto della sentenza ricada sul terzo (in particolare si ritengono esclusi gli effetti esecutivi) e che la salvezza prevista dall’ultimo comma dell’art 111 c.p.c. riguardi solo le ipotesi in cui vi sia la trasmissione in senso proprio del diritto controverso. La giurisprudenza propende invece per una interpretazione più ampia dell’art. 111 c.p.c. dato che secondo essa:
1) l’efficacia della sentenza nei confronti del successore riguarda tutti gli effetti e quindi anche quelli esecutivi
2) la salvezza prevista riguarda tutte le norme sulla trascrizione eccezion fatta per il n. 7 dell’art. 2652 c.c.
3) la sentenza sarà sempre opponibile al terzo che abbia acquistato pendente lite salvo il meccanismo dell’usucapione abbreviato per i beni mobili e il mancato concorso delle condizione previste dalle norme sulla trascrizione per ciò che concerne gli immobili
Per quanto riguarda la posizione processuale dell’alienante va precisato che:
1) se la successione non è allegata e/o provata il processo prosegue regolarmente tra le parti originarie e il dante causa del terzo può compire qualsiasi atto a rilevanza processuale e processuale/sostanziale (ad es. rinuncia, confessione, giuramento). E’ tuttavia possibile che il successore al quale si estendono gli effetti della sentenza proponga impugnazione affermando che gli effetti della confessione o del deferimento del giuramento non possono essergli imputati
2) se la successione è allegata e provata ma il terzo non è chiamato in causa o non interviene nel processo la parte originaria può compiere ogni atto a rilevanza processuale ma non anche atti che importino disposizione del diritto controverso come ad es. la confessione e il deferimento del giuramento
3) se il terzo partecipa al processo si ha una situazione analoga a quella del litisconsorzio necessario per cui la rinuncia dovrà essere a seconda dei casi proposta o accettata sia dal dante causa che dal suo successore, il giuramento dovrà essere deferito da entrambi. La confessione o il giuramento reso da uno solo dei due sarà liberamente valutata dal giudice
Occorre rilevare che quando vi sia la partecipazione del terzo al processo si potrà far luogo all’estromissione del dante causa solo se le altre parti siano espressamente d’accordo e la sentenza non debba provvedere nel merito anche nei suoi confronti. Di solito l’estromissione non sarà consentita quando vi sia il timore che il successore non possa garantire il pagamento delle spese processuali cui fosse condannato dato che a seguito dell’estromissione il dante causa perde lo status di parte ed è completamente sostituito dal successore subentrante. Per concludere va chiarito che l’art 111 c.p.c. nel prevedere che in caso di successione a titolo particolare a causa di morte il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto deroga alla disciplina sostanziale secondo la quale la proprietà della cosa legata si trasmette al legatario al momento della morte del de cuius senza bisogno di accettazione da parte sua. Poiché invece l’erede acquista l’eredità solo in seguito all’accettazione può accadere che questi pur non avendo ancora accettato debba stare in giudizio per il legatario che è già titolare del bene legato.
LITISCONSORZIO NECESSARIO
Per litisconsorzio s’intende la pluralità di parti nel processo. Esistono due tipi di litisconsorzio:
1) IL LITISCONSORZIO NECESSARO
2) IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO
Il litisconsorzio necessario è disciplinato dall’art 102 c.p.c. il quale recita che se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo. Se questo è promosso solo da alcune o contro alcune di esse il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito. L’idea che è alla base della disciplina del litisconsorzio necessario è che vi sono delle situazioni giuridiche sostanziali con pluralità di parti che sono inscindibili e cioè che vi sia una legittimazione ad agire necessariamente congiunta determinata dalla contitolarità del rapporto sostanziale per cui il giudice nel decidere deve necessariamente ascoltare tutti costoro ordinando l’integrazione del contraddittorio nel caso in cui uno di essi sia pretermesso si pensi ad es. al caso in cui un’appartenente ad una comunione di beni ne chieda lo scioglimento e chiami in giudizio solo alcuni dei comunisti. L’opinione prevalente è che la necessità del litisconsorzio sia da ricollegarsi alla causa petendi cioè al rapporto sostanziale che è alla base della domanda e che quindi sia il diritto positivo ad individuare i casi in cui l’integrazione del contraddittorio è presupposto necessario per la decisione di merito. Non può accogliersi pertanto l’opinione di coloro che ritengono che alla base della necessità del litisconsorzio vi sia il petitum cioè il risultato giuridico perseguito in giudizio con la conseguenza che l’integrità del contraddittorio s’impone solo se le parti vogliono una sentenza idonea a regolare compiutamente il rapporto giuridico controverso. La conferma di ciò è data dal fatto che se le parti non ottemperino all’ordine di integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice questi deve emanare una sentenza processuale con la quale dichiara di non poter decidere nel merito. Ci si è chiesti quale sia il regime della sentenza emessa a contraddittorio non integro. Al riguardo occorrere distinguere due casi
1) il caso in cui il contraddittorio non integro non emerge dalle allegazioni e dalle prove fornite dalle parti e che quindi non può essere rilevato d’ufficio dal giudice
2) il caso in cui il contraddittorio non integro emerge dalle allegazioni e dalle prove fornite dalle parti ma il giudice non vi abbia posto riparo
Nel primo caso deve ritenersi che la sentenza emanata pur essendo valida non può pregiudicare il rapporto realmente esistente per cui ciascuno dei litisconsorti può portare in giudizio la reale situazione senza bisogno di far caducare la sentenza. Nel secondo caso invece deve ritenersi che la sentenza emanata sia inutiler data cioè inefficace sia per chi ha partecipato al processo sia per il litisconsorte pretermesso (non passerebbe mai in giudicato). Per concludere va detto che se le parti non ottemperino all’ordine di integrazione del contraddittorio il processo si estingue. E’ questo l’unico caso in cui l’estinzione può essere dichiarata d’ufficio dal giudice dato che ex art 307 c.p.c. l’estinzione deve essere eccepita dalla parte interessata. La ragione della deroga è palese infatti in questo caso manca la parte che avrebbe dovuto sollevare l’eccezione.
LITISCONSORZIO FACOLTATIVO
A differenza del litisconsorzio necessario che si ha quando vi sia una causa unica inscindibile con più di due parti il litisconsorzio facoltativo si ha quando le cause sono molteplici o quando nel processo regolarmente instaurato tra le parti originarie si inserisce un terzo soggetto che vi abbia interesse. Il litisconsorzio facoltativo può essere:
1) Originario. Esso è disciplinato dall’art. 103 c.p.c.
2) Successivo. Esso non è disciplinato da una norma espressa ma dagli art 105 e ss. c.p.c. dedicati agli interventi
Il L.F.O. che è previsto e regolato dall’art. 103 c.p.c. si ha quando il processo nasce sin dall’inizio con più di due parti ma tale partecipazione plurima non è imposta dalla legge potendo le varie azioni essere decise anche separatamente. A base di tale litisconsorzio vi è un legame tra le cause che è dato:
1) dalla connessione per l’oggetto o per il titolo da cui dipendono cd. Litisconsorzio facoltativo proprio
2) dal fatto che la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni cd. Litisconsorzio facoltativo improprio
Si pensi ad es. al caso di due o più persone che essendo trasportate su di un autoveicolo subiscono un sinistro e decidono di proporre un unico atto di citazione contro il responsabile del danno per ottenere il risarcimento (in questo caso la connessione è per il titolo cioè l’illecito prodotto all’atto del sinistro). Può anche darsi che il danneggiato chieda il risarcimento non solo al responsabile del danno ma anche al proprietario del veicolo (in questo caso la connessione è per l’oggetto cioè il risarcimento). Si pensi anche al caso in cui un gruppo di lavoratori sollevino nei confronti del datore identiche questioni deducendo particolari inadempienze (L.F. improprio). Poiché nel litisconsorzio facoltativo sia originario che successivo si trovano a convivere più cause fornite ciascuna di una propria individualità nel caso in cui sorgano delle complicazioni riguardanti alcune di esse il giudice può disporre sulla base di valutazioni di opportunità che le cause o alcune di esse procedano separatamente. Si pensi ad es. ad una rinunzia fatta da uno solo dei litisconsorti, o ad un eccezione di competenza sollevata da una sola parte o ad un fatto interruttivo che colpisca una sola parte etc. etc. Ci si è chiesti quale sia la disciplina delle prove in caso di litisconsorzio facoltativo. Al riguardo bisogna distinguere due casi:
1) quello in cui i fatti da accertare sono comuni a tutti i litisconsorti
2) quello in cui i fatti da accertare riguardino solo alcune delle cause cumulate
Nel primo caso va detto che una volta acquisita al processo la prova di tale fatto essa vale allo stesso modo per tutti per cui ciascuno dei litisconsorti può chiederne l’ammissione o attivarsi per l’assunzione. Nel secondo caso invece la prova potrà essere chiesta solo dalla parte interessata ed avrà effetto solo nei suoi confronti. Altro dubbio riguarda la disciplina di quelle prove che implicano il potere di disposizione del rapporto controverso. L’opinione prevalente al riguardo e che al litisconsorzio facoltativo non possono essere applicate le norme del c.c. previste per il litisconsorzio necessario le quali dispongono che la confessione ed il giuramento prestati solo da alcuni dei litisconsorti sono liberamente apprezzati dal giudice ma solo l’art 1305 c.c. il quale dispone che il giuramento prestato da un coobbligato solidale si estende agli altri soltanto in utilibus.
CUMULO NECESARIO
La dottrina ha individuato tra i processi a litisconsorzio necessario e quelli a litisconsorzio facoltativo una categoria intermedia quella dei processi a cumulo necessario. Il caso più emblematico è quello delle impugnazioni avverso la medesima decisione assembleare le quali debbono essere istruite congiuntamente e decise in un’unica sentenza. In questa ed in altre ipotesi simili sembra che il legislatore abbia pensato ad una sorta di litisconsorzio necessario successivo nel senso che si ha l’esigenza del processo unitario soltanto nel caso in cui vi sia stata una pluralità di domande identiche da parte dei legittimati per cui il giudice non ha da porsi il problema dell’integrazione del contraddittorio. Naturalmente è ovvio che in queste ipotesi il processo non può che proseguire unitariamente davanti allo stesso giudice per evitare che vi siano decisioni da parte di giudici diversi che siano tra loro contrastanti. Si può solo ipotizzare che una o più delle parti originarie rinunzino alla domanda nel qual caso se vi è l’accettazione delle altre parti il processo avrà fine nei lori confronti. Per quanto riguarda poi i problemi probatori va chiarito che in caso di cumulo necessario:
1) il litisconsorte potrà validamente giurare o confessare solo se sia in grado di disporre da solo del diritto controverso e destinatario della confessione sarà solo l’avversario.
2) il deferimento del giuramento dovrà a pena d’inammissibilità essere effettuato da tutti o a tutti i litisconsorti se questi siano in grado di disporre del diritto solo congiuntamente. L’eventuale prestazione del giuramento fatta solo da alcuni dei litisconsorti sarà liberamente valutata dal giudice.
GLI INTERVENTI
A differenza del litisconsorzio necessario in cui quando si realizza l’integrazione del contraddittorio non si fa altro che realizzare un’esigenza che è coeva all’instaurazione del rapporto (il processo nasce già con più di due parti) nel caso degli interventi si ha una realizzazione successiva e meramente eventuale della pluralità di parti dato che essi si verificano quando nel processo già regolarmente instaurato tra le parti originarie vi subentri un terzo soggetto che vi abbia interesse. Caratteristica degli interventi è dunque il fatto:
1) che il processo già pende tra le parti originarie
2) che terze persone a loro volta vi si inseriscano o di propria iniziativa (cd. Intervento volontario) o a seguito di loro chiamata in causa (cd. Intervento coatto)
INTERVENTI VOLONTARI
La dottrina distingue tre tipi di interventi volontari tutti disciplinati dall’art 105 c.p.c.
1) L’intervento principale che si ha quando un soggetto interviene nel processo tra altre persone per far valere in confronto di tutte le parti un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo. L’esempio classico è quello di Sempronio che interviene nel processo in cui Tizio agisce contro Caio rivendicando la proprietà del bene X affermando che la proprietà di tale bene non è né di Tizio né di Caio bensì sua per cui egli la rivendica. Come è evidente tale intervento non può che essere facoltativo dato che essendo la sentenza tra le parti originarie res inter alios acta egli non subirebbe mai un pregiudizio e quindi potrebbe sia esercitare un’autonoma azione sia proporre opposizione di terzo ordinaria
2) L’intervento adesivo autonomo o litisconsortile che si ha quando un soggetto interviene nel processo tra altre persone per far valere in confronto di alcune di esse un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo. Si pensi ad es. al caso in cui Sempronio interviene nel processo in cui Tizio ha chiesto la condanna di Caio al risarcimento del danno facendo valere una propria domanda di risarcimento fondata sullo stesso fatto illecito o ai casi in cui l’ordinamento riconosca la legittimazione ad agire ad una pluralità di soggetti ad es. ai soci assenti o dissenzienti i quali possono intervenire nel processo già instaurato da uno di essi contro una deliberazione di una S.P.A.
3) L’intervento adesivo semplice o dipendente che si ha quando un soggetto interviene nel processo tra altre persone per sostenere le ragioni di una delle parti perché vi ha un proprio interesse. L’idea che secondo il legislatore è alla base di tale intervento è che la sentenza civile ha spesso un’efficacia ultra partes che è indiretta o riflessa e che i terzi che possono essere pregiudicati da tale efficacia essendo portatori di un semplice interesse e non di un autonomo diritto non potrebbero esercitare una loro autonoma azione. Secondo tale impostazione:
a) l’intervento è necessario essendo la sola via consentita al terzo per partecipare al processo
b) in caso di mancato intervento il terzo può proporre solo l’opposizione di terzo revocatoria
c) il pregiudizio che è alla base dell’intervento è un pregiudizio giuridico dato che il terzo non potrebbe far valere il suo interesse in un autonomo processo
La dottrina dell’efficacia riflessa del giudicato è stata criticata oltre che dalla Corte Cost. in varie sentenze anche da tutti quelli che ritengono che i terzi subiscano dei pregiudizi non in conseguenza degli effetti del giudicato ma a causa del nesso di pregiudizialità-dipendenza che esiste tra le posizioni delle parti e quelle dei terzi. In tutti questi casi infatti viene consentito al terzo di partecipare al processo in cui si discute del rapporto giuridico che lo condiziona e pregiudica proprio per rendergli opponibile un giudicato che altrimenti non sarebbe a lui opponibile. Da quanto detto ne deriva di conseguenza che:
a) l’intervento dipendente è sempre un rimedio facoltativo essendo la sentenza inter alios non opponibile al terzo
b) il pregiudizio che è alla base dell’intervento non è un pregiudizio giuridico ma dipende dal fatto che i giudici hanno la tendenza a sentirsi vincolati dal giudicato precedente
c) l’ammissibilità dell’intervento deve essere sottoposta ad una rigorosa valutazione dell’interesse che finisce pertanto con l’essere l’unico filtro esercitabile
A nostro modo di vedere questa impostazione è quella da accogliere anche se al riguardo vanno fatte alcune precisazioni:
1) innanzitutto va chiarito che poiché vi sono nel diritto positivo dei casi in cui l’efficacia della sentenza inter alios nei confronti del terzo è espressamente prevista dalla legge in questi casi l’intervento dipendente del terzo è necessario dato che in mancanza questi avrebbe solo il rimedio dell’opposizione di terzo revocatoria ad es. la sentenza pronunciata tra locatore e conduttore si estende anche al subconduttore
2) in secondo luogo va chiarito che il vincolo di pregiudizialità-dipendenza che esiste tra i rapporti giuridici può anche non essere giuridico ma economico si pensi ad es. al creditore che interviene nel processo in cui sono messi in discussione i diritti patrimoniali del suo debitore e dai quali dipende la concreta possibilità di essere pagato
In definitiva si può concludere che:
A) con l’intervento principale il terzo utilizza un mezzo aggiuntivo che l’ordinamento gli riconosce prevalentemente a scopo di economia processuale. Tale rimedio è facoltativo dato che il terzo potrebbe sia agire in via autonoma sia proporre opposizione contro la sentenza che gli rechi un pregiudizio che non sarà giuridico ma di fatto dato che essa è resa inter alios. Una volta però che sia intervenuto si realizza un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo successivo.
B) con l’intervento litisconsortile ci troviamo di fronte ad una pluralità di legittimazioni concorrenti quando il nesso è dato sia dall’oggetto sia dalla causa petendi ovvero ad una pluralità di azioni aventi lo stesso oggetto o la stessa causa petendi. Il terzo pertanto si allinea alla posizione di una delle parti originarie pur essendo portatore di una situazione giuridica che potrebbe far valere in via autonoma per cui il rimedio è facoltativo
C) con l’intervento dipendente invece il rimedio è tendenzialmente facoltativo ma esiste una complessità di situazioni legittimanti che l’art.105 c.p.c. ha avuto il torto di disciplinare unitariamente
I POTERI DEGLI INTERVENTORI
Per quanto riguarda i poteri degli interventori va detto che:
1) gli interventori principali e quelli litisconsortili esercitano con la loro domanda un’autonoma azione per cui essi hanno gli stessi poteri processuali delle parti e sono soggetti agli stessi problemi applicativi che si riscontrano in caso di litisconsorzio facoltativo originario dato che mentre con il litisconsorzio facoltativo originario si realizza la trattazione unitaria di più cause connesse fin dall’inizio con gli interventi principali e litisconsortili questa unitarietà viene realizzata in un momento successivo. In entrambi i casi comunque la ragione giustificatrice è data dall’esigenza di economia processuale e da quella di evitare il formarsi di giudicati contrastanti.
2) gli interventori dipendenti invece anche se la legge non lo dice espressamente si trovano in una posizione processuale subordinata a quella delle parti originarie per cui essi pur potendo assumere iniziative indirizzate ad influenzare la formazione del convincimento del giudice producendo prove e documenti non possono tuttavia:
a) fissare il tema decidendum
b) proporre eccezioni processuali o di merito riservate al potere dispositivo delle parti
c) influire sul regolare svolgimento del processo per cui se le parti originarie rinuncia all’azione essi non possono impedire l’estinzione.
d) compiere atti che importino direttamente o indirettamente disposizione del diritto sostanziale controverso ad es. una transazione
e) proporre impugnazione contro la sentenza ed è dubbio se debbano essere presenti all’impugnazione proposta dalle parti originarie (a nostro modo di vedere la risposta è positiva)
Concludendo va chiarito che gli interventi avvengono mediante comparsa formata ai sensi dell’art. 167 c.p.c. depositata in cancelleria o in udienza. In caso di deposito in cancelleria il cancelliere ne deve dare notizia alle altre parti mediante biglietto di cancelleria mentre nel caso di deposito in udienza l’interveniente deve provvedere alla notifica alla parte contumace. L’intervento può aver luogo fino a che non siano precisate le conclusioni e l’interveniente deve accettare la lite allo stato degli atti tranne il caso in cui sia un litisconsorte necessario.
GLI INTERVENTI COATTI
La partecipazione al processo di terzi può avvenire oltre che a seguito di loro iniziativa anche a seguito dell’iniziativa delle parti originarie o del giudice. Nel primo caso si parla di intervento coatto ad istanza di parte nel cui genere va compresa anche la chiamata in garanzia mentre nel secondo caso di intervento iussu iudicis.
L’INTERVENTO AD ISTANZA DI PARTE
Per quanto riguarda l’intervento coatto ad istanza di parte va detto che l’istituto è disciplinato dall’art 106 c.p.c. il quale recita che ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa. La disposizione ha ritenuto di fissare l’ambito di applicazione della norma facendo ricorso al concetto di comunanza di causa concetto questo che ha dato luogo a non poche discussioni. Non vi è dubbio che il termine di riferimento della comunanza di causa debba essere ravvisato nella disciplina del codice sulle ipotesi di connessione e che pertanto l’art 106 c.p.c. vada collegato agli art 103 e 105 c.p.c. Al riguardo va però precisato che vi sono varie opinioni:
1) alcuni ritengono che sia causa comune quella legata alla causa originaria da una connessione particolarmente intensa riguardante cioè sia l’oggetto sia la causa petendi
2) altri ritengono invece che basti la presenza di una connessione propria e cioè o per l’oggetto o per la causa petendi
3) altri infine ritengono che la comunanza di causa possa estendersi anche alle ipotesi di pregiudizialità-dipendenza fra rapporti giuridici
Le prime due opinioni sono giustificate dalla considerazione che con la chiamata in causa la parte originaria deve proporre una nuova domanda nei confronti del terzo e quindi allargare l’ambito oggettivo della controversia pendente cosa questa che gli è consentita solo quando faccia valere nei confronti del terzo un diritto collegato per l’oggetto e/o per la causa petendi. Nei casi di pregiudizialità dipendenza invece la parte originaria non proporrebbe alcuna domanda nei confronti del terzo e quindi non allargherebbe l’ambito oggettivo della controversia ma si preoccuperebbe solo di mettere il terzo in condizione di partecipare al processo per estendergli l’efficacia della sentenza e per prevenire l’opposizione di terzo revocatoria (caso del conduttore che chiama in giudizio il proprio subconduttore quando il locatore agisca per la risoluzione del contratto). A nostro modo di vedere entrambe le opinioni possono essere accolte purchè ciò non sfoci in arbitrari allargamenti del processo con inevitabili allungamenti dei tempi e costi processuali. Il filtro che la giurisprudenza ha a disposizione è dato dalla nozione di interesse. In altre parole non è ammissibile in caso di pregiudizialità-dipendenza la chiamata in causa del terzo solo per estendergli l’efficacia della sentenza ma occorre che la parte originaria alleghi e provi in concreto l’esistenza di circostanze che giustificano l’utilizzazione dello strumento ad es. una pretesa risarcitoria del terzo derivante dall’accoglimento della domanda della parte originaria. Negli ultimi anni l’istituto è stato spesso applicato al caso in cui il convenuto non contesta la domanda nella sua interezza ma si limita ad eccepire di non essere lui il titolare della situazione giuridica passiva. Egli cioè non dice che l’attore non ha diritto ma dice solo che non l’ha contro di lui. Si pensi ad es. ad una causa di risarcimento dei danni causati dalla circolazione di veicoli dove il convenuto neghi ogni responsabilità indicando come unico responsabile del fatto un terzo soggetto. In questo caso il convenuto potrà limitarsi alla sola eccezione oppure potrà chiamare in causa il terzo anche se è dubbio che lo faccia lasciando l’iniziativa all’attore. A questo punto la configurazione del rapporto processuale dipende dall’attore:
1) se egli resta fermo sulla domanda originaria il giudice potrà decidere nei confronti del terzo solo in relazione alla domanda di accertamento proposta dal convenuto e quindi nel caso in cui l’eccezione del convenuto risulti fondata il giudice accertata con sentenza idonea a passare in giudicato la responsabilità del terzo rigetterà la domanda dell’attore.
2) se invece l’attore estenda la domanda nei confronti del terzo si avrà una domanda alternativa per cui ove l’eccezione del convenuto risulti fondata il giudice potrà condannare il terzo al risarcimento e rigettare la domanda proposta contro il convenuto originario
3) se invece l’attore estende la domanda nei confronti del terzo e rinuncia a quella originaria è probabile che il convenuto originario chieda l’estromissione dal processo che potrà essere disposta se il terzo non si opponga
A questa ipotesi si avvicina per essere l’esatto contrario quella prevista dall’art. 109 c.p.c. cd. Chiamata in causa del terzo pretendente. In questo caso non è controverso né il debito né chi sia il debitore bensì chi sia il creditore. Il convenuto cioè non eccepisce che altro sia il debitore ma dice solo che un terzo pretende di vantare lo stesso diritto preteso dall’attore. A tal fine l’art 109 c.p.c. dispone che se si contende a quale di più parti spetti una prestazione e l’obbligato si dichiara pronto ad eseguirla a favore di chi ne ha il diritto il giudice può ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta e dopo il deposito può estromettere l’obbligato dal processo. Non vi è dubbio che in questo caso vi può essere anche l’interesse del debitore alla chiamata in causa del terzo e quindi il potere di farne domanda. Occorre rilevare che la disposizione dell’art 109 c.p.c. presenta vistose lacune in quanto:
1) non precisa se il deposito e la richiesta di estromissione comportino rinuncia del debitore alla cosa o somma dovuta (a nostro modo di vedere la risposta è negativa)
2) non chiarisce se essa sia applicabile anche alle controversie che abbiano ad oggetto beni immobili (a nostro modo di vedere la risposta è negativa trattandosi di disposizione eccezionale)
3) non dispone alcunchè né sulle spese né sui poteri del giudice nell’ordinare l’estromissione
Per consentire al terzo di esercitare nel corso del processo tutte le sue facoltà processuali le parti originarie hanno l’onere di citare il terzo a comparire all’udienza fissata all’uopo dal G.I. osservati i termini di cui all’art 163 bis c.p.c. In particolare il convenuto deve farne richiesta a pena di decadenza nella comparsa di risposta chiedendo al G.I. lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini di cui all’art 163 bis c.p.c. Il G.I. non opera alcuna valutazione discrezionale sull’ammissibilità della chiamata ma è tenuto a concedere lo spostamento dell’udienza con decreto da emettere entro 5 giorni dalla richiesta e da comunicare alle parti a cura del cancelliere. Per quanto riguarda invece l’attore va detto che se la chiamata in causa del terzo non è stata fatta con l’atto introduttivo egli ne può fare richiesta a pena di decadenza nel corso della prima udienza solo se la necessità della chiamata sia sorta dalle difese del convenuto. In questo caso però il G.I. valuterà se la richiesta sia ammissibile e qualora l’autorizzi fisserà una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini di cui all’art 163 bis. c.p.c. In entrambi i casi comunque la parte originaria deve depositare la citazione notificata al terzo entro il termine di 10 giorni dalla notificazione ed il terzo deve costituirsi a norma dell’art 166 c.p.c. (come un convenuto). Per concludere va precisato che nel caso in cui la chiamata sia stata fatta dall’attore nel corso della prima udienza restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione ma vi è uno spostamento del termine per le deduzioni istruttorie.
LA CHIAMATA IN GARANZIA
L’art. 106 c.p.c. prevede anche una parte possa chiamare nel processo il terzo dal quale pretende di essere garantita. Al riguardo va detto che si è soliti distinguere tre tipi di garanzia e cioè:
1) La garanzia propria (cd. Formale o Reale) che si ha nelle ipotesi in cui si trasferisce un diritto di credito o un diritto reale nonché nelle ipotesi di concessione in godimento
2) La garanzia personale che ricorre nei vincoli di coobbligazione
3) La garanzia impropria che è una creazione della prassi e che sembra ricorrere quando taluno esponga con il proprio fatto altri ad un’azione in giudizio così che se questi resti soccombente può chiedere al primo di essere tenuto indenne di quanto ha dovuto sborsare pere effetto della lite ad es. una persona viene citata in giudizio per risarcire un danno derivante da un inadempimento contrattuale e cita a sua volta un terzo assumendo che il suo inadempimento è dipeso dall’inadempimento di quest’ultimo.
Occorre rilevare che quando la parte originaria chiama nel processo il terzo garante ciò avviene per due motivi e cioè:
a) per rendere da lui incontestabile quanto accertato nella sentenza evitando che questi possa sollevare in seguito eccezioni rispetto al rapporto principale
b) perché ritiene di proporre azione di regresso nei confronti del garante in modo che il giudice ove accolga la domanda principale condanni subito il garante a pagargli ciò che egli gli deve per effetto della garanzia
Come è facile intuire l’art.108 c.p.c. che dispone che se il garante comparisce e accetta di assumere la causa in luogo del garantito questi può chiedere, qualora le altre parti non s’oppongano, che il giudice disponga con ordinanza la propria estromissione sarà applicabile solo nella prima ipotesi in cui il garante partecipa al processo senza che contro di lui sia stata avanzata un’autonoma domanda e senza che ne abbia proposte mentre non sarà applicabile nella seconda ipotesi in cui si hanno due cause collegate delle quali parte comune è il garantito. In questo caso infatti l’estromissione del garantito renderebbe improcedibile l’azione di regresso venendone a mancare uno dei soggetti. Poiché tuttavia ove l’estromissione sia consentita si ha un ipotesi di sostituzione processuale dato che il processo prosegue tra la parte originaria ed il garante pur avendo ad oggetto un diritto del garantito l’art 108 c.p.c. si preoccupa di ribadire che la sentenza di merito (sia favorevole che sfavorevole) spiega i suoi effetti anche contro l’estromesso. La dottrina comunque tende a restringere il campo di applicazione della norma alle sole ipotesi di garanzia propria.
L’INTERVENTO IUSSU IUDICIS
La disciplina dell’intervento per ordine del giudice è contenuta nell’art.107 c.p.c. il quale recita che il giudice quando ritiene opportuno che il processo si svolga nei confronti del terzo al quale la causa è comune ne ordina l’intervento. La disposizione racchiude una di quelle cd. Valvole di sicurezza del sistema perché concede al giudice un potere che può esercitare per far fronte alle imprevedibili situazioni processuali che sfuggono ad ogni disciplina. Se questo è lo scopo ultimo della norma non è invece chiaro quale sia il suo campo di applicazione dovendosi rifare ancora una volta al concetto di comunanza di causa. Le difficoltà diventano poi ancora maggiori se si considera che lo strumento creato dal legislatore è in contrasto con il principio della domanda. La dottrina prevalente ritiene che vi sia comunanza di causa solo quando vi sia una connessione particolarmente intensa e cioè sia per l’oggetto sia per la causa petendi. Alcuni ritengono che sia sufficiente la presenza di una connessione propria e cioè o per l’oggetto o per la causa petendi mentre recentemente si è osservato che l’intervento iussu iudicis è uno strumento idoneo ad operare in tre settori e precisamente:
1) quello dei rapporti alternativi (è il caso della contestazione della legittimazione passiva accompagnata dall’indicazione del vero legittimato)
2) quello dei rapporti pregiudiziali ad es. controversie tra lavoratore ed ente previdenziale aventi ad oggetto l’erogazione di prestazioni assicurative in cui si contesti l’esistenza del rapporto pregiudiziale di lavoro
3) quello dei rapporti giuridici dipendenti ad es. controversie tra locatore e conduttore con estensione della sentenza al subconduttore
Nel campo dei rapporti alternativi il potere del giudice di disporre l’intervento viene giustificato dall’esigenza di garantire il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale e la giustizia della decisione per cui se le parti originarie non hanno preso l’iniziativa di chiamare in causa il terzo è auspicabile che sia il giudice a prenderla. Nel campo dei rapporti pregiudiziali e dipendenti invece il potere del giudice di disporre l’intervento viene giustificato dalla tendenza a riconoscere al giudice una posizione sempre più attiva nel processo anche a danno del potere monopolistico delle parti di delineare i limiti soggettivi ed oggettivi della controversia. Per concludere va chiarito che i punti caratterizzanti l’intervento iussu iudicis sono i seguenti:
1) a differenza dell’intervento ad istanza di parte in quello iussu iudicis la valutazione dell’opportunità che il processo si svolga anche nei confronti del terzo non è successiva bensì preventiva
2) la chiamata del terzo è sempre un atto di parte in forma di citazione che a differenza di quella ad istanza di parte può essere ordinata dal giudice in qualsiasi momento
3) se nessuna delle parti originarie chiama in giudizio il terzo nel termine fissato dal giudice si ha la cancellazione della causa dal ruolo la quale consente la riassunzione del processo entro un anno purchè si citi anche il terzo e non l’estinzione del processo come avviene nelle ipotesi di litisconsorzio necessario.
IL PROCESSO E LE PRECLUSIONI
Per processo s’intende una serie di atti coordinati secondo criteri di massima prestabiliti provenienti da soggetti diversi e non omogenei ed indirizzati all’emanazione di un atto finale che prende il nome di provvedimento. Tali atti sono collegati tra loro da una sequenza logica e da una sequenza temporale. Sotto il primo profilo è essenziale al processo il concetto di preclusione. Sotto il secondo profilo è essenziale al processo l’idea dei termini. In una rigorosa accezione del termine si ha una preclusione tutte le volte in cui un determinato comportamento non può più essere tenuto da un soggetto o perché è incompatibile con un suo comportamento precedente o perché egli ha già esercitato la relativa facoltà. In particolare nel campo del processo si ha una preclusione tutte le volte in cui vi sia un’incompatibilità o meglio una incoerenza logica tra due o più atti della serie che lo costituiscono per cui l’atto successivo non può più essere compiuto e qualora lo sia non può essere preso in considerazione. A ben guardare la stessa nozione di termine rientra in quella della preclusione solo che qui la compatibilità o coerenza del comportamento va vista non in relazione ad un altro comportamento o ad una diversa situazione processuale ma ad un elemento estrinseco quale è appunto lo scorrere del tempo. In questo modo nell’ampio genere della preclusione sono individuabili due specie:
1) le preclusioni in senso stretto
2) l’inutile decorso del termine che da luogo alla decadenza
Sia le une che gli altri costituiscono le giunture o gli snodi che consentono di collegare tra loro i vari atti del processo in modo che tra di essi vi sia una sufficiente elasticità temporale ed una logica congruenza e al tempo stesso consentono di salvaguardare l’unità del processo. In definitiva si può dire che per preclusione in senso stretto s’intende la perdita od estinzione del diritto di compiere un determinato atto processuale dovuta:
a) al mancato esercizio del diritto nel momento opportuno nella successione delle attività processuali
b) alla incompatibilità con un’attività già svolta
c) al fatto di aver già una volta esercitato il relativo diritto
I TERMINI
L’altro mezzo che il legislatore ha a disposizione per dare ordine al processo è il termine. Per descriverne la funzione si può fare un paragone con le giunture o gli snodi i quali tengono collegati i vari elementi e al tempo stesso ne consentono l’articolazione. La funzione del termine infatti è duplice e cioè:
1) mantenere le attività processuali sufficientemente concentrate
2) offrire ai soggetti processuali uno spazium temporis sufficiente per poter adeguatamente compiere gli atti di loro pertinenza
Quando prevale la prima funzione il termine si dice accelleratorio o finale ed è congegnato in modo che l’attività processuale non può più compiersi oltre un determinato momento. Quando invece prevale la seconda funzione il termine si dice dilatorio ed è congegnato in modo che l’attività processuale non può compiersi prima di un determinato momento. Nel primo caso l’inutile decorso del termine comporta una decadenza mentre nel secondo caso l’intempestivo compimento dell’atto comporta la irricevibilità dello stesso. Come es. di termine finale può essere ricordato quello previsto per l’integrazione del contraddittorio o quello oltre il quale il precetto perde efficacia mentre come es. di termine dilatorio può essere ricordato quello previsto per la comparizione delle parti o quello prima del quale no si può compiere il pignoramento. Occorre rilevare che i termini finali si distinguono in:
a) perentori i quali sono stabiliti a pena di decadenza con la conseguenza che l’attività processuale compiuta dopo la loro scadenza
è nulla
2) ordinatori i quali possono essere prorogati per una durata non superiore a quella originaria e per motivi particolari anche una seconda volta purchè il provvedimento di proroga sia anteriore alla scadenza. L'eventuale compimento dell’atto dopo la scadenza del termine o della proroga da luogo ad una nullità relativa rilevabile su eccezione di parte
Va anche precisato che vi sono dei termini alla cui inosservanza la legge non collega alcuna decadenza ma solo delle conseguenze minori come ad es. un maggior carico di spese (cd. Termini comminatori) nonché termini alla cui inosservanza non è collegata alcuna sanzione (cd. Termini canzonatori). La legge detta una disposizione analitica per ciò che riguarda il computo dei termini e cioè l’art. 155 c.p.c. Quando nei casi espressamente previsti dalla legge non si tiene conto né del giorno iniziale né di quello finale il termine si dice libero. Occorre chiarire che è riservato alla legge stabilire in quale caso il termine sia perentorio e che il giudice può solo fissare la durata del termine perentorio ma non anche stabilire che esso sia perentorio. A proposito dei termini vale anche la pena di ricordare un D.Lg. del 48 che attribuisce al Ministro di Grazia e Giustizia il potere di prorogare di 15 giorni i termini di decadenza per il compimento di atti presso gli uffici giudiziari qualora quest’ultimi non siano in grado di funzionare regolarmente per eventi di carattere eccezionale nonché la legge del 69 n.742 che disciplina la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale la quale ha sollevato numerosi problemi sia per quanto riguarda le procedure a cui sarebbe applicabile (in particolare è incerto se si applichi anche ai procedimenti speciali) sia per quanto riguarda le eccezioni da essa previste (si tratta della cd. Legge che disciplina le ferie degli avvocati).
GLI ATTI PROCESSUALI
Gli atti processuali disciplinati dagli art 121 e ss. c.p.c. si dividono in due categorie:
1) Gli atti di parte
2) Gli atti dell’ufficio giudiziario tra cui assumono particolare rilievo quelli del giudice cd. Provvedimenti
GLI ATTI DI PARTE
Per quanto riguarda gli atti di parte va detto che la legge descrive dei modelli generali che si possono compiere a certi effetti e in determinate situazioni processuali ad es. la citazione, la comparsa di risposta, il ricorso, l’atto di impugnazione, l’atto di pignoramento etc. etc. La parte poi rifacendosi al modello generale lo riempie di contenuto che si adatta al caso concreto ad es. nel compilare l’atto di citazione l’attore avrà cura di individuare il giudice, la controparte, di descrivere l’episodio di vita che ha dato origine alla controversia, di formulare le sue richieste etc etc. Naturalmente è ovvio che se l’atto concreto non corrisponde al modello fissato in astratto dalla legge esso non potrà essere preso in considerazione dal giudice il quale a seconda dei casi lo riterrà nullo, inefficace, inammissibile irricevibile. Se invece l’atto concreto è conforme al modello generale il giudice lo prenderà in considerazione salvo poi a valutarlo come fondato o infondato in base al suo intrinseco contenuto. Si è soliti dire al riguardo che la legge nel descrivere il modello generale fissa i requisiti di forma-contenuto dell’atto. Nel caso in cui la legge non preveda alcun modello gli atti possono essere compiuti in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo. Che questo requisito non s’identifichi con la forma nel senso tradizionale del termine risulta evidente dalla considerazione che una cosa è stabilire quale è il modello o lo schema dell’atto altro è stabilire come l’atto debba essere espresso o esteriorizzato ad es. in forma scritta o oralmente. E’ a questa forma (cioè a quella nel senso tradizionale del termine) che si riferisce l’art.121 c.p.c. quando stabilisce che gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo. Anche se questa norma sembra fissare il principio della libertà delle forme in realtà l’analisi della disciplina positiva ci mostra che la forma di solito prevista è quella scritta e che anche quando sia possibile la forma orale di essa deve essere conservata traccia scritta attraverso la redazione del processo verbale il quale finisce pertanto con l’essere una specie di forma sovrapposta e necessaria per inserire l’atto nel processo. Al requisito della forma si ricollega anche la norma che fissa la necessità di fare uso della lingua italiana e che prevede le maniere per tradurre in lingua italiana le espressioni di chi non sa o non può servirsi di tale lingua. Va anche tenuto presente che nel nostro ordinamento forme sacramentali sono previste solo in determinati casi come ad es. nel caso del giuramento. Normalmente nella teoria degli atti di autonomia privata acquista rilievo il requisito della volontà inteso sia come volontarietà dell’atto sia come volontarietà degli effetti. Nel campo processuale invece poiché gli atti servono a mettere in moto e a far proseguire il meccanismo processuale fino all’emanazione del provvedimento finale essi di solito non hanno alcun effetto immediato sulla posizione delle parti hanno cioè solo valore induttivo per cui al legislatore interessa di regola solo che essi siano liberamente e consapevolmente manifestati. Naturalmente nulla esclude che dal materiale processuale possano estrarsi degli atti dotati di particolare efficacia e cioè direttamente impegnativi per i soggetti che li compiono. Si pensi ad es. alla rinuncia all’impugnazione già proposta o alla confessione o al giuramento. In questi casi si è soliti dire che si è in presenza di atti causativi cioè di atti riguardo ai quali non dovrebbe poter essere esclusa a priori un’indagine sulla volontà. Sempre nel campo processuale gli elementi dell’oggetto e della causa dell’atto che hanno una notevole importanza nella disciplina degli atti negoziali di diritto privato vengono ridimensionati dato che l’oggetto finisce con l’essere assorbito dal requisito di forma-contenuto dell’atto mentre la causa diviene irrilevante dato che la legge nel predisporre i modelli o gli schemi degli atti ne rende tipica la loro funzione.
I PROVVEDIMENTI
Per quanto riguarda i provvedimenti va detto che l’art.131 c.p.c. dispone che la legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza, o decreto e che in mancanza di tali prescrizioni i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo. Interpretata letteralmente questa disposizione ci condurrebbe alla conseguenza:
1) che normalmente il giudice provvede in forme tipiche
2) che eccezionalmente in mancanza di prescrizioni il giudice sceglie liberamente la forma dei provvedimenti
In questo modo l’art. 131 2° comma c.p.c. finisce con l’essere l’applicazione al campo dei provvedimenti del principio sulla libertà delle forme previsto dall’art 121 c.p.c. per gli atti di parte. La dottrina tuttavia che già ritiene superfluo l’art. 121 c.p.c. assoggetta l’art 131 2° comma c.p.c. ad interpretatio abrogans in base al seguente ragionamento. Innanzitutto va detto che la legge fissa i modelli o gli schemi dei provvedimenti con maggior cura e precisione di quanto non faccia per i modelli o gli schemi degli atti di parte. Il modello della sentenza è infatti descritto dall’art 132 c.p.c. quello dell’ordinanza dall’art. 134 c.p.c. e quello del decreto dall’art. 135 c.p.c. Si tratta anche in questo caso di requisiti di forma-contenuto che vanno poi riempiti in relazione alle concrete vicende del processo. Il legislatore poi stabilisce in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto e ricollega alla forma-contenuto dell’atto il regime giuridico dei provvedimenti. In particolare la sentenza è impugnabile ed è idonea a divenire immutabile passando in giudicato, l’ordinanza che deve essere succintamente motivata è essenzialmente revocabile e modificabile mentre il decreto che non sembra essere munito necessariamente di motivazione è assoggettato ad un regime non unitario che viene fissato di volta in volta dalla legge. Da quanto esposto appare chiaro che lasciare al giudice la possibilità di creare un diverso tipo di provvedimento avrebbe comportato la necessità di prevedere quale regime giuridico fosse ad esso applicabile così come lasciare al giudice la possibilità di scegliere il tipo di provvedimento avrebbe significato lasciare al giudice il potere di scegliere di volta in volta quale sia il regime giuridico dell’atto conseguenze queste inaccettabili in quanto si potrebbe alterare il principio del paritario trattamento. Ci si è chiesti se sia possibile sindacare l’idoneità del modello generale previsto in astratto dalla legge allo scopo obiettivo che il provvedimento persegue. Il problema sorge perché ex art 111 2° comma della cost. contro le sentenze è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge. La dottrina e la giurisprudenza si sono chiesti al riguardo se tale articolo si riferisca solo alle sentenze o anche agli altri provvedimenti come ad es. le ordinanze e i decreti che pur avendo tale forma abbiano la funzione decisoria tipica delle sentenze se cioè sia possibile da parte dei giudici ordinari un controllo sull’adeguatezza della forma dei provvedimenti rispetto alla loro funzione. Al riguardo va detto che mentre la dottrina prevalente ritiene che i giudici che ritengono il modello previsto in astratto dalla legge inadeguato devono sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma che prevede il modello la giurisprudenza ritiene invece che il giudice debba guardare non alla forma ma alla sostanza (contenuto) del provvedimento. Diverso è il caso in cui invece di essere il legislatore a dare all’atto una forma diversa da quella che avrebbe dovuto avere in relazione alla sua funzione sia il giudice a sbagliare ad es. pronuncia ordinanza mentre avrebbe dovuto pronunciare sentenza. Anche in questo caso si ritiene che si debba dare prevalenza alla sostanza rispetto alla forma purchè il provvedimento abbia il minimo dei requisiti formali per rientrare nel tipo che sarebbe congruo in relazione al suo contenuto. In questi casi si ci chiede altresì se il provvedimento sia impugnabile con il mezzo che si adatta al contenuto ad es. l’appello nel caso di ordinanza avente contenuto di sentenza oppure possa proporsi soltanto ricorso per cassazione ex art 111 cost. La giurisprudenza si è orientata nel primo senso a condizione che si tratti di provvedimento conclusivo del giudizio . Per concludere va chiarito che nel caso in cui il giudice abbia errato nella qualificazione giuridica del provvedimento la parte nell’impugnare dovrà comunque rifarsi ad essa per ciò che concerne il mezzo d’impugnazione ad es. se il giudice qualifichi una sentenza come opposizione agli atti esecutivi la quale è soggetta solo a ricorso per cassazione e a regolamento di competenza e la parte ritenga invece che si tratti di una sentenza di opposizione all’esecuzione la quale è impugnabile con i normali mezzi essa non può sostituire la qualificazione che emerge dalla sentenza per cui potrà proporre solo il ricorso in cassazione.
COMUNICAZIONI E NOTIFICAZIONI
Gli atti processuali sono normalmente recettizi per cui la loro comunicazione ai destinatari è essenziale al perfezionarsi dei medesimi. Gli atti compiuti in contraddittorio e in udienza s’intendono conosciuti dalle parti e di essi deve rimanere traccia nel processo verbale. Per gli atti scritti la legge prevede talvolta la comunicazione mentre altre volte prescrive la necessità della notificazione. La comunicazione è l’atto con il quale il cancelliere da notizia al P.M., alle parti, al consulente, ai testimoni, e ad ogni altro ausiliario del giudice di atti o fatti processuali cioè di quei provvedimenti per i quali è disposta dalla legge tale forma abbreviata di comunicazione. Questa si concreta nel biglietto di cancelleria il cui contenuto necessario è descritto dall’art. 45 Disp. Att. c.p.c. che viene portato a conoscenza del destinatario o con consegna effettuata dalla cancelleria al destinatario stesso il quale ne rilascia ricevuta, o mediante invio di plico raccomandato o infine mediante invio per il tramite dell’ufficiale giudiziario. Caratteristica della comunicazione sono:
1) che essa proviene sempre dal cancelliere
- che il suo contenuto si concreta in una notizia abbreviata dell’atto o del fatto
La notificazione invece si differenzia dalla comunicazione sia perché può provenire anche dalle parti e dal P.M. sia perché ha ad oggetto copia conforme dell’atto. Nella notificazione si distinguono tre fasi:
1) la richiesta rivolta all’ufficiale giudiziario di procedere alla consegna della copia dell’atto
2) le attività di consegna dell’ufficiale giudiziario che può procedervi sia direttamente sia tramite il servizio postale
3) la verbalizzazione dell’attività dell’ufficiale giudiziario sia sull’originale sia sulla copia cd. Relata di notifica
Le attività di ricerca e di consegna dell’atto al destinatario sono disciplinate minuziosamente dalle legge. La forma di notificazione che realizza senza possibilità di dubbi o equivoci lo scopo è quella in mani proprie. Tale notificazione può essere eseguita dall’ufficiale giudiziario ovunque trovi il destinatario nell’ambito della circoscrizione a cui è addetto. Se ciò non avviene l’ufficiale giudiziario deve farne ricerca rispettivamente presso la residenza, la dimora e il domicilio e se non vi trova il destinatario o altra persona che possa o voglia ricevere l’atto l’ufficiale giudiziario deve depositare la copia presso la casa comunale affiggendo avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario spedendogli raccomandata per dargliene notizia. Dal momento della spedizione la notificazione si ha per eseguita. Alle persone giuridiche la notificazione viene eseguita nelle mani della persona addetta nella sede dell’ente e se ciò non è possibile e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente si procede a norma degli art 138, 139 e 141 c.p.c. Qualora il destinatario non abbia né residenza, né dimora, né domicilio nel territorio della repubblica nonché quando tali luoghi siano sconosciuti si ha un procedimento complesso descritto dagli art. 142 e 143 c.p.c. e la notificazione si ha per eseguita nel 20° giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità prescritte. L’art 144 c.p.c. disciplina le notificazioni alle amministrazioni dello stato che vanno fatte presso l’ufficio dell’avvocatura dello stato nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria adita mentre l’art 146 c.p.c. disciplina le notificazioni ai militari in servizio. Quando la modificazione nei modi ordinari è difficile per il rilevante numero di destinatari o per l’impossibilità di identificarli tutti il capo dell’ufficio giudiziario avanti al quale si procede o nel procedimento pretorile il presidente del tribunale nella cui circoscrizione è posta la pretura possono autorizzare su istanza di parte e sentito il P.M. la notificazione per pubblici proclami mentre nel caso in cui ricorrano particolari esigenze di celerità o circostanze particolari il giudice può prescrivere forme diverse di notificazione come ed es. quella telefonica o telegrafica. Ai sensi dell’art 160 c.p.c. la notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale è stata consegnata la copia o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui si è fatta la notificazione o sulla data salva l’applicazione degli art. 156 e 157 c.p.c. A queste cause di nullità vanno poi aggiunte la carenza di legittimazione dell’ufficiale giudiziario e quelle che dipendono dalla parte che ha scelto un procedimento notificatorio non idoneo. La legge del 20/11/82 n.890 ha disciplinato dettagliatamente le notificazioni degli atti giudiziari a mezzo del servizio postale prevedendo un procedimento complesso i cui organi sono l’ufficiale giudiziario e l’ufficiale postale. In verità oggi gli ufficiali giudiziari funzionano solo come organi preposti alla mera ricezione degli atti i quali dopo essere stati annotati nel loro registro cronologico sono affidati agli ufficiali postali. Le notificazioni avvengono mediante piego raccomandato con avviso di ricevimento. L’avviso di ricevimento costituisce prova della eseguita notificazione infatti i termini decorrono dalla data risultante dall’avviso e se questa sia incerta dal bollo apposto sull’avviso. Spetta all’ufficiale giudiziario il compito di individuare il destinatario e in mancanza di costui le persone abilitate a ricevere il piego in sostituzione nonché a procedere a forme surrogatorie di notificazione quando le persone abilitate rifiutino di firmare o di ricevere l’atto. A tal fine l’art 7 della legge dell’82 n. 890 prevede che l’ufficiale postale deve consegnare l’atto:
1) nelle mani del destinatario anche se fallito
2) in mancanza a persona di famiglia anche se temporaneamente convivente ovvero addetta alla casa o al servizio del destinatario purchè non minore di anni 14 o manifestamente affetta da malattia mentale
3) in mancanza di costoro al portiere dello stabile o a persona che vincolata da lavoro continuativo sia tenuta alla distribuzione della posta al destinatario
L’art 8 della legge 890 prevede che qualora il destinatario rifiuti il piego o di firmare il registro di consegna nonché quando la persone abilitate rifiutino di firmare l’avviso di ricevimento pur ricevendo il piego l’ufficiale postale deve farne menzione nell’avviso di ricevimento redigendo al riguardo apposito verbale e restituire il tutto al mittente. Quando invece le persone abilitate rifiutino di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna nonché in caso di assenza o inidoneità della persona abilitata o del destinatario l’ufficiale postale deve depositare il piego nell’ufficio postale lasciando avviso al destinatario mediante affissione o immissione nella cassetta postale. La notificazione si ha per eseguita decorsi 10 giorni dalla data del deposito o dal ritiro del piego nel caso in cui esso avvenga prima e di tutto ciò l’ufficiale postale deve redigere apposito verbale prima di restituire gli atti. Come è facile intuire nel nostro sistema vi sono due diversi procedimenti notificatori a seconda che sia l’ufficiale giudiziario a procedervi direttamente oppure l’ufficiale postale. Dalla disciplina positiva infatti risulta evidente che a seconda dei casi sono diversi sia i soggetti abilitati a ricevere le notificazioni sia i modi previsti in caso di rifiuto o di irreperibilità. In tema di notificazioni è opportuno segnalare che in base ad una legge del 79 alle regioni a statuto ordinario che abbiano deliberato di avvalersi della difesa dell’avvocatura dello stato le notificazioni vanno eseguite presso l’ufficio dell’avvocatura dello stato dove la regione risulti domiciliata. In precedenza ci si era lamentati che in Italia non era possibile procedere alle notificazioni in maniera semplice e senza la mediazione di un organo ad hoc. Ad impedire la riforma vi era la nostra innata tendenza a rendere ufficiale tutto ciò che appare essere strumento essenziale all’esercizio della giurisdizione e la non eccessiva fiducia che si nutriva nel consentire le notificazioni alle parti private ed ai loro difensori. La legge del 94 n.53 raccogliendo le richieste provenienti da più parti ha disciplinato la facoltà di notificazione di atti civili, amministrativi e giudiziari degli avvocati. Al riguardo va precisato che occorre in primo luogo che l’avvocato sia stato debitamente autorizzato dal consiglio dell’ordine di appartenenza dato che egli svolge compilando la relata di notifica le funzioni di P.U. e dato che egli incorre in caso di abusi od irregolarità in gravi illeciti disciplinari a prescindere da altre forme di responsabilità. In secondo luogo poi l’avvocato debitamente autorizzato deve munirsi della procura del cliente e di apposito registro cronologico vidimato e numerato dal consiglio dell’ordine nel quale vanno annotate le notificazioni giornaliermente eseguite. L’avvocato autorizzato può avvalersi di due forme di notificazione:
1) quella a mezzo posta che può essere fatta ovunque secondo le indicazioni della legge 890
2) quella nelle mani o nel domicilio del destinatario che può essere fatta solo ad un altro avvocato che abbia la qualità di domiciliatario di parte e sia iscritto nello stesso albo del notificante.
L’art. 11 della legge 94 n. 53 dispone che le notificazioni previste dalla presente legge sono nulle e che la nullità è rilevabile d’ufficio se mancano i requisiti soggettivi ed oggettivi ivi previsti, se non vengono osservate le disposizioni precedenti e se vi è incertezza sulla persona a cui è stata consegnata la copia o sulla data di notifica. Non sembra che tale norma escluda l’applicabilità dell’art 160 c.p.c. al quale viceversa deve essere coordinata. Essa inoltre serve a ridurre l’area entro la quale i giudici possono fare ricorso alla discutibile categoria della inesistenza della notificazione.
LA NULLITA’ DEGLI ATTI
La disciplina della validità-invalidità degli atti processuali ruota intorno al requisito della forma inteso in senso più ampio di quanto non avvenga nel diritto sostanziale. Sono infatti da ricondurre alla forma non solo le modalità di esternazione dell’atto e gli schemi o i modelli elaborati dalla legge ma anche il requisito della provenienza dell’atto da parte di persona capace, competente e legittimata, e quello del rispetto dell’ordine prefissato e dei termini. La forma diviene in tal modo lo strumento indispensabile per saggiare la validità dei singoli atti e per la vita dell’intero processo tanto è vero che il Chiovenda la paragona all’aria che non si vede e che tuttavia è necessaria per consentire il volo degli uccelli. Il compito del legislatore è quello di individuare le forme veramente essenziali e di collegare solo a queste la sanzione dell’invalidità. Egli si è prefisso questo programma quando ha enunciato il principio di tassatività delle nullità. Dispone infatti l’art. 156 c.p.c. che non può essere pronunciata la nullità per inosservanza delle forme di alcun atto del processo se la nullità non è espressamente comminata dalla legge. Il legislatore mostra di avere ben presente la differenza tra forma indispensabile e formalismo inutile e dannoso quando sancisce:
1) che anche in mancanza di previsione espressa di nullità essa può essere ugualmente pronunciata se l’atto manca dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo
2) che anche in mancanza dei requisiti formali indispensabili la nullità non può essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato
A differenza del diritto sostanziale che prevede varie classificazioni (nullità assoluta, nullità relativa, annullabilità assoluta, annullabilità relativa, inefficacia, irregolarità) la legge processuale parla in senso generico di nullità anche se non ricollega al vizio sempre la stessa disciplina. Al riguardo si distingue:
1) una nullità rilevabile d’ufficio che potremmo definire tassativa ed assoluta
2) una nullità rilevabile su eccezione di parte che potremmo definire relativa
Fra le nullità rilevabili d’ufficio la legge riconosce poi particolare rilievo a quella derivante dai vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del P.M. che è insanabile con una disposizione che relativamente all’intervento del P.M. è applicabile soltanto al processo di cognizione(art. 158 c.p.c.). Sempre al processo di cognizione sono riservate le norme successive. Il legislatore infatti detta una disciplina differenziata per il difetto di sottoscrizione della sentenza da parte del giudice stabilendo che il relativo vizio sopravvive al passaggio in giudicato (in questo caso si potrebbe parlare di inesistenza). Per le rimanenti nullità invece l’art. 161 c.p.c. prevede che la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso in cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi d’impugnazione (è questo il cd. Principio dell’assorbimento dei vizi di nullità in motivi di gravame). Va anche ricordato che vi sono delle nullità del giudizio di 1° grado come ad es. quella riguardante la notificazione della citazione o la mancata integrazione del contraddittorio che una volta dedotte con una valida e tempestiva impugnazione impongono al giudice dell’impugnazione di restituire la causa al primo giudice per il rifacimento totale del processo e che la nullità derivante dalla mancata partecipazione necessaria del P.M. da luogo ad un vizio che il P.M. può far valere anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza tramite revocazione ex art 397 c.p.c. L’art 157 c.p.c. fissa 4 condizioni perchè possa essere dichiarata la nullità rilevabile su eccezione di parte:
1) la prima condizione è che l’eccezione sia proposta dalla parte nel cui interesse è stabilito il requisito mancante
2) la seconda condizione è che l’eccezione sia proposta nella prima udienza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso
3) la terza condizione è che la parte interessata al rilievo della nullità non vi abbia dato causa
4) la quarta condizione è che la parte non abbia rinunciato neppure tacitamente a proporre l’eccezione
L’art. 159 c.p.c. completa poi la disciplina sulla rilevabilità della nullità applicando il principio utile per inutile non vitiatur. In tal modo:
1) la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti o successivi che siano da esso indipendenti
2) se il vizio impedisce un determinato effetto l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali sia idoneo (la giurisprudenza di solito ricorre a tale regola per ammettere la cd. Conversione degli atti processuali ad es un atto presentato come ricorso può valere come citazione)
Per concludere va ricordato che ex art 162 c.p.c. il giudice quando sia possibile deve disporre la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende.
SPESE PROCESSUALI E RESPONSABILITA’ AGGRAVATA
Per quanto riguarda le spese processuali va detto che sono a carico delle parti:
1)gli onorari dovuti ai procuratori, ai difensori, ai custodi, agli interpreti, ai consulenti ed in genere a qualsiasi altro soggetto che svolga attività ausiliare
2) le spese per le indennità di trasferta spettanti al giudice e al cancelliere per l’ispezione dei luoghi
3) il costo della carta da bollo e i diritti percepiti dalla cancelleria e dagli uffici giudiziari
4) le imposte di registro, le tasse di bollo ed in genere tutte le spese che siano necessarie allo svolgimento del processo
Il sistema accolto dal codice poggia su due criteri e cioè quello dell’anticipazione e quello della soccombenza. In via provvisoria e cioè quando in corso di causa non si sa ancora chi ha torto o ragione ciascuna delle parti ha l’onere di provvedere alle spese per gli atti che compie e per quelli che chiede e deve anticipare le spese per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione sia posta a suo carico dalla legge o dal giudice. Occorre precisare che per atti necessari al processo s’intendono quelli disposti a prescindere dall’iniziativa delle parti. In questi casi il giudice deve valutare l’interesse per il quale l’atto è compiuto e determinare su chi ricade l’obbligo dell’anticipazione emanando un provvedimento esecutivo di condanna all’anticipazione in caso di mancato adempimento (si pensi ad es. ad una consulenza tecnica d’ufficio). In via definitiva vale il criterio della soccombenza secondo il quale la parte rimasta soccombente deve sopportare tutte le spese del processo comprese quelle anticipate dall’altra parte. Si tratta di un’applicazione del principio secondo cui la durata del processo non deve danneggiare in alcun modo la parte che ha ragione e quindi di un caso di responsabilità oggettiva diverso dalle ipotesi di responsabilità per lite temeraria. L’art 92 c.p.c. dispone che se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi il giudice può compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti e può anche escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice qualora le ritenga eccessive o superflue. Il giudice può altresì condannare una parte al rimborso delle spese anche non ripetibili che questa abbia causato alla controparte trasgredendo il dovere di lealtà e probità e ciò indipendentemente dalla soccombenza. La statuizione definitiva sulle spese è contenuta nella sentenza che chiude il processo davanti al giudice per cui si deve trattare di una sentenza processuale o di merito definitiva. La previsione di tale norma che dovrebbe riguardare ogni processo e che invece si riferisce al solo processo ordinario di cognizione crea problemi di adattamento ai processi esecutivi, cautelari, di volontaria giurisdizione e per quelli costitutivi necessari. Diverso dal problema delle spese è quello riguardante la responsabilità per lite temeraria la quale si ha quando la parte abbia agito o resistito in giudizio con mala fede, colpa grave o comunque senza la normale prudenza. L’art. 96 c.p.c. prevede al riguardo due autonome fattispecie di responsabilità per illecito processuale. La prima ipotesi meno severa presuppone che il soggetto abbia agito o resistito con dolo o colpa grave (non basta quindi la mera violazione dei doveri di lealtà e probità) è si applica a qualsiasi tipo di processo. Poiché tuttavia la legge non specifica che il comportamento è ingiusto quando la parte ritiene di aver torto (cd. Procedura ingiusta) la norma sembra applicabile anche quando il procedimento utilizzato sia irrituale. Il danno risarcibile riguarda in questo caso non le spese ma qualsiasi onere sostenuto dalla parte vittoriosa. La seconda ipotesi più severa presuppone invece una colpa lieve e cioè l’aver agito senza la normale prudenza e si riferisce solo ai procedimenti cautelari ed esecutivi nonché a taluni atti processuali (trascrizione delle domande giudiziali, iscrizione dell’ipoteca giudiziale). La giurisprudenza ritiene al riguardo che in questo caso i danni non possono essere fatti valere in via autonoma perché solo il giudice della causa di merito è in grado di valutare la temerarietà della lite. Per concludere va precisato che anche se l’art 96 c.p.c. prevede una liquidazione dei danni anche d’ufficio ciò non costituisce una deroga al principio della domanda la quale pertanto sarà sempre necessaria ma si riferisce alla prova dell’ammontare del danno il quale pertanto in mancanza di prova può essere determinato in via equitativa.
L'iscrizione della causa a ruolo e la costituzione del convenuto
Notificato l'atto di citazione al convenuto, l'attore deve costituirsi in giudizio entro dieci giorni(art. 165) e provocare l'iscrizione della causa a ruolo (cioè nei registri di cancelleria) che è lo strumento tecnico attraverso cui la controversia viene incardinata presso l'ufficio giudiziario che dovrà poi trattarla e deciderla. A seguito dell’istanza della parte costituita l'iscrizione della causa a ruolo è effettuata dal cancelliere sulla base della nota di iscrizione a ruolo da questa presentata la quale deve contenere tutti gli estremi per l'individuazione della causa (indicazione delle parti, del procuratore che si costituisce, dell'oggetto della domanda, della data della notificazione e della prima udienza di trattazione) (art. 168, 1° comma, e 71 disp. att.). Iscritta la causa nel ruolo generale, contemporaneamente il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio nel quale inserisce la nota di iscrizione a ruolo, copia del atto di citazione e delle difese scritte (comparse e memorie), e successivamente i processi verbali delle udienze, i provvedimenti del giudice, gli atti di istruzione e la copia del dispositivo delle sentenze. Formato il fascicolo d'ufficio, l'art. 168bis dispone che “il cancelliere lo presenta senza indugio al presidente del tribunale (o al pretore dirigente o al coordinatore del giudice di pace) , il quale , con decreto scritto in calce alla nota di iscrizione al ruolo”, non oltre due giorni, designa il giudice istruttore davanti al quale le parti devono comparire, se non crede di procedere egli stesso all'istruzione. È questo uno dei momenti più delicati della fase introduttiva del processo, nella quale, individuato dall'attore l'ufficio giudiziario competente, si deve procedere alla individuazione del giudice persona fisica che dovrà trattare la singola controversia. Tale individuazione incide sulla valida costituzione del giudice ex art. 158 e deve avvenire sulla base di criteri oggettivi e predeterminati secondo tabelle approvate dal Consiglio superiore della magistratura . “Nei tribunali divisi in più sezioni il presidente assegna la causa ad una di esse, e il presidente di questa (sempre nel rispetto dei criteri su indicati) provvede nelle stesse forme alla designazione del giudice istruttore”.Subito dopo la designazione del giudice istruttore il cancelliere iscrive la causa sul ruolo della sezione, su quello del giudice e gli trasmette il fascicolo. Se nel giorno fissato per la comparizione il giudice istruttore designato non tiene udienza, la comparizione è d'ufficio rimandata all'udienza immediatamente successiva tenuta dal giudice designato” (senza che questo spostamento debba essere comunicato dal cancelliere alle parti costituite). Il giudice istruttore può differire, con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque giorni” (e di tale spostamento il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite).Venti giorni prima della prima udienza (così come fissata nella citazione o differita dal giudice istruttore ai sensi dell'art. 168bis, ult. comma) il convenuto è tenuto a costituirsi in cancelleria (art. 166). Più che di un obbligo si tratta di un onere dato che in mancanza il convenuto è libero di costituirsi fino alla prima udienza, ma , “restano ferme per il convenuto le decadenze di cui all'art. 167”; ove poi il convenuto non si costituisca neanche nella prima udienza è dichiarato contumace (art. 171, 3 comma) e maturano a suo danno anche le decadenze ricollegate ad attività da compiersi nella prima udienza (art. 183, 4 e 5 comma) o entro un termine. decorrente dalla prima udienza salvo la rimessione in termini ex art 294 in caso di costituzione tardiva . La costituzione in giudizio, sia dell'attore sia del convenuto, avviene normalmente a mezzo di un procuratore legale (salvo le ipotesi in cui la parte possa stare personalmente in giudizio) mediante il deposito in cancelleria del proprio fascicolo (cd. fascicolo di parte). Il fascicolo dell'attore conterrà l'originale della citazione con la relazione di notifica alla controparte, la procura, se rilasciata con atto separato (artt. 83, 125, 2 comma) e i documenti che offre in comunicazione; mentre il fascicolo del convenuto conterrà la copia della citazione notificata, la comparsa di risposta, la procura, se rilasciata con atto autonomo e i documenti che offre in comunicazione. La parte che si costituisce per prima (che può essere quindi anche il convenuto) deve provvedere alla iscrizione della causa a ruolo. Gli effetti della costituzione sono descritti:
a) dall'art. 170, secondo cui, dopo la costituzione in giudizio tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito il quale deve risiedere o avere un recapito nel capoluogo del circondario del tribunale al quale è assegnato:
b) dagli artt. 285, 1° comma, e 330, 1° comma, secondo cui la notificazione della sentenza ai fini dell'impugnazione e l'impugnazione si effettuano presso il procuratore costituito;
c) dall'art. 479, 2 comma, secondo cui la notificazione della sentenza ai fini dell'esecuzione va fatta presso il procuratore costituito, se è effettuata entro l'anno dalla pubblicazione.
La comparsa di risposta e il suo contenuto
Il contenuto della comparsa di risposta è descritto dall'art. 167. Analiticamente:
a) I1 1° comma dell'art. 167 prevede che “nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni”. A differenza di quanto previsto dall'art 416 per il rito del lavoro nel caso in cui il convenuto si limiti ad una contestazione generica con la comparsa di risposta egli non decade dalla possibilità di indicare nella prima udienza i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione .
b) I1 2 comma dell'art. 167 dispone che nella comparsa di risposta il convenuto “a pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali. A differenza di quanto previsto dall'art. 418 riguardo al rito del lavoro, la comparsa di risposta contenente la domanda riconvenzionale non deve essere notificata all'attore costituito ma semplicemente depositata in cancelleria e non è previsto lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire all'attore di replicare per iscritto nelle stesse forme del convenuto alla domanda riconvenzionale; potendo ciò avvenire nella prima udienza ex art. 183. Benché l'art 167 non dica se 1'espressione domanda riconvenzionale ricomprenda o meno anche le domande di accertamento ex art. 34 a nostro modo di vedere la risposta deve essere positiva .
3) Il 3° comma dell'art. 167 dispone che se il convenuto intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere ai sensi dell'art. 269 il quale dispone che il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'art. 163bis”. Dal combinato disposto di queste due disposizioni emerge che per la chiamata in causa di un terzo da parte del convenuto sono necessari:
a) la dichiarazione contenuta nella comparsa di risposta di voler chiamare un terzo;
b) la contestuale richiesta al giudice di spostamento della prima udienza;
c) il decreto del giudice istruttore di fissazione della data della nuova prima udienza;
d) la notificazione della citazione al terzo a cura del convenuto, nonché la comunicazione del cancelliere alle parti costituite del decreto con cui è fissata la data della nuova prima udienza.
A differenza, pertanto, di quanto previsto nel rito del lavoro dall'art. 420, 9° comma, alla chiamata in causa di un terzo su istanza del convenuto non si provvede nel corso della prima udienza ma anticipatamente ad essa.
La prima udienza di trattazione ex art. 183
Costituitesi le parti (o almeno una di esse) in giudizio, designato il giudice istruttore, differita eventualmente la data della prima udienza ai sensi` dell'ultimo comma dell'art. 168bis, si perviene finalmente alla prima udienza di comparizione ex art 180 nella quale in caso di mancata costituzione del convenuto, il giudice verifica la validità della citazione quale atto di vocatio in ius nonché la validità della notificazione. Se la costituzione è avvenuta egli verifica la regolarità della citazione come atto di esercizio dell'azione, gli eventuali difetti di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, nonché i vizi di sottoscrizione della citazione o di difesa tecnica. Sempre in tale udienza il giudice autorizza la comunicazione di comparse ad opera di entrambe le parti, verifica d’ufficio la integrità del contraddittorio e delle eventuali domande riconvenzionali, pronuncia quando occorre i provvedimenti opportuni e fissa la data della prima udienza di trattazione ex art 183 assegnando al convenuto un termine perentorio non inferiore a 20 giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio ad es. quella di incompetenza territoriale derogabile. Le verifiche in tema di giurisdizione, competenza, legittimazione ad agire, interesse ad agire, devono invece essere effettuate a termine della prima udienza, di trattazione a domande ed eccezioni definitivamente proposte e precisate anche a seguito dei chiarimenti richiesti dal giudice e della indicazione delle questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione.
L’INTERROGATORIO LIBERO DELLE PARTI
La prima attività da svolgere nella udienza indicata dall’art. 183 è 1'interrogatorio libero delle parti la cui comparizione è obbligatoria. “Nella prima udienza di trattazione il giudice istruttore interroga liberamente le parti presenti e, quando la natura della causa lo consente (per essere relativa cioè a diritti disponibili), tenta la conciliazione. La mancata comparizione delle parti senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi del 2 comma dell'art. 116 (cioè argomento di prova ). Le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale (che può essere anche il difensore ove ad esso sia stata rilasciata apposita procura speciale ) che deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o con scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare e transigere la controversia. La mancata conoscenza, senza gravi ragioni dei fatti della causa da parte del procuratore è valutabile ai sensi del 2 comma dell’art. 116” (e non già, come previsto dall'art. 420, “valutata dal giudice ai fini della decisione”). L'interrogatorio libero delle parti ha in sostanza la funzione di far emergere dal contraddittorio delle parti sotto la direzione e con la collaborazione del giudice i fatti effettivamente controversi. È appena il caso, poi, di notare che la mancata comparizione di una o di entrambe le parti alla prima udienza, ove giustificata, non impedisce un suo rinvio ma esclude solo che il giudice possa desumere da tale contegno processuale argomenti di prova sfavorevoli alla parte non comparsa. Ci si è chiesti quale sia il valore probatorio delle risultanze dell'interrogatorio libero o non formale. Al riguardo bisogna distinguere tra dichiarazioni pro se e dichiarazioni contra se .
l) Le dichiarazioni contra se se vertono su fatti relativi a diritti disponibili, pur non potendo avere (stante l'art. 229) 1'efficacia di prova legale propria della confessione giudiziale, sono idonee—in forza del principio cd. della non contestazione—a porre il fatto ammesso fuori del thema probandum ed a vincolare il giudice a doverlo ritenere, in quanto pacifico e non controverso, come esistente. Se invece le dichiarazioni contra se vertono su fatti relativi a diritti indisponibili, esse non saranno idonee a porre il fatto ammesso fuori del thema probandum, ma avranno pur sempre il “valore” di argomenti di prova ex art. 116,le quali pero in questo caso saranno idonee a fondare anche da sole il convincimento del giudice
2) Le dichiarazioni pro se a differenza di quelle contra se, avranno invece un valore probatorio minimo perché vi è una massima di comune esperienza secondo cui è poco attendibile chi dichiara l'esistenza di fatti a sé favorevoli e sfavorevoli all'altra parte; di qui la loro inidoneità a fondare da sole il convincimento del giudice tranne il caso in cui esse siano accompagnate dalla dichiarazione “di altri fatti o circostanze tendenti a infirmare l'efficacia del fatto confessato o a estinguerne gli effetti.
L’indicazione Alle Parti Delle Questioni Rilevabili D’ufficio
Strettamente collegato con la funzione dell'interrogatorio libero è il 3 comma dell'art. 183 secondo cui “il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Il 3° comma dell'art. 183 concerne per un verso il potere del giudice di chiedere chiarimenti sui fatti già allegati dalle parti nell'atto di citazione, nella comparsa di risposta o nel corso della stessa prima udienza, per altro verso il potere del giudice di provocare il contraddittorio sulle questioni rilevabili d'ufficio. Questioni rilevabili d'ufficio sono sia le questioni di diritto relative all'individuazione ed all'interpretazione in modo difforme dalle parti della norma a cui ricondurre la fattispecie concreta dedotta in giudizio, sia le questioni relative a fatti costitutivi impeditivi, modificativi, estintivi non fatti valere nell’atto di citazione e nella comparsa di risposta ma emergenti dagli atti del processo. Ci si è chiesti quali siano le conseguenze della omissione dell'interrogatorio libero e della mancata indicazione da parte del giudice in sede di prima udienza delle questioni di diritto e di fatto rilevabili d'ufficio. Poiché la funzione dell'interrogatorio libero è quella di far emergere nel contraddittorio delle parti, sotto la direzione e con la collaborazione del giudice, i fatti effettivamente controversi se nonostante l'omissione dell'interrogatorio libero, la chiarificazione del thema decidendum e del thema probandum sia comunque raggiunta, entro la prima udienza, l'omissione dell'interrogatorio libero potrà costituire motivo di nullità ex art. 159 degli atti successivi del processo. Nell'ipotesi, invece, in cui l'omissione dell'interrogatorio libero non abbia consentito siffatte chiarificazioni, le parti che abbiano denunciato, nel corso della prima udienza l'omissione dell'interrogatorio possono chiedere di essere rimesse in termini nell'esercizio di quei poteri processuali, previsti dall’art. 183, 4 comma, ultima parte (e 184), che non abbiano potuto esercitare a causa dell'omissione dell'interrogatorio ad esse non imputabile. Affine è la soluzione che deve essere data alla mancata indicazione da parte del giudice, nel corso della prima udienza, delle questioni rilevabili d'ufficio. Il mancato rilievo entro la prima udienza non preclude al giudice di esercitare nel successivo corso del processo i poteri ufficiosi che la legge gli attribuisce ma l'esercizio tardivo di tali poteri comporterà però sempre per le parti la possibilità di essere rimesse in termini, ex art. 184 bis,. Quanto, infine, all'ipotesi in cui il giudice risolva la controversia sulla base di una questione rilevabile d'ufficio su cui non abbia provocato anticipatamente il contraddittorio va detto che la violazione in tanto é denunciabile dalla parte soccombente in quanto questa denunci che l'error in procedendo l'ha messa nell'impossibilità di chiedere la rimessione in termini
.LE DOMANDE ED ECCEZIONI NUOVE PROPONIBILI NELLA PRIMA UDIENZA; LA CHIAMATA DI TERZI SU ISTANZA DELL’ATTORE; LA MODIFICA DELLE DOMANDE ED ECCEZIONI GIÀ PROPOSTE
Ai sensi del 4° comma dell'art. 183 “nella stessa udienza 1'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda ricovenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta. Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli art. 106 e 269, se 1'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Entrambe le parti possono precisare e, modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”. In particolare nel corso della prima udienza l'attore ha piena possibilità di replica alle difese articolate dal convenuto nella comparsa di risposta potendo proporre domanda riconvenzionale (la c.d reconventio reconventionis,), domanda di accertamento ex art. 34 ed eccezioni che siano conseguenza delle difese del convenuto. Di fronte alla replica dell'attore, il convenuto può a sua volta controreplicare ma solo con eccezioni che siano conseguenza della replica dell'attore e non anche con nuove domande. Ancora, alla controreplica del convenuto l'attore può a sua volta replicare solo con eccezioni: e così via teoricamente fino all'infinito pena la violazione del diritto di difesa ex art 24, 2 comma, Cost. di una delle parti. Occorre infine chiarire che ai sensi dell'ultima parte del 4 comma questo è l'ultimo momento utile per modificare “domande, eccezioni e conclusioni”, giacché in sede di rimessione in decisione della causa ex 'art. 189 le parti possono sì precisare le conclusioni, ma “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'art. 183”. Nel caso in cui la prima udienza non si concluda con la definitiva proposizione delle domande e delle eccezioni l'ultimo comma dell'art. 183. prevede, che il giudice può disporre una breve appendice scritta per consentire alle parti di effettuare per iscritto le attività indicate nel 4° comma della disposizione in esame. Infatti “Se richiesto, il giudice fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni delle domande, eccezioni e conclusioni già proposte”(sia nell'atto di citazione o nella comparsa di `risposta, sia nel corso della prima udienza ). Il giudice concede altresì alle parti, un termine perentorio non superiore a trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dalle parti e per proporre, entro lo stesso termine, le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime. L'ultima parte dell'ultimo comma dell'art. 183 dispone poi che il giudice “con la stessa ordinanza” con la quale concede l'appendice di trattazione scritta fissa l'udienza per i provvedimenti di cui all'art. 184. Come è evidente all'appendice di trattazione scritta segue cioè non l'“altra udienza”, prima della quale le parti devono a pena di decadenza produrre i documenti e indicare i mezzi di prova, bensì la prosecuzione della prima udienza allo scopo di emanare i provvedimenti di cui all'art 184.
IPOTESI IN CUI È POSSIBILE IL RINVIO DELLA PRIMA UDIENZA
Il rinvio della prima udienza si potrà avere nei seguenti casi
a) Rilievo d'ufficio, in caso di mancata costituzione del convenuto, di nullità dell'atto di citazione per vizi inerenti alla vocatio in ius ex art. 164 1° e 2° co. ovvero per nullità della notificazione ex art 160 e 291
b) Nullità della citazione per vizi inerenti alla vocatio in ius ex art. 164, 1° comma, ovvero nullità della notificazione, sanate dal convenuto costituitosi, il quale però deduca ex art. 157, la nullità allo scopo di ottenere la fissazione di una nuova prima udienza ex art. 183
c) Rilievo d'ufficio della nullità della citazione per mancata indicazione o assoluta incertezza in ordine al diritto fatto valere in giudizio, ex art. 164, 4° e 5 comma,
d) Rilievo d'ufficio in caso di costituzione del convenuto e di deduzione in giudizio di un diritto cd: autodeterminato, dell'assoluta mancanza del requisito della esposizione dei fatti di cui al n. 4 dell'art. 163,
e) Rilievo d'ufficio di difetti di rappresentanza, assistenza o autorizzazione ex art. 182, 2 comma, ovvero di vizi di sottoscrizione o di difesa tecnica.
In tutte queste ipotesi di rinvio della prima udienza il convenuto potrà effettuare (se del caso rinnovare) le attività previste a pena di decadenza dall'art. 167 e le parti e il giudice potranno spendere nel corso della nuova prima udienza tutti i poteri processuali che ad essa sono ricollegati (ivi compreso il potere di rilievo dell'incompetenza di cui all'art. 38 1° comma). Le preclusioni ricollegate alla prima udienza restano invece nelle altre ipotesi in cui pure si può parlare di rinvio della prima udienza e cioè:
f) In caso di mancata comparizione dell'attore costituito e di rinvio dell'udienza ai sensi dell'art. 181, 2 comma, a causa della mancata richiesta del convenuto di procedere in assenza di lui.
- In ipotesi di autorizzazione dell'attore a chiamare in causa un terzo
h) In ipotesi di concessione dell'appendice di trattazione scritta ex art 183
i) Solo in senso improprio si può parlare di rinvio della prima udienza nelle ipotesi di differimento della stessa ai sensi dell'ultimo comma dell'art 168 bis o di spostamento a seguito di richiesta di chiamare in causa un terzo avanzata dal convenuto all'atto della sua costituzione o infine quando il giudice disponga la rimessione immediata al collegio ai sensi dei primi tre commi dell'art. 187, e il collegio (o lo stesso giudice istruttore in funzione di giudice singolo) pronunci sentenza non definitiva ai sensi dell'art. 279, n. 4. Solo nelle ipotesi di rinvio proprio la prima udienza ex art. 183 può concludersi senza la definitiva fissazione del thema decidendum e del thema probandum, e senza la (eventuale) assegnazione di un termine perentorio entro il quale a pena di decadenza si devono produrre documenti e indicare i mezzi di prova.
L'ISTRUZIONE
Terminate le complesse attività della prima udienza di trattazione se del caso allungata attraverso l'appendice scritta , il giudice ove non ritenga di poter far passare immediatamente la causa in fase decisoria ai sensi dei primi tre commi dell'art. 187 si può trovare di fronte a queste due eventualità:
a) Le parti non chiedono l'assunzione di mezzi di prova ulteriori rispetto a quelli già richiesti nell'atto di citazione e nella comparsa di risposta ovvero nel corso della stessa prima udienza. In tal caso il giudice deve provvedere immediatamente con ordinanza sull'ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova, mentre la assunzione avverrà sotto la direzione del giudice in una udienza successiva fissata a distanza non superiore a quindici giorni e se l'assunzione non si esaurisce nell'udienza fissata, il giudice ne differisce la prosecuzione ad un giorno prossimo .
b) Le parti, o anche una sola di esse, chiedono l'assegnazione di un termine in cui produrre documenti e indicare ulteriori mezzi di prova. In tal caso il giudice “rinvia ad altra udienza, assegnando un termine entro il quale le parti possono produrre documenti e indicare nuovi mezzi di prova, nonché altro termine per l'eventuale prova contraria” e per provvedere alle valutazioni di ammissibilità e rilevanza e quindi all'assunzione delle prove. Poiché tali termini sono perentori a seguito del loro decorso le parti decadono dalla possibilità di produrre ulteriori documenti e di chiedere nuovi mezzi di prova.
Occorre precisare che nel caso in cui le parti non abbiano chiesto l’assegnazione del termine per le deduzioni istruttorie nella prima udienza esse possono ottenere solo l’ammissione delle prove precedentemente indicate nella citazione, nella comparsa di risposta o nel corso della stessa prima udienza salvo il caso di rimessione in termini ex art 184 bis e la possibilità di dedurre entro un termine perentorio assegnato dal giudice quei mezzi di prova che si rendono necessari in relazione a quelli disposti d’ufficio dal G.I. Da quanto detto ne deriva di conseguenza che a differenza del rito del lavoro nel rito ordinario il momento ultimo per produrre documenti e avanzare richieste di prove costituende è dato da un doppio termine (uno per la prova positiva ed uno per la prova contraria) che comincia a decorrere dalla chiusura della prima udienza dopo che sono stati individuati i fatti controversi.
I LIMITI DELLE CONTESTAZIONI TARDIVE
Ci si è chiesti al riguardo se la non contestazione e l'ammissione possano essere “ritirate” successivamente alla chiusura della prima udienza. A noi sembra che le caratteristiche del sistema introdotto dalla 1. 353/90 inducono a ritenere che (nei processi relativi a diritti disponibili) 1'ammissione o la non contestazione della parte costituita emerse nella prima udienza di trattazione possono, nel successivo corso del giudizio, essere trasformate in contestazione tardiva, solo ove la parte che intenda contestare tardivamente chieda ed ottenga la rimessione in termini ai sensi dell'art. 184 bis. Quanto detto vale naturalmente solo per i processi relativi a diritti disponibili con parti costituite. Ove, infatti, il processo abbia ad oggetto diritti indisponibili la non contestazione e l'ammissione non varranno mai come già detto a porre il fatto non contestato o ammesso fuori del thema probandum. Quanto, poi, all'ipotesi di contumacia del convenuto, va detto che nel nostro ordinamento essa non equivale a non contestazione (o ficta confessio o ammissione legale) e, per tanto, non esonera l'attore dall'onere di provare i fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio. Da quanto detto ne deriva che il contumace costituitosi tardivamente potrà si prendere liberamente posizione sui fatti costitutivi, affermati dall’attore ma restano ferme per lui le preclusioni ricollegate alla prima udienza ove il contumace non sia rimesso in termini ai sensi dellart. 294.
La rimessione in termini delle parti costituite ex art. 184-bis
Con una disposizione di grosso rilievo 1'art. 184-bis introduce nel nostro ordinamento un meccanismo generale di rimessione in termini a favore delle parti costituite disponendo che “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell'art. 294, 2° e 3° comma”. Oggetto della rimessione in termini ex art. 184-bis possono essere tutti quei poteri processuali che devono essere esercitati a pena di decadenza nella prima udienza o entro un termine decorrente da essa come ad es. quelli previsti dal 2 e 3 comma dell'art. 167. Effetto della rimessione in termini è la riattribuzione del potere da cui si era decaduti, al quale però corrisponde analogo ripristino dei poteri di reazione spettanti alle controparti. Presupposto per la rimessione in termini è la circostanza che il potere processuale non è stato tempestivamente esercitato per causa non imputabile alla parte. La decisione sulla rimessione in termini, è emanata sempre con la forma dell'ordinanza revocabile.
ORDINANZE E SENTENZE IN GENERALE
Il nostro codice prevede che tutti i provvedimenti con contenuto ordinatorio abbiano la forma della ordinanza mentre riserva invece la forma della sentenza ai provvedimenti con cui il giudice statuisce sull'esistenza o inesistenza del diritto fatto valere in giudizio dall'attore, ovvero dichiara di non potere statuire su di esso per motivi di rito, o per talune ipotesi da considerare eccezionali. Dispone infatti l'art. 176 che salvo che la legge disponga altrimenti, tutti i provvedimenti del giudice istruttore hanno la forma della ordinanza (mentre l'art. 279, 1° riserva tale forma solo ai provvedimenti con cui il collegio decide su questioni istruttorie senza definire il giudizio). La legge prevede poi che le ordinanze del G.I. o del collegio comunque motivate, non possono mai pregiudicare la decisione della causa che normalmente esse sono modificabili e revocabili dallo stesso giudice che le ha emanate, e che non sono soggette ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze. Vi sono tuttavia delle ordinanze espressamente dichiarate non modificabili né revocabili dall'art. 177, 3 comma e cioè:
a) ordinanze pronunciate sull'accordo delle parti in materia della quale queste possono disporre (esse sono tuttavia revocabili dal giudice istruttore o dal collegio quando vi sia l'accordo di tutte le parti);
- ordinanze dichiarate non impugnabili ex lege;
c) ordinanze per cui la legge prevede uno speciale mezzo di reclamo
L'art. 178 c.p.c. assicura poi un controllo generale del collegio sulle ordinanze disponendo che, quando la causa è rimessa al collegio ex art. 189, le parti senza bisogno di mezzi di impugnazione, possono proporre tutte le questioni risolte dal giudice istruttore con ordinanza revocabile. L'art. 279 del codice dettata per i provvedimenti collegiali ma destinata a valere anche per i provvedimenti decisori degli altri giudici è la disposizione base per individuare i casi in cui deve essere pronunciata sentenza. Secondo essa normalmente il collegio pronuncia sempre sentenza mentre provvede con ordinanza soltanto quando decide su questioni relative all'istruzione senza definire il giudizio. A differenza delle ordinanze le sentenze sono irrevocabili essendo, soggette solo ad appello, ricorso per cassazione, revocazione, regolamento di competenza, opposizione di terzo. La sentenza è prevista come ipotesi tipica di provvedimento emanato in fase decisoria, intendendo come tale la fase che si svolge dopo che il giudice istruttore abbia rimesso la causa al collegio o (in caso di giudice monocratico) l'abbia trattenuta per la decisione. Ciò avviene
-
a seguito del completamento della fase istruttoria o quando il giudice istruttore ritiene la causa matura per la decisione senza bisogno di assumere mezzi di prova. In entrambi i casi il giudice pronuncia sentenza con cui decide totalmente il merito.
- quando nel corso del processo sorga una questione preliminare di merito o una questione di giurisdizione, competenza o altra pregiudiziale di rito idonea a definire il giudizio. In questi casi, se il giudice in fase decisoria concorda con la valutazione dell'istruttore, pronuncia sentenza definitiva, di rigetto della domanda altrimenti risolve solo la questione con sentenza, cd.“non definitiva” (art. 279, 2 comma, n. 4) in quanto inidonea ha definire il giudizio.
Occorre rilevare che per questioni pregiudiziali si intendono quelle questioni che debbono essere risolte dal giudice prima di statuire sull'esistenza o meno del diritto fatto valere in giudizio. Le questioni pregiudiziali di merito sono inerenti all'esistenza o inesistenza del diritto fatto valere in giudizio. Rispetto ad esse le questioni di rito sono a loro volta pregiudiziali, in quanto attengono alla valida instaurazione e prosecuzione del processo, in mancanza della quale il giudice non può pronunciarsi sul merito della domanda. In sostanza il sistema attuale è nel senso che il G.I. dispone con ordinanza l'immediata rimessione della causa in decisione solo se ritene che la questione pregiudiziale sia concretamente risolta nel senso di definire il giudizio; altrimenti procede all'istruzione e solo in seguito, ad istruzione esaurita, dispone il passaggio del processo in fase decisoria.. Per concludere va precisato che poichè le sentenze non definitive di merito possono riguardare anche questioni di cui si sia chiesto l'accertamento incidentale nel caso in cui non venga fatta riserva di impugnazione e si lascino decorrere inutilmente i termini tali sentenze divengono immutabili e in caso di estinzione dei giudizio ex art. 310, avranno l'effetto tipico del giudicato sostanziale. Se invece tale accertamento non è richiesto la sentenza avrà solo efficacia cd. panprocessuale varrà cioè solo nel secondo eventuale giudizio tra le stesse parti in cui sia riproposta la stessa domanda. Ci si è chiesti quale il sia regime applicabile in caso di errori del giudice sulla forma dei provvedimenti. Al riguardo bisogna distinguere due casi:
1) se il provvedimento definisce il giudizio si dovrà dare prevalenza alla sostanza e quindi si applicherà il regime di impugnazioni tipico delle sentenze;
2) se, invece, il provvedimento risolva solo una questione pregiudiziale senza definire il giudizio, si deve dare prevalenza alla forma e quindi nel caso di ordinanza erroneamente emanata, le parti potranno solo presentare istanza di revoca o di modifica al giudice. Lo stesso dicasi nell'ipotesi di risoluzione con sentenza di una questione meramente istruttoria:
LA FASE DELLA DECISIONE
Esaurita l'istruzione ovvero nelle ipotesi di rimessione immediata o anticipata previste dai primi tre commi dell'art. 187 il giudice deve immediatamente invitare le parti a precisare le conclusioni nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'art 183 .A questo punto se si tratta di causa di competenza del tribunale si pone la questione relativa al se la causa debba essere decisa dal giudice istruttore “in funzione di giudice unico con tutti i poteri del collegio” o invece dal tribunale in formazione collegiale con il numero invariabile di tre votanti.
- Se la causa deve essere decisa dal giudice istruttore in funzione di giudice unico, questi, fatte precisare le conclusioni ai sensi dell'art. 189, dispone lo scambio delle comparse e della memoria di replica ai sensi dell'art. 190 e, quindi, deposita la sentenza in cancelleria entro sessanta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica (art 190 bis, 1° comma). Ai sensi dell’art. 190, salva la fissazione di termini più brevi non inferiori comunque a venti giorni, le comparse conclusionali debbono essere depositate entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla udienza in cui sono state precisate le conclusioni e le memorie di replica entro i venti giorni successivi”.A questo modulo di decisione a trattazione scritta, il 2 comma dell'art. 190 bis prevede, come modulo alternativo eventuale, quello della decisione a seguito di discussione orale dato che al momento della precisazione delle conclusioni ciascuna delle parti ha facoltà di chiedere che la causa sia discussa oralmente davanti al giudice istruttore. In tal caso il G.I. dispone lo scambio delle sole comparse conclusionali ai sensi dell'art. 190 e fissa l'udienza di discussione non oltre sessanta giorni dalla scadenza dei termine per il loro deposito mentre la sentenza è depositata in cancelleria entro i sessanta giorni successivi. Come è evidente in caso di decisione a seguito di discussione orale, si ha, solo scambio delle comparse conclusionali e non anche delle memorie di replica, dovendo la replica avvenire nel corso della discussione orale, a differenza di quanto è previsto dall'art. 275 in ipotesi di discussione orale davanti al collegio. Per quanto riguarda la formazione della sentenza va detto poi che non vi è la lettura immediata del dispositivo in udienza, così come previsto in via necessaria dall'art. 429 per il rito del lavoro e in via eventuale dall'art. 315 per le cause di competenza del pretore.
b) Se la causa deve essere decisa dal tribunale in formazione collegiale, il giudice istruttore, fatte precisare le conclusioni rimette la causa al collegio e salvo la fissazione di termini più brevi non inferiori a venti giorni le parti hanno a disposizione sessanta giorni dalla rimessione per depositare le comparse conclusionali e quindi venti giorni per depositare memorie di repliche (art 190). Scaduto il termine per il deposito delle memorie di replica, il collegio di cui deve fare parte obbligatoriamente il giudice istruttore (come relatore ) delibera la decisione in camera di consiglio . La sentenza è depositata in cancelleria entro sessanta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica (così l'art. 275, 1° comma). Se al momento della precisazione delle conclusioni, una delle parti chiede che la causa sia discussa oralmente dinanzi al collegio l'art. 275, 2 comma richiede che effettuato il deposito delle difese scritte (comparsa conclusionale e memoria di replica) la richiesta deve essere riproposta al presidente del tribunale alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Il presidente provvede sulle richieste fissando con decreto la data dell'udienza di discussione, da tenersi entro sessanta giorni. In tale udienza il giudice istruttore fa la relazione orale della causa e dopo la relazione il presidente ammette le parti; alla discussione. La sentenza è depositata in cancelleria nei sessanta giorni successivi. Occorre rilevare che a seguito della richiesta ritualmente presentata il presidente del tribunale è obbligato a fissare l'udienza di discussione e una eventuale pronuncia della sentenza senza lo svolgimento della preventiva udienza di discussione la renderebbe viziata nella sua formazione.
Giudice monocratico e giudice collegiale di
tribunale
A seguito della modifica dell'art. 48 dell'ordinamento giudiziario, il tribunale civile diviene come regola giudice monocratico ma nelle materie tassativamente elencate dal 2 comma dello stesso art. 48 continua ad essere, sia pure a livello di eccezione, organo collegiale che “giudica col numero invariabile di tre votanti (“salve le disposizioni relative alla composizione delle sezioni specializzate”). Occorre rilevare che la questione relativa al se una controversia di primo grado di competenza del tribunale debba essere decisa dal giudice istruttore in funzione di giudice unico o invece dal collegio sorge solo al momento della precisazione delle conclusioni ex art 189 e che ex art 274 bis l'eventuale errore nella scelta non da luogo ad un vizio di competenza ma ad un vizio di costituzione il quale produce una nullità insanabile da far valere nei limiti e secondo le regole proprie dell'appello o del ricorso per cassazione. Ciò comporta che il giudice d'appello, dichiarata la nullità verificatasi in primo grado, deve disporre la rinnovazione innanzi a se degli atti nulli e non rimettere la causa al primo giudice. Il 3° comma dell'art. 274 bis risolve poi il problema del cumulo nello stesso processo davanti al tribunale di cause attribuite al collegio e cause attribuite al giudice istruttore in funzione di giudice unico disponendo che dopo averle riunite il G.I. all'esito dell'istruttoria, le rimette, al collegio ai sensi dell'art. 189 il quale si pronuncia su tutte le domande, a meno che non sia disposta la separazione ai sensi dell'art. 279, 2 comma, n. 5”.
IL PROCEDIMENTO DAVANTI AL PRETORE
Il processo davanti al pretore è disciplinato integralmente dalle norme relative al processo davanti al tribunale monocratico con due sole eccezioni: una di notevole significato relativa alla fase decisoria, la seconda, di minore ,importanza relativa ai poteri istruttori del giudice.
a) per quanto riguarda i poteri istruttori va detto che l'art. 312 prevede che il pretore (o il giudice di pace) può disporre d'ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità.
b) per quanto riguarda la fase decisoria va detto che anche se gli art. 314 e 315 prevedono sia la decisione a seguito di trattazione scritta sia la decisione a seguito di discussione orale la scelta dell’una o dell’altra modalità non dipende dalla volontà delle parti ma è nella esclusiva disponibilità del pretore dato che questi fatte precisare le conclusioni può scegliere :
1) o di disporre lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ai sensi dell'art. 190 e, quindi, di depositare la sentenza entro trenta (non sessanta come per il tribunale) giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica (art. 314). In tal caso a differenza di quanto previsto per il processo davanti al tribunale le parti non hanno il potere di chiedere che dopo il deposito delle difese scritte si svolga un udienza dedicata alla discussione orale della controversia ma è nella discrezionalità del pretore accogliere tuttavia la richiesta.
- o di ordinare l'immediata discussione orale della causa e al termine della discussione pronunciare sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In questo caso la sentenza si intende pubblicata (agli effetti del decorso del termine annuale di decadenza di cui all'art; 327, 1° comma) con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria
Occorre rilevare che ove il pretore opti la decisione a seguito di discussione orale egli è obbligato all'immediata pronuncia della sentenza con lettura del dispositivo e motivazione in udienza, dato che in mancanza si avrà un vizio nella fase di formazione della sentenza suscettibile di essere fatto valere in appello.
IL PROCEDIMENTO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE
La disciplina del procedimento davanti al giudice di pace e notevolmente semplificata rispetto a quella del processo davanti al pretore e al giudice monocratico di tribunale.
In particolare fermo restando l'applicabilità anche al processo davanti al giudice di pace degli art. 312 e 313 in tema di poteri istruttori d'ufficio e di querela di falso:
1) I'art. 316, nel ribadire che la domanda si propone con citazione ad udienza fissa, consente altresì al 2 comma la proposizione verbale, quale che si il valore della controversia
- I'art. 317, consente alle parti di farsi rappresentare davanti al giudice di pace anche da persone che non siano professionisti forensi
3) I'art. 318, 1° comma, semplifica il contenuto della domanda; il 2° comma dispone che i termini a comparire sono sempre quelli previsti dall'art. 163-bis ridotti alla metà; mentre il 3 comma è conforme testo dell'art. 168-bis 4 comma;
4) I'art. 319, prevede la possibilità per le parti di costituirsi direttamente il giorno dell'udienza
5) I'art. 320 disciplina la trattazione della causa secondo forme semplificate rispetto a quelle previste per il processo davanti al tribunale e al pretore. Alla prima udienza è obbligatoria la comparizione personale delle parti dovendo il giudice interrogarle e tentare di conciliare la lite.
a) Se la conciliazione riesce, se ne redige processo verbale
b) Se la conciliazione non riesce il giudice invita subito le parti a precisare definitivamente i fatti posti a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, nonché a produrre i documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere. Quando sia reso necessario dalle attività svolte dalle parti il giudice fissa per una sola volta una nuova udienza per ulteriori deduzioni e richieste di prova
6) I'art. 321 disciplina la decisione secondo un modulo ibrido disponendo che il giudice di pace, quando ritiene matura la causa per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa. La sentenza è depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla discussione. Come è evidente sembra che la decisione sia pronunciata sempre a seguito di discussione orale, e che non sia prevista la lettura in udienza né della sentenza completa di motivazione e dispositivo né del solo dispositivo. Evidentemente esigenze di semplificazione hanno consigliato di non prevedere come obbligatoria una trattazione scritta dopo la precisazione delle conclusioni la quale tuttavia può essere disposta quando sia richiesta dalle parti o sia opportuna in considerazione della complessità della controversia
7) I'art. 322, relativo alla conciliazione in sede non contenziosa, prevede che l'istanza è proposta anche verbalmente al giudice di pace competente per territorio e che il processo verbale di conciliazione in sede non contenziosa costituisce titolo esecutivo se la controversia rientra nella competenza del giudice di pace mentre negli altri casi ha valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio
LE PROVE
Le prove civili rinvengono la loro disciplina in parte nel codice civile (artt. 2697 a 2738), in parte nel codice di procedura civile (artt. 115 a 118, 191 a 266). Le prove sono gli strumenti processuali per mezzo dei quali il giudice forma il suo convincimento circa la verità o la non verità dei fatti affermati dalle parti. In relazione all’oggetto le prove si distinguono in:
- Prove dirette che sono quelle che sono idonee a far conoscere immediatamente il fatto da provarsi (ad es. la testimonianza)
- Prove indirette che sono quelle che fanno conoscere uno o più fatti diversi i cd indizi dai quali attraverso una operazione logica si può risalire al fatto da provarsi (l’operazione si chiama presunzione semplice ed è esclusa nei casi in cui non è ammessa la prova per testi)
Con riguardo al momento di formazione e alle modalità di acquisizione esse si distinguono in
1) Prove precostituite che sono quelle che si formano fuori e di solito prima del processo e nel quale entrano attraverso un atto di produzione o esibizione (ad es documenti, scritture pubbliche e private, fotografie, oggetti)
2) Prove costituende che sono quelle che si formano solo nel processo come risultato di una attività istruttoria disciplinata dalla legge (ad es. confessione, giuramento, ispezione giudiziale, richiesta di informazioni alla P.A.)
Con riguardo alla loro efficacia le prove si distinguono in
1) Prove libere che sono quelle valutate dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento ex art 116
2) Prove legali che sono quelle che costituendo una eccezione alla regola della libera apprezzabilità vincolano il giudice al loro risultato probatorio (ad es confessione ,giuramento, atto pubblico)
Infine con riguardo all’intensità dell’efficacia probatoria si distinguono
- Prove piene che sono quelle normalmente richieste dalla legge
2) Prove di verosimiglianza che sono quelle che sono sufficienti quando la legge si accontenta del convincimento del giudice secondo il quale il fatto affermato è credibile o verosimile (ad es. il fumus boni iuris in sede cautelare )
I VINCOLI DEL GIUDICE
L'attività logico conoscitiva del giudice concerne:
-
l'individuazione e l'interpretazione della fattispecie legale astratta a cui ricondurre il diritto fatto valere in giudizio dall'attore: cd. Questio iuris
b) l'accertamento dell'esistenza o no dei fatti principali rilevanti come fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi ai fini del diritto azionato: cd. Questio facti
La differenza fra queste due attività deriva dal diritto positivo, cioè dal diverso modo in cui l'ordinamento giuridico disciplina queste due attività. In particolare nella Questio iuris il giudice:
a) non è mai vincolato dalle indicazioni delle parti, anche se concordi (cd principio iura novit curia)
b) non è vincolato dal divieto di utilizzazione del proprio sapere
privato,
- non è vincolato al rispetto di procedimenti che non siano quelli indicati dagli artt. 12 e 14 delle preleggi e cioè analogia legis e iuris, e divieto di applicazione analogica di norme eccezionali;
d) l'attività di individuazione ed interpretazione della legge è soggetta a controllo pieno in cassazione,
Nella Questio facti invece il giudice:
- nei processi relativi a diritti disponibili è vincolato dalle indicazioni concordi delle parti, deve cioè ritenere esistenti i fatti non controversi
- nei processi relativi a diritti indisponibili, e quanto ai fatti controversi o comunque bisognosi di prova:
1)è vincolato dal divieto di utilizzazione del proprio sapere privato con il solo limite del notorio
2) è vincolato dal principio dispositivo(art. 115) secondo cui, salvo i casi in cui la legge gli attribuisce poteri istruttori d'ufficio, può utilizzare solo prove acquisite al processo su istanza delle parti o del pubblico ministero;
.
3) può utilizzare unicamente le prove che siano state richieste o prodotte dalle parti nel rispetto del sistema di preclusioni e decadenze previsto dall'ordinamento, salvo il caso di rimessione in termini
4) deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento ad eccezione delle prove legali
- ove al termine del processo risulti non provato, o non pienamente provato un fatto principale controverso, deve fare applicazione della regola dell’onere della prova
6) 1'attività di accertamento del fatto non è soggetta a controllo pieno in cassazione, ma solo a controllo indiretto per il tramite della motivazione in caso di sua omissione, insufficienza o contraddittorietà
IL PRINCIPIO DELLA NON CONTESTAZIONE
Occorre rilevare che solo i fatti rilevanti siano essi principali o secondari possono formare oggetto di prova, ma non tutti i fatti rilevanti hanno bisogno di prova. Per la concreta determinazione del thema probandum, occorre fare riferimento ad un principio tacito, il cd principio della non contestazione. Ridotto all'essenziale il principio di non contestazione comporta che nei processi relativi a diritti disponibili i fatti non contestati sono posti fuori del thema probandum, non hanno cioè bisogno di essere provati, ma devono, invece, essere considerati come esistenti dal giudice. La non contestazione consiste in un comportamento omissivo che va desunto dalla strategia difensiva complessiva della controparte, ad esempio, la difesa di un convenuto che, a fronte di una domanda di adempimento del contratto, eccepisca l'annullamento, l'inadempimento della controparte, l'esistenza di un termine ecc., sicuramente, comporta la non contestazione del fatto costitutivo contratto allegato dall'attore. Va precisato che il principio della non contestazione non opera:
- nei processi relativi a diritti indisponibili dove la non contestazione opera solo come argomento di prova mentre l'ammissione è una dichiarazione di scienza della parte di fatti a se sfavorevoli e favorevoli all’altra parte che a differenza della confessione, è sottoposta al prudente apprezzamento del giudice
- in ordine ai contratti per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam:
- in ordine ai processi contumaciali: perché nel nostro ordinamento la contumacia è un comportamento neutro, che non ha valore di ficta confessio;
d) nei processi in cui sia intervenuto il pubblico ministero, o vi sia stato un intervento volontario o coatto del terzo
LA PROVA DEI FATTI INVEROSIMILI, IMPOSSIBILI GIÀ PROVATI
Si suole dire che i fatti inverosimili non sono bisognosi di prova; ma l'affermazione è inesatta, in quanto proprio perché inverosimile, il fatto sarà bisognoso di prova Esatto è invece il dire che i fatti impossibili non devono essere provati, ma è appena il caso di osservare che i progressi della scienza riducono sempre di più l'area della impossibilità. Occorre rilevare che anche se ex art. 209 il giudice dichiara chiusa l'istruzione quando ritiene superflua, per i risultati già raggiunti, l’ulteriore assunzione (emana cioè un giudizio di superfluità) a nostro modo di vedere anche i fatti già provati possono formare oggetto di prova quando i mezzi di prova ancora da assumere siano diretti a contrastare l'opinione che egli si è già formato sulla base di quelli già assunti.
IL PRINCIPIO DELLA DISPONIBILITA DELLE PROVE
L'art. 115 così recita: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero. Può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.Il problema risolto dall'art. 115 è quello dei soggetti su iniziativa dei quali le prove devono essere acquisite al giudizio. In teoria sono possibili tre soluzioni
- Principio della disponibilità delle prove secondo cui le prove sono acquisite al giudizio solo su iniziativa delle parti:
b) Principio inquisitorio, secondo cui, oltre che su iniziativa delle parti, le prove sono acquisite al giudizio anche su iniziativa del giudice il quale ha, altresì, poteri di ricerca autonoma.
c) Principio dei poteri istruttori d'ufficio, secondo cui le prove sono acquisite al giudizio non solo su iniziativa delle parti, ma anche su iniziativa del giudice, nel rispetto però del divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice. Il potere di iniziativa del giudice può riguardare quindi solo fatti notori o fatti che siano emersi dal contraddittorio delle parti
I DIVERSI MODELLI ACCOLTI DAL NOSTRO DIRITTO POS1TIVO
Il nostro ordinamento conosce più modelli quanto ai soggetti su istanza dei quali le prove possono essere acquisite al giudizio.
1) Il processo ordinario di cognizione di competenza del tribunale è il processo in cui il principio della disponibilità delle prove trova maggiore attuazione, ma anche numerose deroghe consistenti nell'attribuzione al giudice di poteri istruttori d'ufficio, si pensi: all'ispezione che può essere disposta d'ufficio, ove indispensabile; al potere del giudice di deferire giuramento suppletorio o estimatorio, al potere del giudice di rivolgere al testimone “tutte le domande che ritiene utili a chiarire i fatti” su cui il teste è chiamato a deporre, al potere di disporre d'ufficio la consulenza tecnica, al potere di disporre in qualunque stato e grado del processo l'interrogatorio libero delle parti
- Nel processo ordinario di cognizione di competenza del pretore e del giudice di pace poi il principio della disponibilità delle prove subisce una ulteriore deroga: l'art. 312 dispone infatti che il pretore o il giudice di pace può disporre d'ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità.
3) Nel processo del lavoro l'art. 421, ribalta il principio della disponibilità delle prove consentendo al giudice di disporre in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova.
LA TESTIMONIANZA
La testimonianza è la narrazione dei fatti della causa fatta al giudice da soggetti che non sono parti del processo e che quindi per questo motivo sono attendibili. La legge lascia al giudice la più ampia libertà di apprezzamento della prova testimoniale e ne subordina l’ammissibilità a dei limiti abbastanza gravi infatti essa non è ammessa
- per la prova di atti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam
2) sul fatto che il contratto abbia valore superiore a 5000 lire tranne che l’autorità giudiziaria non la consenta tenuto conto della qualità delle parti ,della natura del contratto ,e di ogni circostanza
- sul fatto che anteriormente o contemporaneamente alla redazione di un documento vi siano stati patti aggiunti o contrari al contenuto del documento. Se invece tali patti fossero stati stipulati dopo la redazione del documento l’autorità giudiziaria può ammettere la prova per testi solo se avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali.
L’ART 2724 c.c. dispone tuttavia che la prova per testi è comunque ammessa
1) quando vi è un principio di prova per iscritto
2) quando il contraente era nell’impossibilità morale e materiale di procurarsi una prova scritta
3) quando il contraente ha senza sua colpa perso il documento che gli forniva la prova
La prova per testimoni va dedotta con istanza contenente indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata . L'istanza può essere proposta da ciascuna delle parti ed è consentito alla controparte di opporsi o di aderire alla richiesta indicando altri testimoni da sentire su quei medesimi articoli. Sulle istanze che non possono essere proposte oltre il termine di cui all'art 184 si pronuncia con ordinanza il giudice istruttore il quale può ridurre le liste di testimoni sovrabbondanti ed eliminare i testimoni che non possono essere sentiti per legge. La rinuncia fatta da una parte all'audizione dei testi da essa indicati non ha effetto se le altre non vi aderiscono e se il giudice non vi consente. La legge prevede che i testi hanno il dovere di deporre anche se va detto al riguardo che vi sono dei casi in cui essi possono non deporre o addirittura non devono deporre. Il dovere di deporre si specifica nel dovere di comparire di indicare le proprie generalità di prestare giuramento e di dire la verità. L'assunzione della testimonianza avviene da parte del giudice che interroga i testimoni sui fatti potendo anche rivolgergli tutte le domande che ritiene necessarie e utili per chiarire i fatti medesimi. La qualità di testimone in un giudizio civile può essere assunta solo da chi è terzo rispetto alle parti in causa e non abbia alcun interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio. In particolare l'incapacità a testimoniare si identifica con l'interesse a proporre la domanda o a contraddirvi nello stesso giudizio in cui si è chiamati come teste.
LA CONFESSIONE
La confessione è la dichiarazione fatta dalla parte personalmente o dal suo procuratore speciale, avente ad oggetto la verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte (art.2730c.c.). La confessione ha efficacia di prova legale solo se proviene da persona capace di disporre del diritto oggetto del processo (tali non sono il difensore, il sostituto processuale, l'incapace, il fallito ecc.) e se verte su fatti relativi a diritti disponibili altrimenti è liberamente apprezzata dal giudice. In caso di litisconsorzio necessario poi la confessione resa solo da alcuni dei litisconsorti è liberamente apprezzata dal giudice. Nell'ipotesi in cui alla dichiarazione confessoria si accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti a infirmare l'efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o estinguerne gli effetti vige il principio della inscindibilità della dichiarazione: la dichiarazione ha efficacia di prova legale nella sua integrità se l'altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte altrimenti, in caso di contestazione, la dichiarazione è per intero rimessa al prudente apprezzamento del giudice.
La confessione può essere
1) giudiziale se è resa in giudizio. Essa che può essere o spontanea se contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, o provocata mediante interrogatorio formale forma piena prova contro colui che l’ha fatta purchè non verta su diritti indisponibili.
- stragiudiziale se fatta fuori del giudizio. Occorre rilevare che la confessione stragiudiziale se è fatta alla parte o a chi la rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale. Se è fatta a un terzo o se è contenuta in un testamento è liberamente apprezzata dal giudice. In ogni caso va chiarito che la confessione stragiudiziale deve essere provata nel processo
Occorre precisare che la confessione si distingue dall’ammissione perché quest’ultima non ha efficacia di prova legale in quanto
- può essere rilasciata dalla parte in sede di interrogatorio libero
- può provenire da persona che non sia capace di disporre del diritto a cui si riferiscono i fatti dichiarati
- può riguardare fatti relativi a diritti indisponibili
4) può essere liberamente ritirata
Per concludere va detto che le ammissioni pongono il fatto ammesso fuori del tema probandum se si tratta di processi relativi a diritti disponibili mentre se si tratta di processi relativi a diritti indisponibili esse costituiscono argomenti di prova se effettuate in sede di interrogatorio libero oppure prove liberamente valutabili dal giudice negli altri casi.
IL GIURAMENTO
Anche il giuramento come la confessione è una dichiarazione proveniente da una delle parti sulla verità dei fatti della causa. Esso tuttavia si differenzia dalla confessione sia perché ha efficacia probatoria solo se reso in giudizio sia perché proviene dalla parte a cui i fatti dichiarati non nuocciono come nella confessione bensì giovano. La legge distingue due tipi di giuramento
- il giuramento decisorio che è quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione parziale o totale della causa
2) il giuramento suppletorio che è quello deferito d’ufficio dal giudice a una delle parti al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non siano pienamente provate ma non del tutto sfornite di prova ovvero quello che è deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata se non si può accertarlo altrimenti (c.d. giuramento estimatorio)
Il giuramento ha un’efficacia di prova legale particolarmente intensa infatti il giudice deve dichiarare senz’altro vittoriosa la parte che ha giurato e soccombente l’altra parte che non può essere ammessa a provare il contrario di quanto è stato giurato neppure quando il giuramento venga riconosciuto o dichiarato falso potendosi in tal caso ottenere solo il risarcimento. Oggetto del giuramento possono essere solo fatti rilevanti in maniera decisiva per l’esito del giudizio. In ogni caso va detto che deve trattarsi di fatti che siano propri della parte a cui è stato deferito (giuramento de veritate) ovvero della conoscenza che essa ha di un fatto altrui (giuramento de scientia o de notizia). La parte a cui è stato deferito il giuramento può a sua volta riferirlo all’avversario fino a quando la stessa non abbia dichiarato di essere pronta a giurare a condizione però che il fatto oggetto di giuramento sia comune ad entrambe. Occorre rilevare che il giuramento decisorio che può essere deferito dalla parte personalmente o da un suo procuratore munito di mandato speciale in qualunque stato della causa non è tuttavia consentito:
1) se si tratta di cause relative a diritti indisponibili
- se attiene ad un fatto illecito o ad un fatto per cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam
3) per negare un fatto risultante da atto pubblico
Per concludere va chiarito che a differenza della confessione non è prevista la possibilità di revoca del giuramento ma solo la possibilità di revoca del deferimento o del riferimento, che al pari della confessione in caso di litisconsorzio necessario il giuramento prestato solo da alcuni dei litisconsorti è liberamente apprezzato dal giudice ed infine che il giuramento suppletorio può essere deferito solo dal collegio e non può essere a sua volta riferito.
L’ISPEZIONE GIUDIZIALE
L’ispezione giudiziale (art 118) è un mezzo di prova che il giudice può esperire d’ufficio e precisamente lo strumento con il quale si acquisisce l’efficacia probatoria di cose, luoghi, o corpi di persone ossia di oggetti che non essendo acquisibili al processo come documenti possono essere fatti solo materia di osservazione in modo così da acquisire al processo il risultato di tale osservazione. L’ordine di consentire l’ispezione può essere rivolto dal G.I. alle parti e ai terzi purchè per gli stessi non né consegua grave danno. Se la parte rifiuta senza giustificato motivo il suo comportamento può dar luogo ad argomento di prova mentre se sia il terzo a rifiutare il giudice lo condanna ad una pena pecuniaria. L’osservazione dell’oggetto da ispezionare fatta dal giudice personalmente eventualmente assistito da un consulente viene documentata in un processo verbale che viene acquisito al processo. Il G.I. può inoltre ordinare ai sensi degli art 261 e 262 c.p.c.
a) che siano eseguiti rilievi, calchi e riproduzioni anche fotografiche di oggetti, luoghi, e documenti, nonché quando occorre rilevazioni cinematografiche o altre che richiedano l’impiego di mezzi o strumenti meccanici
- che sia eseguito un esperimento giudiziale cioè la riproduzione dinamica di un fatto per accertare se sia o possa essersi verificato in un dato modo facendone eventualmente eseguire la rilevazione fotografica o cinematografica
c) che siano sentiti testimoni per informazioni senza le restrizioni proprie della prova testimoniale
d) che sia disposto l’accesso in luoghi appartenenti a terzi e che questi siano eventualmente sentiti osservate naturalmente le opportune cautele al riguardo
LA PROVA DOCUMENTALE
Per documento si intende ogni oggetto materiale idoneo a rappresentare o a dare conoscenza di un fatto. Particolarmente rilevanti alla funzione dei documenti sono
- il loro contenuto cioè i fatti o le dichiarazioni in essi espressi
- la loro provenienza cioè il fatto che le asserzioni contenute negli stessi siano state espresse proprio dagli autori di essi
L’ATTO PUBBLICO
L'atto pubblico è il documento redatto, con le prescritte formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato. Esso fa piena prova fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Quanto alle dichiarazioni, si suole dire che l'efficacia di prova fino a querela di falso copre l'estrinseco e non l'intrinseco delle dichiarazioni stesse. Le dichiarazioni rappresentate dall'atto pubblico potranno essere:
- Dichiarazioni di volontà ed in tal caso dire che l'atto pubblico copre solo l'estrinseco, e non l'intrinseco, significa dire che l'efficacia di prova fino a querela di falso concerne solo il fatto che la dichiarazione di volontà sia stata resa ma ciò non esclude ad es che la dichiarazione sia simulata o viziata da dolo o errore
b) Dichiarazioni di scienza ed in questo caso dire che l'atto pubblico copre solo l'estrinseco e non l'intrinseco delle dichiarazioni di scienza significa dire che l'efficacia di prova fino a querela di falso concerne solo il fatto che la dichiarazione di scienza sia stata resa, ma non anche che essa sia vera
Occorre rilevare che se la dichiarazione di scienza contenuta nell’atto pubblico appartiene ad un terzo essa non può avere alcuna efficacia probatoria nel processo dato che tali dichiarazioni in tanto possono essere utilizzate nel processo in quanto siano rese a seguito di prova testimoniale nel processo stesso o in casi eccezionali a futura memoria.
LA SCRITTURA PRIVATA
La scrittura privata è un documento che fa piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta (art 2702 c.c.). Anche in questo caso l’efficacia di prova legale è limitata all’estrinseco data la precisazione che tale efficacia riguarda la provenienza della dichiarazione. Per quanto riguarda l’intrinseco invece il giudice può valutarlo in piena libertà. Dal riferimento al riconoscimento deriva poi che tale efficacia probatoria sussiste solo in quanto la scrittura provenga non da un terzo ma da una delle parti e precisamente da quella contro cui la scrittura è prodotta. In mancanza di riconoscimento espresso la legge fa ricorso a due situazioni che possono equipararsi ad esso e cioè
1) al riconoscimento tacito che si ha quando la parte contro cui la scrittura è prodotta non la disconosce o trattandosi di scrittura del suo dante causa non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione nonché quando la parte sia contumace salvo il caso di disconoscimento tardivo a seguito di costituzione tardiva
2) all’autenticazione della sottoscrizione che si ha quando un notaio o un altro P.U. a ciò autorizzato previo accertamento dell’identità della persona che sottoscrive attesti che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza
In caso di disconoscimento la legge consente alla parte che ha prodotto lo scritto due alternative e cioè rinunciare ad avvalersi dello scritto disconosciuto oppure insistere sulla provenienza instaurando il giudizio di verificazione che può essere proposto in via principale o in via incidentale ai sensi dell’art 216. Se l’esito del giudizio sia affermativo la scrittura vale come riconosciuta e il disconoscente può essere condannato con la sentenza ad una pena pecuniaria. Sull’istanza di verificazione si pronuncia sempre il collegio. Per concludere va ricordato che l’indicazione della data non costituisce elemento essenziale della scrittura privata dato che la legge lascia alle parti la più ampia autonomia nel provare il momento della documentazione e al giudice altrettanta autonomia nella relativa valutazione. Qualora però si voglia opporre la scrittura privata ai terzi va detto che solo quella autenticata è idonea a dare prova legale anche della data. Se invece la scrittura è solo riconosciuta o accertata giudizialmente la data è opponibile ai terzi solo quando concorrono altri fattori idonei a dare certezza come ad. Es. una registrazione, la sopravvenuta morte o impossibilità del sottoscrittore ecc. ecc.
GLI ALTRI DOCUMENTI
1) Per quanto riguarda i telegrammi va detto che la legge stabilisce da un lato che essi hanno la stessa efficacia probatoria della scrittura privata quando l’originale sia sottoscritto ovvero consegnato o fatto consegnare dal mittente anche senza sottoscriverlo e dall’altro che nel caso in cui sia stata consegnata una copia essa si presume conforme all’originale salvo prova contraria.
2) per quanto riguarda le carte e i registri domestici va detto che essi possono far prova contro chi li ha sottoscritti quando enunciano espressamente un pagamento o quando contengono espressa menzione che l’annotazione è stata fatta per supplire alla mancanza di titolo di chi è indicato come creditore. Si tratta comunque di semplici elementi di prova libera.
3) per quanto riguarda le scritture contabili degli imprenditori va detto che esse hanno efficacia di prova libera contro l’imprenditore che le tiene ma colui che vuole trarne vantaggio non può scinderne il contenuto e che nelle controversie tra imprenditori possono far prova anche a favore dell’imprenditore. Le fatture invece essendo di regola non sottoscritte possono fornire solo indizi
- per quanto riguarda le copie degli atti pubblici e delle scritture private depositate presso pubblici uffici e spedite da pubblici depositari va detto che esse hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale tranne il caso in cui essendosi perso quest’ultimo la copia presenti cancellature, abrasioni ecc. In questo caso infatti le copie sono liberamente apprezzate dal giudice
5) per quanto riguarda le copie fotografiche o fotostatiche o trasmesse via fax va detto che esse hanno la stessa efficacia delle copie autentiche se la loro conformità con l’originale è attestata da P.U. ovvero se non è espressamente disconosciuta
6) per concludere va infine detto che le riproduzioni fotografiche e cinematografiche, le registrazioni fonografiche e in genere ogni altra riproduzione meccanica di fatti o cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale sono prodotte non né disconosce la conformità ai fatti e alle cose medesime.
LA FALSITA’ DEI DOCUMENTI
L’efficacia probatoria dei documenti presuppone che essi siano autentici sotto il profilo estrinseco e veritieri sotto il profilo intrinseco cioè che non siano falsi. Vi sono due tipi di falsità
- la falsità materiale che concerne la contraffazione del documento e riguarda la provenienza del documento dal P.U o dal sottoscrittore.
- la falsità ideologica che presuppone che il documento sia stato redatto dal pubblico ufficiale e concerne la non veridicità di quanto da questi attestato
Vi sono due modi con i quali la falsità dei documenti viene in rilievo nel processo civile
1) il giudizio di verificazione della scrittura privata che consente di accertare solo la falsità della provenienza della sottoscrizione o della scrittura dal suo autore e quindi una falsità materiale
2) la querela di falso che consente di accertare sia la falsità materiale e ideologica di un atto pubblico sia la sola falsità materiale di una scrittura privata riconosciuta, autenticata, o verificata dato che in questo caso non è ipotizzabile un falso ideologico in quanto la non veridicità della dichiarazione da luogo alla simulazione.
Da quanto detto ne deriva che a differenza del giudizio di verificazione quello sulla querela di falso oltre ad avere efficacia erga omnes è il solo strumento per contestare le risultanze estrinseche dell’atto pubblico o della scrittura privata riconosciuta, autenticata, o verificata. Tale giudizio può essere proposto sia in via principale che in via incidentale da colui contro il quale si vuol far valere il documento in ogni stato e grado del giudizio finchè la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato. La querela deve contenere a pena di nullità l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità. Sulla querela di falso che appartiene alla competenza per materia del tribunale si pronuncia sempre il collegio con sentenza. Se la sentenza accoglie la domanda la sua esecuzione non può aver luogo se non dopo il suo passaggio in giudicato mentre in caso contrario il giudice ordina la restituzione del documento disponendo che di essa venga fatta menzione sull’originale del documento e condannando il querelante ad una pena pecuniaria.
LE PRESUNZIONI
Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato. Esse si distinguono in
1) presunzioni iuris tantum che sono quelle previste dalla legge ma contro le quali è ammessa prova contraria
2) presunzioni iuris et de iure che sono quelle previste dalla legge che non ammettono prova contraria
3) presunzioni semplici che sono quelle che non sono stabilite dalla legge ma sono lasciate alla prudenza del giudice il quale tuttavia deve ammettere solo le presunzioni gravi, precise e concordanti. In ogni caso va chiarito che le presunzioni semplici non sono ammesse nei casi in cui la legge esclude la prova per testi.
LA CONSULENZA TECNICA
La consulenza tecnica non è un mezzo di prova dato che la sua funzione non consiste nel determinare il convincimento del giudice circa la verità o non verità dei fatti ma nell’offrire al giudice l’ausilio di cognizioni tecniche che egli di solito non possiede. Il C.T. infatti è un ausiliario del giudice appunto perché integra la sua attività offrendogli quelle cognizioni tecniche che sono in funzione del giudizio. In particolare il consulente integra innanzitutto l’attività del G.I. sia perché opera genericamente nell’ambito della fase istruttoria e sotto le direttive del G.I. sia perché può fornire elementi per orientare l’ulteriore svolgimento dell’attività istruttoria(si pensi ad es. al caso in cui il G.I. si avvalga del consulente per sapere se i sintomi di una malattia che già conosce in forza di prove documentali consentano di desumere che la malattia stessa sia o non sia conseguenza di un sinistro stradale dovuto a colpa). Spetta al giudice stabilire se e in che limiti gli occorre l’aiuto del consulente e di indicare e delimitarne il compito con la formulazione dei cosiddetti quesiti. Trattandosi di attività integrativa di quella del giudice la consulenza può essere disposta d’ufficio anche se nulla impedisce alle parti di richiederla e di sollecitarla fino a suggerire il testo di eventuali quesiti. La nomina del C.T è compiuta dal giudice con ordinanza con la quale viene fissata anche l’udienza di comparizione che viene notificata dal cancelliere insieme all’invito a comparire. Il consulente salvo i casi di rifiuto o di astensione deve comparire all’udienza e deve prestare giuramento di adempiere bene e fedelmente all’incarico al solo scopo di far conoscere ai giudici la verità. Il consulente assiste alle udienze alle quali è invitato, compie da solo o insieme al giudice anche fuori della circoscrizione giudiziaria le indagini di cui all’art 62, può essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi e ad eseguire piante, calchi e rilievi. Allo svolgimento di queste attività che devono avvenire nel rispetto delle esigenze del contraddittorio possono assistere le parti sia personalmente sia a mezzo dei loro difensori o consulenti di parte nominati entro il termine fissato dall’istruttore con l’ordinanza che dispone la nomina del C.T.U. Tali consulenti di parte possono redigere memorie ed osservazioni ed intervenire alle udienze insieme con il C.T.U. Occorre rilevare che se le indagini del C.T.U sono compiute davanti all’istruttore se ne redige processo verbale altrimenti esse si concretano in una relazione scritta che viene depositata in cancelleria e nella quale vanno inserite anche le istanze e le osservazioni compiute dalle parti o dai loro consulenti. Il consulente può anche partecipare su invito del presidente alle udienze davanti al collegio ed esprimere il suo parere anche in camera di consiglio. In definitiva si può dire che l’attività del consulente serve per integrare l’attività del giudice sia perché può offrire elementi per valutare le risultanze di determinate prove (ad es. viene chiesto al consulente se una canzone incisa su un certo disco è cantata da un certo cantante) sia perché può offrire elementi diretti di giudizio (ad es. viene chiesto al consulente se un certo edificio presenta o no pericolo di crollo). Per concludere va ricordato che sono figure particolari di consulenti ad es. l’interprete, il traduttore, gli esperti di determinate arti o professioni, ordinamenti stranieri o infine quello che effettua l’esame contabile al quale la legge attribuisce determinati poteri.
LE IMPUGNAZIONI
I mezzi d'impugnazione costituiscono il rimedio tipico per controllare la validità e la giustizia delle sentenze. Essi costituiscono uno sviluppo del diritto di azione e del diritto di difesa garantiti dall'art. 24 Cost. Come il diritto d'azione mira ad ottenere un provvedimento di merito che statuisca sulla esistenza o sull'inesistenza del diritto fatto valere in giudizio dall'attore, così i mezzi di impugnazione mirano non solo ad eliminare (a rescindere, a cassare) la sentenza invalida o ingiusta, ma anche a sostituirla con altra che si pronunci sulla esistenza o no del diritto azionato dall'attore con la sola eccezione delle ipotesi in cui, alla presenza del difetto di un requisito extraformale insanabile, il processo deve chiudersi con una pronuncia di rito.
Sul piano tecnico giuridico i mezzi di impugnazione elencati dall'art. 323 (appello, ricorso per cassazione, revocazione, opposizione di terzo, regolamento di competenza su istanza di parte) si caratterizzano per i seguenti motivi:
- a differenza della domanda giudiziale, si dirigono contro un provvedimento del giudice;
- il provvedimento del giudice verso cui si dirigono è la sentenza, non l'ordinanza; tuttavia nel caso in cui il giudice abbia erroneamente attribuito la forma dell'ordinanza ad un provvedimento che, doveva avere la forma della sentenza, essa sarà soggetta ad impugnazione solo se abbia definito il giudizio
- legittimati ad impugnare sono normalmente solo coloro che hanno assunto la qualità di parte nel grado di giudizio conclusosi con la sentenza che si intende impugnare; eccezionali infatti sono le ipotesi in cui legittimato ad impugnare è un terzo o il pubblico ministero che non abbia partecipato al giudizio
d) la legittimazione (o l'interesse) ad impugnare deriva dalla soccombenza pratica, cioè dall'essere rimasto totalmente o parzialmente soccombente rispetto alla domanda. In casi eccezionali e cioè nelle impugnazioni immediate avverso sentenze non definitive su questioni e nel regolamento necessario di competenza rileva tuttavia anche la soccombenza teorica cioè l'essere rimasto soccombente rispetto ad una questione.
Alla stregua di questi chiarimenti, i mezzi d'impugnazione possono essere definiti come i rimedi spettanti alla parte soccombente contro i provvedimenti del giudice che abbiano la forma della sentenza, e diretti normalmente a sostituire la sentenza impugnata con altra sentenza che si pronunci sul merito della controversia (con la sola eccezione del regolamento di competenza).
CLASSIFICAZIONE
Le impugnazioni vengono classificate e distinte secondo diversi criteri
1) Una prima distinzione è fondata sulla ragione dell’impugnazione ossia su ciò che si lamenta nel provvedimento impugnato. Premesso che un provvedimento può essere affetto da un vizio di attività o cd. error in procedendo se si assuma violata una norma processuale ovvero da un vizio di giudizio o cd. error in iudicando se si assuma violata una norma sostanziale o un criterio di giudizio o se si ritenga ingiusto il provvedimento la dottrina distingue tra
- mezzi di gravame che sono le impugnazioni che investono il provvedimento nella sua giustizia es. tipico l’appello
- rimedi di legalità o impugnazioni in senso stretto che investono i vizi del provvedimento
Altri distinguono poi tra
1) mezzi a motivi illimitati o cd a critica libera che sono i rimedi concessi per far valere oltre che i vizi anche la semplice ingiustizia (solo l’appello)
2) mezzi a motivi limitati o cd. a critica vincolata che sono i rimedi concessi per valere solo i vizi (ricorso in cassazione, revocazione)
Occorre rilevare che gli error in procedendo (vizi di attività) che per la loro gravità danno luogo direttamente o indirettamente alla nullità della sentenza possono essere fatti valere solo con l’appello o se si tratta di sentenza di 2° grado con il ricorso in cassazione (cd. assorbimento dei vizi di nullità nei motivi di gravame ex art 161)
Una seconda distinzione riguarda l’attitudine a determinare la cosa giudicata. A tal fine si distingue tra
a) mezzi di impugnazione ordinaria che sono quelli che impediscono il passaggio in giudicato della sentenza (appello, ricorso, regolamento, revocazione ex art 395 n 4 e 5)
b) mezzi di impugnazione straordinaria che sono quelli che non impediscono il passaggio in giudicato della sentenza (revocazione straordinaria ,opposizione di terzo)
Altra distinzione è quella fondata sul fatto che nei mezzi concessi per far valere un vizio la fase di annullamento della sentenza viziata (cd. fase rescindente) si svolge anteriormente e autonomamente da quella della pronuncia di una nuova sentenza destinata a sostituire la prima (cd. fase rescissoria). Al riguardo infatti si distingue tra
1) mezzi rescindenti che sono quelli in cui il giudice deve limitarsi ad annullare la sentenza rinviando la decisione al primo giudice (ricorso per difetto di giurisdizione)
2) mezzi rescissori che sono quelli dove il giudice deve non solo annullare il provvedimento viziato ma anche sostituirlo con il provvedimento corretto
Ultima distinzione è quella che si fonda sul giudice dell’impugnazione. Al riguardo si distingue tra
a) mezzi di impugnazione in cui il giudice è lo stesso che ha pronunciato il provvedimento impugnato (revocazione, opposizione di terzo)
b) mezzi di impugnazione in cui il giudice è diverso da quello che ha pronunciato la sentenza impugnata (appello, ricorso per cassazione).
I TERMINI
I mezzi di impugnazione sono soggetti ad un termine perentorio scaduto il quale vi è la decadenza dell’impugnazione e il conseguente passaggio in giudicato della sentenza. Al riguardo bisogna distinguere tra mezzi di impugnazione ordinari e straordinari
1) il termine per i mezzi di impugnazione ordinari è di 30 giorni per l’appello, regolamento di competenza e revocazione, ordinaria mentre e di 60 giorni per il ricorso in cassazione e per la revocazione contro le sentenze della cassazione. Tale termine decorre dalla notificazione della sentenza al procuratore costituito. In mancanza di tale notificazione il termine che in questo caso è di un anno comincia a decorrere dalla pubblicazione della sentenza ma non si applica al contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione o per nullità della notificazione di quegli atti che ex art 292 vanno notificati personalmente al contumace.
2) il termine per i mezzi di impugnazione straordinaria è di 30 giorni decorrenti dal giorno in cui si ha conoscenza del vizio eccezion fatta per l’opposizione di terzo ordinaria la quale non è soggetta ad alcun termine. Non vi è dunque termine lungo per essi.
LA DIRETTIVA DELL’UNITA’ OGGETTIVA E SOGGETTIVA DEL PROCEDIMENTO DI IMPUGNAZIONE
Gli articoli da 331 a 335 del codice enunciano la direttiva dell'unità oggettiva e soggettiva del processo d'impugnazione la quale mira a realizzare l’identità soggettiva ed oggettiva tra il procedimento d'impugnazione e quello impugnato.
Al riguardo occorre distinguere a seconda che il processo di primo grado sia svolto tra due o più parti.
GIUDIZIO DI PRIMO GRADO TRA DUE PARTI
1) Nel primo caso va detto che il problema si pone solo quando a conclusione del giudizio di primo grado, si verifichi un fenomeno di soccombenza ripartita dato che in questo caso, entrambi i soggetti sono legittimati ad impugnare, e l'iniziativa può essere presa sia dall'una sia dall'altra parte. Il nostro ordinamento risolve il problema della soccombenza ripartita all'art. 333 c.p.c., attraverso la distinzione fra impugnazione principale e impugnazione incidentale. Il legislatore infatti definisce come principale l’impugnazione proposta per prima, e come incidentale quella proposta successivamente. Ai sensi dell’art 343, 1° comma l'appello incidentale si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all'atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell'articolo 166 cioè, almeno venti giorni prima dell'udienza (Nel rito del lavoro nella memoria di costituzione, da notificarsi, a cura dell'appellato, alla controparte almeno dieci giorni prima dell'udienza). Se nonostante le prescrizioni di legge, avverso la stessa sentenza, siano proposti due appelli in forma principale (si pensi ad es al caso in cui le parti si attivino entrambe l'ultimo giorno del termine annuale di decadenza) l’art 335,prevede che tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite anche d'ufficio in un solo processo e qualora ciò non avvenga la giurisprudenza, ritiene che la decisione di merito intervenuta su uno dei due appelli, principali, rende improcedibile l'altro giudizio di appello ancora pendente. Il discorso svolto fino ad ora concerne unicamente l'impugnazione incidentale cd. tempestiva. L'art. 334 considera invece una sottospecie di impugnazione incidentale che qualifica come impugnazione incidentale tardiva disponendo che le parti, contro le quali è stata proposta impugnazione e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell’art 331 (SOLO QUESTE = LIMITE SOGGETTIVO) possono proporre impugnazione incidentale anche quando per esse sono decorsi i termini di cui agli art 325 e 327 o hanno fatto acquiescenza alla sentenza. Il legislatore ha effettuato questa scelta allo scopo di favorire l'accettazione della sentenza da parte di colui che sia parzialmente soccombente dandogli la sicurezza di conservare il potere d'impugnazione a seguito dell’impugnazione principale proposta dall’altra parte. Per concludere va chiarito che l'impugnazione incidentale tardiva, a differenza di quella tempestiva è condizionata dall’ammissibilità (non dalla procedibilità) della impugnazione principale e che essa non incontra alcuna limitazione di carattere oggettivo essendo possibile anche in caso di connessione meramente soggettiva (non deve cioè riguardare necessariamente lo stesso capo o un capo connesso dell’impugnazione principale).
L'acquiescenza
L'istituto della acquiescenza è regolato dall'art. 329 del codice di procedura civile, il quale recita:“Salvi i casi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'art 395 l'acquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge ne esclude la proponibilità. L'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate che non siano da essa dipendenti (c.d. acquiescienza qualificata). Da quanto detto ne deriva di conseguenza che quando si verifica un fenomeno di acquiescenza, l'impugnazione si intende esclusa (mentre una impugnazione è preclusa quando sono decorsi i termini per impugnare).L'acquiescenza consiste in una dichiarazione di accettazione espressa della sentenza (cd acquiescenza esplicita) ma può risultare anche da comportamenti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni (cd acquiescenza tacita)
GIUDIZIO DI PRIMO GRADO TRA PIU’ PARTI
Il legislatore distingue negli art. 331 e 332 le ipotesi di giudizio di primo grado svoltosi con pluralità di parti in due categorie,a seconda che la causa cui abbiano partecipato sia da qualificare come inscindibile ovvero come scindibile.
1) per le cause inscindibili l’art 331 recita che “Se la sentenza pronunciata fra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro il quale la notificazione deve essere fatta e, se è necessario, l'udienza di comparizione. L'impugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti provvede all'integrazione nel termine fissato”. Da quanto detto ne deriva che il vizio deve essere rilevato dal giudice, nella prima udienza di trattazione e che se il contraddittorio è integrato, il vizio originario viene sanato con efficacia ex tunc ed il processo prosegue; altrimenti il giudice, dichiara inammissibile l’impugnazione. Come è facile intuire da questa disposizione si desume che la notificazione dell'impugnazione fatta solo ad alcune delle parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, impedisce il passaggio in giudicato della sentenza stessa, quando ad essa segua l'integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice, con conseguente conservazione del potere di impugnare anche nei confronti delle altre parti .
- per le cause scindibili l’art 332 detta che se l'impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata proposta soltanto da alcune delle parti o nei confronti di alcuna di esse, il giudice ne ordina la notificazione alle altre, in confronto delle quali l'impugnazione non è preclusa o esclusa, fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e, se è necessario l'udienza di comparizione. Se la notificazione ordinata dal giudice non avviene il processo rimane sospeso fino a che non siano decorsi i termini di cui agli art 325 e 327. Come è facile intuire, a differenza di quanto previsto per il caso di cause inscindibili, in questo caso per un verso, nei confronti delle altre parti non va proposta impugnazione, ma solo notificata l'impugnazione già proposta con funzione di provocatio ad impugnandum, e per altro verso, la notificazione va effettuata solo a quelle parti rispetto alle quali il potere di impugnazione non è precluso o escluso.
In definitiva mentre l'art. 331 mira ad assicurare la partecipazione al giudizio di impugnazione di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado e non consente in alcun modo che il giudizio di impugnazione si svolga solo nei confronti di alcune di esse, l’art 332 mira unicamente ad evitare che il giudizio di primo grado svoltosi fra più parti possa biforcarsi in sede di impugnazione in due giudizi separati; ma, una volta eliminato questo rischio a seguito del passaggio in giudicato della sentenza nei confronti di alcune di esse le restanti parti possono tranquillamente impugnare senza incorrere in alcuna conseguenza. Occorre rilevare che riguardo al campo di applicazione dell'art. 331 e dell'art. 332 vi sono specie in giurisprudenza notevoli incertezze. Generalmente si ritiene che rientrano nell’ambito dell’art 331 le ipotesi di
a)LITISCONSORZIO NECESSARIO
- CUMULO NECESSARIO
- INTERVENTO ADESIVO DIPENDENTE
d) CHIAMATA IN CAUSA EX ATR 106 E 107( solo garanzia propria secondo la giurisprudenza)
e) CONNESSIONE PER PREGIUDIZIALITA DIPENDENZA
Mentre rientrano nell’ambito dell’art 332 le ipotesi di
a) LITISCONSORZIO FACOLTATIVO IMPROPRIO
b) CONNESSIONE PER IL TITOLO
c) GARANZIA IMPROPRIA
REGIME DI IMPUGNAZIONE DELLE SENTENZE NON DEFINITIVE
Il codice disciplina il regime di impugnazione delle sentenze non definitive in due articoli 340 e 361 c.p.c. a seconda che esse siano emanate in primo grado o in appello. Poiché si tratta di articoli formulati in modo pressoché identico per semplicità si può fare riferimento ad uno solo di essi. L'art. 340 c.p.c. dispone che: contro le sentenze previste dagli artt. 278 e 279, 2° comma, n° 4 (sentenze di condanna generica e provvisionale e non definitive in genere), l'appello può essere differito qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e in ogni caso, non oltre la prima udienza davanti al giudice istruttore successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Da quanto detto ne deriva che la regola generale in tema di impugnazione di sentenze non definitive è la loro impugnabilità immediata per cui decorsi i termini per appellare si determina il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva e si verifica una preclusione da giudicato interno sulla questione da essa risolta. Oltre a questo regime generale, il legislatore ne ha previsto uno eccezionale disponendo che la parte soccombente può fare riserva di impugnazione entro i termini per appellare e comunque non oltre la prima udienza che si sia svolta davanti al giudice istruttore per la prosecuzione del processo. Una volta effettuata tale riserva, è possibile impugnare la sentenza non definitiva unitamente all'impugnazione contro la sentenza che definisce il giudizio o con quella che venga proposta, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva non definitiva. L'ultimo comma dell'art. 340 precisa poi che non può più farsi riserva, e se già fatta essa rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da altre parti sia proposto immediatamente appello. Da questo particolare regime emerge che per individuare la parte legittimata ad impugnare la sentenza non definitiva, solo in ipotesi residuali si farà ricorso al criterio di soccombenza pratica mentre di solito si farà ricorso al concetto di soccombenza teorica, si farà, cioè, riferimento al modo in cui è stata risolta la questione nella sentenza non definitiva. Questo regime eccezionale pone gravi e delicati problemi di coordinamento tra lo svolgimento del processo nel cui corso è emanata la sentenza non definitiva e lo svolgimento del giudizio di impugnazione immediata della sentenza stessa. Tali problemi possono essere raccolti in tre categorie:
A) Effetti della proposizione dell'impugnazione immediata
B)Effetti dell'accoglimento dell'impugnazione immediata
C) Effetti dell'estinzione del giudizio nel corso del quale è stata emanata la sentenza non definitiva
1) per quanto riguarda gli effetti della proposizione dell'impugnazione immediata va detto che per evitare che venga proposto appello immediato al solo scopo di ottenere la sospensione del giudizio di primo grado l’art 279, 4 comma lascia al giudice istruttore a seguito di concorde richiesta delle parti la facoltà di sospendere l’istruttoria sino alla definizione del giudizio di appello (la sospensione quindi non è obbligatoria). Nel caso in cui venga disposta la sospensione va detto che
a) Se il giudizio di appello si conclude con una sentenza di conferma della sentenza non definitiva il giudizio di primo grado sospeso deve riattivarsi nei modi indicati dall'art. 125-bis disp. att. senza dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza d'appello di conferma.
b) Se invece il giudizio d'appello si conclude con la riforma della sentenza non definitiva sorgono gravi e delicati problemi circa le sorti del giudizio di primo grado nel periodo intermedio tra la pubblicazione della sentenza d'appello di riforma e il suo passaggio in giudicato. In ogni caso va detto che qualora la sentenza d'appello di riforma passi in giudicato non è necessaria alcuna riattivazione del processo di primo grado, perché la sentenza d'appello di riforma è decisione definitiva di rigetto della domanda.
2) per quanto riguarda gli effetti dell'accoglimento dell'impugnazione immediata va detto che malgrado l’art 336 disponga che la sentenza d’appello di riforma estende i suoi effetti agli atti o provvedimenti dipendenti dalla sentenza di primo grado riformata dal giorno della pubblicazione a nostro modo di vedere è preferibile ritenere che gli effetti della sentenza d'appello di riforma della sentenza di primo grado non definitiva si producono solo in seguito al suo passaggio in giudicato dato che l’art 129-bis disp. att., prevedendo la possibilità di sospensione del giudizio di primo grado a seguito di ricorso per cassazione proposto contro la sentenza d'appello di riforma della sentenza di primo grado non definitiva lascia intendere in modo inequivoco che la sentenza d’appello di riforma non produce la immediata caducazione degli atti e dei provvedimenti dipendenti dalla sentenza di primo grado riformata
- per quanto riguarda infine gli effetti dell’estinzione del giudizio nel corso del quale è stata emanata la sentenza non definitiva va detto che poiché ai sensi dell’art 310 la sentenza non definitiva di merito sopravvive all’estinzione del giudizio nel caso in cui si verifichi l’estinzione del giudizio di primo grado dopo che sia stata fatta riserva di impugnazione dalla parte teoricamente soccombente, l’art 129, ult. comma, disp. att. dispone che “Se il processo si estingue in primo grado, la sentenza di merito contro la quale fu fatta la riserva acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui diventa irrevocabile l'ordinanza, o passa in giudicato la sentenza, che pronuncia l'estinzione del processo.” Da questa data decorrono i termini per impugnare ex art 325 e 327. Occorre rilevare che il legislatore prende in considerazione solo le sentenze non definitive di merito, le uniche cioè aventi attitudine ad acquistare una efficacia che sopravviva all'estinzione del processo e rispetto alle quali vi è interesse ad impugnare.
L’APPELLO
L'appello è il mezzo d'impugnazione che realizza, sia pure in modo tendenziale, il cosiddetto principio del doppio grado di giurisdizione dato che ha la funzione di garantire al soggetto che si ritenga colpito da una sentenza ingiusta ovvero illegittima, il potere di provocarne il controllo da parte di un altro giudice superiore il quale ha meno probabilità di sbagliare potendo valutare i risultati già ottenuti dal primo giudice. Si tratta di un mezzo di impugnazione a motivi illimitati riservato solo a coloro che furono parti in primo grado dato che a differenza del ricorso per cassazione (art. 360) o della revocazione (artt. 395--397), nessuna disposizione del codice indica i motivi dell'appello. Attraverso l'appello infatti denunciato qualsiasi tipo di errore commesso dal giudice di primo grado; sia error in procedendo (vizio di attività), sia error in iudicando (vizio di giudizio).
I giudici d'appello sono individuati dall'art. 341: “l'appello contro le sentenze del pretore e del tribunale si propone rispettivamente al tribunale ed alla corte d’appello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza mentre l'appello contro le sentenze del giudice di pace si propone al tribunale nel cui circondario ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza. Sono sentenze appellabili ai sensi dell’art. 339 tutte le sentenze di primo grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge o dalle parti a norma dell'art. 360, 2 comma. Le parti, infatti di comune accordo(solo dopo l’emanazione della sentenza) possono ricorrere direttamente in Cassazione e saltare l'appello qualora intendano denunciare solo error in iudicando relativi alla erronea o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale, cioè in presenza di una controversia di puro diritto, in aderenza alla funzione i di nomofilachia della Corte. Le altre ipotesi di inappellabilità sono previste direttamente dal legislatore e cioè:
- sentenze pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 114 essendo in tal caso possibile solo il ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione delle norme di legge.
- le sentenze emanate a seguito di controversie individuali di lavoro di valore inferiore alle cinquantamila lire (art. 440);
- sentenze pronunciate in materia di opposizione agli atti esecutivi (art. 618, 20 e 3° comma);
- le sentenze che si sono pronunciate unicamente sulla competenza essendo in questo caso proponibile unicamente di regolamento necessario di competenza davanti alla Corte di cassazione (art. 42);
5) sentenze emanate dal pretore o dal giudice di pace in seguito all’opposizione alla ordinanza erogatrice di sanzioni amministrative etc
L’OGGETTO DELL’APPELLO
L’oggetto del giudizio d’appello si determina attraverso
- l'appello principale
- l'appello incidentale
- la riproposizione di domande e di eccezioni non accolte in 1° grado
- la proposizione di nuove eccezioni o nuove prove,
- le modificazioni della domanda di primo grado
L'appello principale si propone nei termini previsti dalla legge (artt. 325, 326, 327) con un atto di citazione; il quale deve contenere: “l'esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici dell'impugnazione”. L'appellante non può limitarsi a chiedere un generico riesame della controversia svoltasi davanti al giudice di primo grado ma deve indicare le parti della sentenza impugnata, rispetto alle quali vuole provocare un riesame. Per le restanti parti (o capi) non impugnate si determina il passaggio in giudicato ex art. 329, 2 comma, alla stregua del fenomeno della c.d. acquiescenza tacita qualificata (a meno che non si tratti di parti dipendenti). A loro volta, le parti della sentenza impugnata circoscrivono la parte del rapporto sostanziale controverso sulla quale il giudice d'appello potrà e dovrà estendere il suo riesame. L'appellato, se è anch'esso praticamente soccombente, può a sua volta proporre a pena di decadenza appello incidentale nella comparsa di risposta all’atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell’art 166, cioè almeno venti giorni prima della udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione. Nonostante la diversa modalità di proposizione, anche l'appello incidentale, sia tempestivo che tardivo (artt. 333, 334), deve contenere i “motivi specifici della impugnazione”, per consentire, l’individuazione della parte della sentenza impugnata e quindi della parte del rapporto sostanziale controverso sulla quale l'appellato invoca il riesame.
La riproposizione di domande e di eccezioni non accolte in primo grado
L'art. 346 si occupa delle domande e delle eccezioni sulle quali non vi sia stata una parte praticamente soccombente affermando che “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”.
Al riguardo è opportuno chiarire il significato delle espressioni: “domande non accolte ed “eccezioni non accolte”.Per domande non accolte si intendono le domande subordinate su cui il giudice di primo grado, ha omesso legittimamente di pronunciarsi in quanto assorbite. Caratteristica, infatti, della domanda subordinata è l'essere proposta sotto la condizione sospensiva del rigetto della domanda principale: per cui solo ove si verifichi questa condizione sorge per il giudice l'obbligo di esaminarla. Per eccezioni non accolte si intendono sia le eccezioni il cui esame è stato legittimamente omesso in primo grado perché assorbite sia quelle non accolte perché respinte. Da quanto esposto ne deriva che ex art 346 le eccezioni non accolte perché assorbite o rigettate e le domande subordinate assorbite non sono pertanto devolute automaticamente al giudice d'appello ma è necessario un impulso di parte. Poiché ad attivarsi è la parte praticamente vittoriosa, la modalità di riproposizione sarà la comparsa di risposta e si applicheranno le norme previste per il giudizio di primo grado in quanto compatibili.
La proposizione di nuove eccezioni, nuove prove e la modificazione della domanda di primo grado (lo ius novorum)
Le parti così come hanno il potere di limitare l'oggetto del giudizio d'appello rispetto a quello del giudizio di primo grado, allo stesso modo possono, sia pur entro certi limiti, ampliare il thema probandum ed il thema decidendum del giudizio di appello (si tratta del cosiddetto ius novorum previsto all'art. 345). In particolare
- Nel giudizio d'appello, non possono proporsi domande nuove, e, se proposte, il giudice deve dichiararle inammissibili d'ufficio lasciandone tuttavia impregiudicata la riproponibilità in un separato processo (art 345, 1° comma, 1° parte). Per esigenze di economia dei giudizi possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa (art. 345, 1° comma, 2 parte);e secondo la prassi anche la restituzione di quanto corrisposto a seguito di esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado
- Lo ius novorum opera anche sul fronte delle eccezioni dato che “non possono proporsi eccezioni nuove che non siano rilevabili anche d'ufficio” (art. 345, 2 comma);
C) In ordine alle nuove prove il 3° comma dell'art. 345, prevede che “non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può però sempre deferirsi giuramento decisorio”. Occorre rilevare che benchè la disposizione taccia in ordine alla produzione di nuovi documenti in appello tale produzione deve ritenersi consentita dato che poiché il nuovo documento non è stato prodotto in primo grado il giudice d’appello non può sapere a priori se esso sia indispensabile ai fini della decisione. In ogni caso va precisato che è da escludere l'ammissibilità in appello di prove rispetto alle quali la parte, in primo grado, sia stata dichiarata decaduta ai sensi dell'art. 208
D) Per concludere va detto che fermo restando il divieto di domande nuove, nel silenzio della legge, la dottrina e la giurisprudenza ritengono ammissibile la modificazione della domanda in appello purché, per un verso, resti fermo il diritto fatto valere in giudizio cosí come individuato al termine della prima udienza ex art. 183 e, per altro verso, si tratti di fatti rilevabili d'ufficio dato che se così non fosse si verrebbe a creare una plateale disparità di trattamento tra attore e convenuto.
IPOTESI IN CUI IL GIUDIZIO DI APPELLO NON CONSENTE IL DOPPIO GRADO DI GIURISDIZIONE
Il doppio grado di giurisdizione, inteso come principio secondo cui il rapporto deciso deve essere sottoposto ad una nuova cognizione in tutte le questioni che hanno formato oggetto di esame da parte del giudice di primo grado, non si realizza sempre nel procedimento d’appello. Il giudice d'appello infatti da un lato riesamina solo una porzione di quello che costituì il thema decidendum ed il thema probandum del giudizio di primo grado (effetto devolutivo non automatico), e dall'altro lato spesso provvede ad esami non effettuati o effettuati in modo non valido dal giudice di primo grado. In questo secondo caso i1 giudice di appello diviene giudice di primo ed unico grado. In particolare ciò avviene:
- per le domande subordinate assorbite nel giudizio di primo grado e riproposte in appello ex art. 346, in caso di riforma della sentenza di primo grado
- per le questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito diverse dalla giurisdizione o competenza decise con la sentenza che definisce il giudizio di 1° grado in caso di riforma di essa
- per i fatti modificativi, impeditivi, estintivi posti a base di eccezioni nuove rilevabili d'ufficio e per i fatti costitutivi operanti ipso iure posti a base della modificazione della domanda,
- per le nuove prove proposte in appello
- per i fatti sopravvenuti e lo ius superveniens retroattivo
- per gli atti che vengono rinnovati a seguito di una nullità verificatesi nel giudizio di primo grado eccezion fatta per i casi tassativamente previsti dalla legge in cui tale rinnovazione non vi sia.
Da quanto esposto ne deriva che il principio del doppio grado di giurisdizione si realizza nel nostro ordinamento solo in via tendenziale, per cui la regola generale non è il doppio grado di giurisdizione, ma l'appellabilità della sentenza di primo grado.
IL PROCEDIMENTO D APPELLO
La norma base del processo d'appello é l'art 359 il quale recita che “nei procedimenti d'appello davanti alla corte o al tribunale si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale, se non sono incompatibili con le disposizioni del presente capo”.
Il giudizio d'appello contro le sentenze del pretore e del giudice di pace si svolge davanti al tribunale che, deve giudicare col numero invariabile di tre votanti. Il giudizio di appello contro le sentenze del tribunale si svolge davanti alla corte d'appello che giudica anch'essa col numero invariabile di tre votanti (art. 561. ord. giud.). Il giudice d'appello è quindi un giudice di grado superiore a quello che ha pronunciato la sentenza appellata e presenta in ogni caso la caratteristica della collegialità per tutto lo svolgimento del processo: dalla trattazione, alla decisione. L'appello principale si propone con atto di citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici dell’impugnazione (art. 342). In caso di soccombenza pratica ripartita, l'appellato può proporre appello incidentale che deve essere contenuto a pena di decadenza nella comparsa di risposta, all'atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell'art. 166
Ne consegue non solo l'inammissibilità dell'appello incidentale (tempestivo o tardivo) proposto nel corso della prima udienza, ma anche la necessità per l'appellato di proporre appello incidentale almeno venti giorni prima della prima udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione e ciò anche nell'ipotesi in cui l'appellante non si sia costituito (in tal caso sarà l'appellato a dover provvedere alla iscrizione della causa a ruolo all'atto della costituzione). La comparsa di risposta contenente l'appello incidentale dovrà inoltre essere notificata all'appellante non costituitosi, anche se non a pena di decadenza entro il termine di cui all'art. 166. Il 2° comma dell’art 343 dispone che se l’interesse a proporre l'appello incidentale sorge dall'impugnazione proposta da altra parte che non sia l'appellante principale, tale appello si propone nella prima udienza successiva alla proposizione dell'impugnazione stessa che non dovrebbe essere altro che la prima udienza di comparizione.
Il collegio, come prima attività, effettua le verifiche preliminari concernenti la regolare costituzione del giudizio, dispone che si rinnovi la citazione o la sua notificazione, ordina l'integrazione del contraddittorio (art. 331) o la notificazione prevista all'art. 332, provvede alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza, ordina quando occorre la comparizione personale delle parti, dichiara la contumacia dell'appellato, verifica che non si versi in una ipotesi di inammissibilità o improcedibilità. Nella prima udienza di comparizione il collegio esamina altresì la richiesta di inibitoria della provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado dato che ex art 337 l'esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell'impugnazione. Il procedimento di inibitoria è descritto dall'art. 351 il quale prevede come regola generale, che sulla istanza provvede il collegio nella prima udienza con ordinanza non qualificata come non impugnabile. A livello di eccezione, il secondo comma dell'art. 351 prevede che la parte che ha richiesto l'inibitoria può chiedere mediante ricorso al presidente del collegio che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima dell'udienza di comparizione. In tal caso al presidente del collegio si aprono due possibilità:
- la prima, normale, di ordinare, con decreto in calce al ricorso, la comparizione delle parti davanti al collegio in camera di consiglio, il quale provvede con ordinanza
- la seconda, eccezionale, “se ricorrono giusti motivi di urgenza” di disporre provvisoriamente l'immediata sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza con lo stesso decreto con cui ordina la comparizione delle parti davanti al collegio in camera di consiglio. Al decreto emanato inaudita altera parte seguirà quindi, nel contraddittorio delle parti, la sua conferma, modifica o revoca con ordinanza collegiale che benchè qualificata come non impugnabile, deve ritenersi soggetta a reclamo.
Esaurite le attività preliminari se non deve essere svolta attività istruttoria, e quando sorgano questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito idonee, a definire il giudizio il collegio, invita le parti a precisare immediatamente le conclusioni ed il processo entra in fase decisoria. Può accadere che venga disposta l'assunzione di nuove prove (su richiesta di parte o di ufficio) o la rinnovazione totale o parziale della assunzione già avvenuta in primo grado. La particolarità della istruzione in appello è che le prove sono non solo valutate, ma anche assunte dal collegio nella sua collegialità. Chiusa l'istruzione, il collegio invita le parti a precisare le conclusioni e il processo entra, nella fase decisoria descritta dall'art. 352 il quale è formulato sulla falsariga degli artt. 190 e 275. È infatti obbligatorio concedere alle parti un termine per le difese scritte (art. 190) ma ha differenza del giudizio di primo grado in appello il relatore della causa viene designato solo in caso di richiesta di discussione orale e non all'atto della iscrizione della causa a ruolo. Per concludere va detto che anche se l'art. 344 dispone che nel giudizio d'appello è ammesso soltanto l'intervento dei terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell'art. 404 noi riteniamo possibile anche l’intervento coatto su istanza di parte o su ordine del giudice.
LA INVALIDITA’ DELL’APPELLO
Le invalidità che si incontrano nella fase introduttiva del giudizio di appello sono di tre specie:
1) la nullità dell'atto di citazione
- l'inammissibilità
3) l'improcedibilità
a) Nessuna norma disciplina espressamente la nullità dell'atto di citazione d'appello ma, in considerazione del rinvio ex art. 359, si possono ritenere direttamente applicabili gli articoli 163 e 164.
Le nullità relative alla vocatio in ius: (omissione o assoluta incertezza circa il giudice adito, le parti, la data della prima udienza, ovvero omissione dell'avvertimento di cui all'art. 163, n. 7 o assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello stabilito dall'art. 163-bis,) saranno sanate con efficacia retroattiva sia dalla costituzione spontanea dell'appellato, sia dalla rinnovazione della citazione d'appello entro il termine perentorio indicato dal giudice .Per quanto riguarda la nullità relativa alla editio actionis va detto che in caso di mancata indicazione dei motivi specifici della impugnazione deve escludersi che l'atto di citazione d'appello possa essere sanato sia pure ex nunc, come previsto dall’art 164.
b) l'inammissibilità si realizza quando manca un presupposto anteriore ed esterno all'atto di appello. Essa è sempre rilevabile d'ufficio e non conosce sanatoria Ciò si verifica oltre che in caso di mancata integrazione del contraddittorio in cause inscindibili o dipendenti ex art331 quando l’appello:
1) è proposto dopo la decorrenza dei termini previsti dagli articoli 325 326 327 o dopo che si è verificato il fenomeno dell'acquiescenza art 329
2) è proposto contro una sentenza inappellabile (art. 339);
- trattandosi di appello incidentale è proposto oltre il termine previsto dall'art. 343.
La maggior parte della giurisprudenza sostiene che l'appello è inammissibile anche quando la parte anziché muovere censure specifiche si limita a chiedere un generico riesame della controversia.
La conseguenza della dichiarazione di inammissibilità è, ex art. 358, la non riproponibilità dell'atto di appello, anche se non sono decorsi i termini per appellare (differenza dalla nullità che è suscettibile di sanatoria retroattiva o irretroattiva e non preclude mai la riproposizione dell'appello).
- si ha improcedibilità quando difettano determinate attività delle parti susseguenti alla proposizione dell'appello ed espressamente richieste dalla legge e cioè quando ex art 348
1) I'appellante principale non si è costituito in termini
- l'appellante, anche se costituito, non compare in prima udienza ed omette altresì di comparire anche alla udienza successiva fissata dal collegio con ordinanza non impugnabile .
Anche l’appello dichiarato improcedibile non può essere riproposto e ciò malgrado non sia decorso il termine fissato dalla legge.
L’ESTINZI0NE
L'estinzione del giudizio di appello consegue ad eventi, come la rinuncia agli atti del giudizio (art. 306) o 1'inattivita delle parti, che si possono verificare durante tutto il corso del processo d'appello . La dichiarazione di estinzione ex art. 338 fa passare in giudicato la sentenza impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto. Si tratta di alcune sentenze non definitive di merito emanate durante il giudizio di appello. Un esempio si ha quando il giudice di primo grado abbia definito il giudizio sulla base di una questione preliminare di merito ad es. sulla base dell'accertamento della prescrizione e il giudice d'appello abbia emanato una sentenza non definitiva con cui dichiara che la prescrizione non sussiste. In questo caso se il processo d'appello successivamente si estingue, non potrà più aversi il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado ormai già riformata.
PROVVEDIMENTI EMANABILI DAL GIUDICE D APPELLO
La tipologia dei provvedimenti emanabili dal collegio in appello si ricava dall'art. 279, il quale si riferisce al giudizio di primo grado.
Il primo comma dell'art. 279 prevede che il collegio quando provvede soltanto su questioni relative alla istruzione della causa senza definire il giudizio pronuncia ordinanza mentre pronuncia sentenza nelle 5 ipotesi previste dal 2° comma e cioè
- quando definisce il giudizio decidendo questioni di giurisdizione o di competenza (S.DEF.)
- quando definisce il giudizio decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di merito (S.DEF)
- quando definisce il giudizio decidendo totalmente il merito (S.DEF)
- quando decidendo alcune delle questioni di cui ai numeri 1, 2,3 non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa (S.NON DEF.)
- quando avvalendosi delle facoltà riconosciutegli decide solo alcune delle cause fino a quel momento riunite e con distinti provvedimenti dispone la separazione delle altre cause e l’ulteriore istruzione riguardo alle medesime ovvero la rimessione al giudice inferiore delle cause di sua competenza (S.NON DEF.)
Da quanto detto ne deriva che tali sentenze possono essere sia definitive sia non definitive. Le sentenze non definitive si riferiscono ad una questione preliminare di merito o ad una questione pregiudiziale di rito mentre quelle definitive possono essere suddivise in:
a) sentenze occasionate da motivi di rito inerenti al giudizio di appello. Esse non hanno alcun effetto sostitutivo e determinano il passaggio in giudicato della sentenza impugnata (si pensi ad es. alla improcedibilità o alla inammissibilità)
- sentenze occasionate da motivi di rito riguardanti il procedimento o la sentenza di primo grado;
c) sentenze occasionate da motivi di merito.
Queste ultime due sentenze possono essere di conferma o di riforma della sentenza impugnata. Quelle di conferma riguardanti il rito avranno effetto sostitutivo solo se il giudice d’appello statuisca come quello di primo grado sulla base di una diversa soluzione delle questioni di fatto o di diritto risolte in primo grado e/o sulla base della soluzione di questioni nuove.
Le sentenze definitive di riforma riguardanti il rito possono essere emanate per motivi inerenti alla giurisdizione, alla competenza e ad altri errori in procedendo relativi al giudizio di primo grado. La sentenza d'appello di riforma che riconosce la giurisdizione negata dal primo giudice comporta (art. 353) la rimessione della causa al giudice di primo grado ,per il rifacimento del processo mentre quella che nega la giurisdizione del primo giudice ha contenuto meramente rescindente e sarà ricorribile in cassazione. La sentenza di appello di riforma per motivi inerenti alla competenza si riferisce solo a quelle sentenze positive che abbiano deciso anche il merito dato la sentenza declinatoria sulla sola competenza è inappellabile essendo suscettibile soltanto di regolamento di competenza ex art. 42 e poichè deve contenere l'indicazione del giudice competente, affinchè le parti possano riassumere la causa davanti a lui nel termine di sei mesi essa è meramente rescindente e precede la fase rescissoria che si svolgerà davanti al giudice di primo grado competente.
In ipotesi di altri errori in procedendo verificatisi nel giudizio di primo grado, e fatti valere in appello si applica normalmente la regola generale prevista dall'art. 354, ultimo comma, secondo cui il giudice d’appello dispone la rinnovazione dell’atto nullo e si pronuncia sul merito. Solo in casi eccezionali tassativamente previsti dalla legge il giudice d’appello emana solo la sentenza rescindente e rimette la causa al giudice di primo grado per lo svolgimento della fase rescissoria. Ciò si verifica nei casi di:
1) nullità della notifica della citazione(art. 160) e mancata integrazione del contraddittorio(art. 102);
2) estromissione di una parte che non doveva essere estromessa (artt. 108 e 109)
3) nullità o inesistenza della sentenza per difetto di sottoscrizione (art. 161, 2 comma)
4) erronea dichiarazione di estinzione del giudizio di primo grado pronunciata nelle forme dell'art. 308.
Per concludere va detto che le sentenze definitive di riforma occasionate da motivi di merito avranno sempre e necessariamente carattere sostitutivo.
RILIEVI CONCLUSIVI
Una lenta evoluzione storica ha progressivamente ridotto determinati tratti caratteristici dell’appello. In particolare oggi:
a) l'effetto sospensivo è stato totalmente soppresso dato che tutte le sentenze di primo grado sono provvisoriamente esecutive e dato che l’esecuzione non è sospesa dall’impugnazione
- l'effetto sostitutivo è escluso non solo nelle ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado previste dagli art. 353 e 354 (giurisdizione e competenza )ma anche quando la conferma della sentenza di primo grado sia disposta a seguito della infondatezza delle censure mosse
c) l'effetto devolutivo opera in modo non automatico;
d) lo ius novorum in appello è notevolmente compresso dalla nuova formulazione dell'art. 345.
RICORSO IN CASSAZIONE
L'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario attribuisce alla Corte Suprema di cassazione le seguenti funzioni:
1) assicurare 1'esatta osservanza e 1'uniforme interpretazione della legge
2) garantire l'unita del diritto oggettivo nazionale
3) vigilare sul rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni e regolare i conflitti di competenza e di attribuzione.
La Corte ha sede a Roma e ha giurisdizione su ogni altro territorio soggetto alla sovranità dello Stato.
Da quanto detto ne deriva che il compito tipico caratterizzante la Corte di cassazione è dato dalla funzione di nomofilachia consistente nell'assicurare che la legge sostanziale, che ogni giudice e chiamato ad applicare, sia interpretata esattamente e in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Le disposizioni del c.p.c. dalle quali si desume che il ricorso per cassazione ha questa funzione di nomofilachia sono:
a) l'art 70 2° comma, secondo cui il pubblico ministero deve intervenire in ogni causa davanti alla Corte di cassazione. II PM è l'ultimo soggetto che prende la parola nel giudizio di cassazione a dimostrazione che l'interesse principale che il giudizio mira a tutelare non è quello privato all'eliminazione della sentenza ingiusta o invalida, ma quello pubblico alla esatta interpretazione della legge, di cui il PM è portatore;
- l'art 363 che attribuisce al procuratore generale presso la Corte di cassazione la legittimazione a proporre il ricorso nell'interesse della legge quando le parti non lo abbiano tempestivamente proposto o vi abbiano rinunciato. Dato che in questi casi le parti non possono giovarsi dell’eventuale cassazione della sentenza la norma ha solo lo scopo di eliminare la non corretta interpretazione della legge ed è di scarsa applicazione pratica.
PROVVEDIMENTI DENUNCIABILI IN CASSAZIONE
L'art. 360, 1° comma, indica come suscettibili di ricorso le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado. Attualmente il numero delle sentenze pronunciate in unico grado e abbastanza elevato ed interessa soprattutto tre settori:
a) le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità
b) le sentenze che decidono l'opposizione agli atti esecutivi
c) le sentenze con cui si conclude il giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative irrogate dall'autorità amministrativa, previsto dalla legge 689/1981.
L'art. 111, 2 comma, Cost. ammette il ricorso in Cassazione per violazione di legge contro tutti i provvedimenti che hanno la forma di sentenza, estendendo il rimedio anche alle sentenze dei giudici speciali diversi dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti. Occorre rilevare che per sentenza deve intendersi qualsiasi provvedimento decisorio che sia relativo a diritti e che abbia attitudine al giudicato formale e sostanziale(ad es. una ordinanza che abbia contenuto di sentenza). A differenza dell'appello il ricorso per cassazione, é un mezzo di impugnazione a motivi limitati dato che l'art. 360 elenca solo 5 motivi per i quali si può ricorrere in cassazione. Lo scopo del ricorso per cassazione non è quello di ottenere direttamente un riesame ex novo sul merito della stessa controversia, bensì quello di ottenere dalla Corte una decisione sull’esistenza di un vizio che è titolo per l'annullamento. Solo in seguito all’annullamento questo riesame potrà essere effettuato da un giudice di solito di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza cassata. Il giudizio di cassazione si distingue quindi in due fasi:
1) fase rescindente, davanti alla stessa Corte, il cui oggetto è costituito dal motivo o dai motivi fatti valere col ricorso.
2) fase rescissoria, davanti ad un giudice normalmente di grado pari a quello che ha pronunciato il provvedimento cassato, ed avente ad oggetto il riesame in merito della controversia, nei limiti in cui ha operato l'annullamento.
MOTIVI DEL RICORSO
Il primo motivo previsto dall’art 360 è quello del difetto di giurisdizione nei confronti della P.A., dei giudici speciali o del convenuto straniero. L'art. 382, 1° comma, dispone che quando la corte decide una questione di giurisdizione, statuisce su questa determinando quando occorre il giudice competente. Il terzo comma dispone poi che se la corte riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano di giurisdizione cassa senza rinvio.
Per meglio comprendere meglio il significato di tali disposizioni occorre distinguere due ipotesi:
1) la sentenza contro cui è proposto ricorso in cassazione per difetto di giurisdizione ha deciso il merito della controversia.
- la sentenza contro cui è proposto il ricorso ha declinato la giurisdizione del giudice adito e quindi non ha deciso nel merito.
Nel primo caso se la Corte rigetta il ricorso perchè infondato la sentenza impugnata passa in giudicato altrimenti se accoglie il ricorso riconoscendo il difetto di giurisdizione:
a) cassa senza rinvio, qualora si tratti di mancanza di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione o nei confronti del convenuto straniero in quanto non c'é un giudice nell'ordinamento fornito di giurisdizione.
b) cassa la sentenza impugnata e indica il giudice fornito di giurisdizione statuendo su questa, nel caso di difetto di giurisdizione del giudice ordinario verso il giudice speciale e viceversa. La decisione della corte vincola il giudice designato e ogni altro a cui sia riproposta la stessa domanda. Occorre rilevare che l’unica ipotesi in cui non è consentita la trasmigrazione del processo è quella dal giudice ordinario a quello speciale
Nel secondo caso se la sentenza impugnata è quella di appello la Corte se accoglie il ricorso ritenendo che il giudice abbia erroneamente negato la propria giurisdizione:
a) cassa con rinvio al giudice di appello se la sentenza d’appello era di riforma
b) cassa con rinvio al giudice di primo grado se la sentenza d’appello era di conferma
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Il secondo motivo di ricorso in cassazione è la violazione delle norme sulla competenza quando non è prescritto il regolamento di competenza. Ciò significa che il ricorso è possibile solo contro le sentenze che abbiano deciso anche nel merito dato che per quelle sulla sola competenza è possibile solo il regolamento necessario di competenza. Il ricorso per cassazione ex n. 2 art 360 e il regolamento di competenza sono soggetti ad un diverso regime processuale sotto tre profili:
1) mentre per il ricorso il termine di decadenza è di 60 giorni e decorre dalla notificazione della sentenza il termine per l’istanza di regolamento è di 30 giorni e decorre dalla comunicazione della sentenza (salvo in entrambi i casi il termine annuale ex art 327).
2) per il solo regolamento, la parte può essere assistita da un difensore non iscritto nell’albo dei cassazionisti.
3) il regolamento di competenza è deciso in camera di consiglio
Anche in questo caso l’art 382 dispone che la Corte quando cassa per violazione delle norme sulla competenza, statuisce su questa. Ciò significa che la indicazione del giudice competente sarà vincolante per questo e per tutti i giudici dell'ordinamento e che la causa potrà essere riassunta davanti a lui entro sei mesi dalla comunicazione della sentenza con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda. La relativa sentenza, inoltre, al pari di quella sulla giurisdizione, sopravvive alla estinzione del processo (art. 310, 2° comma) ed ha efficacia vincolante nel processo in cui sia riproposta la domanda.
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Il terzo motivo del ricorso in cassazione è la violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale. Si ha la falsa applicazione di norme di diritto, quando il giudice ha errato nell'individuazione della norma generale ed astratta sotto cui dedurre la fattispecie concreta correttamente accertata .Si ha la violazione di norme di diritto quando il giudice ha errato nell'interpretare la norma correttamente individuata alla cui stregua risolvere la controversia, cioè ne ha tratto effetti diversi da quelli che discendono dalla norma. L'art. 383, 1 comma, dispone che la Corte se accoglie il ricorso cassa la sentenza e rinvia la causa ad altro giudice di grado pari a quello che ha pronunciato la sentenza cassata per lo svolgimento della fase rescissoria. Occorre tuttavia rilevare che la sentenza della Corte non è meramente rescindente ma anche in tutto o in parte rescissoria dato che ex art 384 1°comma la corte
- enuncia il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi
b) decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.
Nel primo caso la Corte indica quale norma deve essere applicata ai fatti della causa (nell'ipotesi di cassazione per falsa applicazione) ovvero qual è la sua corretta interpretazione (nel caso di cassazione per violazione di norme di diritto). Tale sentenza ha un'efficacia vincolante non solo per il giudice di rinvio ma anche per il giudice di primo grado davanti al quale sia riproposta la domanda in caso di estinzione o mancata instaurazione del giudizio di rinvio a meno che la norma non sia abrogata da altra norma retroattiva o sia dichiarata successivamente incostituzionale. Nel secondo caso la Corte adotta, oltre alla decisione rescindente anche quella rescissoria cioè non si limita ad enunciare il principio di diritto ma lo applica alla fattispecie concreta. E’ infatti la sentenza della Corte a contenere l'accertamento destinato a fare stato tra le parti in tutti i futuri giudizi ai sensi dell'art. 2909 c.c.
Va infine precisato che ex art. 384, 2 comma, non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto quando il dispositivo sia conforme al diritto dato che in tal caso la Corte si limita a correggere la motivazione. L'ipotesi cui sembra far riferimento la disposizione è quella in cui il giudice di merito abbia dichiarato l'inesistenza o esistenza del diritto sulla base di più ragioni alternativamente concorrenti ad es. accerta l'inesistenza del diritto sia sulla base della prescrizione breve che di quella ordinaria e la Corte non ritenga applicabile alla fattispecie la sola prescrizione breve.
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Il quarto motivo del ricorso in cassazione è la nullità della sentenza o del procedimento. Attraverso tale motivo possono esser fatte valere tutte quelle violazioni della legge processuale, cioè tutti quegli errori in procedendo che viziano la sentenza che si siano realizzati nel corso del giudizio di primo o secondo grado. Alla sentenza rescindente di accoglimento del ricorso, può seguire o meno una fase rescissoria, dinanzi ad un giudice diverso dalla Corte. In particolare
- si ha cassazione senza rinvio tutte le volte in cui la Corte ritiene che la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito. Occorre tuttavia precisare che mentre la cassazione per improponibilità della causa travolge tutti gli atti del processo, la cassazione per improseguibilità travolge soltanto l'atto di cui si è omesso di dichiarare la invalidità e gli atti successivi per cui nel caso in cui l’errore si sia verificato nel corso del giudizio di appello, la Corte cassa la sola sentenza di appello, mentre quella di primo grado passa in giudicato.
b) negli altri casi si ha la cassazione con rinvio ad altro giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza cassata cioè sempre d’appello eccezion fatta per il caso del rinvio al giudice di primo grado qualora, la Corte riscontra una nullità del giudizio di primo grado per la quale il giudice di appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice (vedi sotto al punto b)
Tra le nullità della sentenza per propri vizi vanno ricordate
- la mancanza del dispositivo che da luogo a cassazione con rinvio
b) il difetto della sottoscrizione del giudice il quale sopravvive al passaggio in giudicato e quando riguardi la sentenza di 1° grado, obbliga la Corte a cassare e rinviare al giudice di primo grado
- la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e il pronunciato (art. 112) che da luogo a cassazione con rinvio in caso di difetto di pronuncia o a cassazione senza rinvio in caso di ultrapetizione
- il vizio relativo alla costituzione del giudice che da luogo a cassazione con rinvio
e) l’omessa lettura del dispositivo in udienza nel rito del lavoro che comporta la cassazione con rinvio
Tra le nullità del procedimento si possono ricordare
- i difetti di legittimazione ,interesse ad agire ,difesa tecnica rappresentanza ,o autorizzazione che danno luogo a cassazione senza rinvio
- il difetto di partecipazione del litisconsorte necessario che da luogo a cassazione con rinvio.
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L’ultimo motivo di ricorso in cassazione è quello derivante da omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio. Tale ricorso in sostanza ha ad oggetto la parte della sentenza in cui il giudice da conto del perchè ha ricostruito il fatto in un certo modo piuttosto che in un altro. Naturalmente il settore nel quale questo motivo di ricorso trova principale applicazione è quello probatorio. La corte nel caso in cui accolga il ricorso cassa con rinvio ad un giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza cassata.
IL PROCEDIMENTO DI CASSAZI0NE
L'atto introduttivo del procedimento di cassazione è un ricorso notificato alla controparte su istanza del ricorrente entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza impugnata salvo il termine lungo di un anno dalla pubblicazione ex art 327.
Entro venti giorni dall'ultima notificazione il ricorso munito dei documenti di cui all’art 369 deve essere poi depositato in cancelleria, a pena di improcedibilità. L'art. 366 dispone che il ricorso deve contenere a pena di inammissibilità una serie di elementi tra cui particolarmente importanti sono l'esposizione sommaria dei fatti della causa e i motivi per i quali si chiede la cassazione. Nel ricorso per cassazione quindi, a differenza dell'appello tutti i requisiti di forma-contenuto sono richiesti a pena di inammissibilità. La dichiarazione di inammissibilità o di improcedibilità impedisce la riproposizione del ricorso (art. 387). La parte intimata può costituirsi in giudizio notificando a sua volta un controricorso entro quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale e da depositare in cancelleria entro 20 giorni dalla sua notificazione. In mancanza di costituzione in giudizio, il resistente dovrà limitare la propria difesa alla partecipazione alla discussione orale, senza poter presentare le memorie. Il controricorso ha carattere puramente difensivo dato che non si possono proporre eccezioni su punti non denunciati nel ricorso tranne il caso in cui essendovi soccombenza ripartita l'intimato proponga mediante il controricorso, il c.d ricorso incidentale, a cui il ricorrente principale può a sua volta resistere notificando un controricorso (art. 371). Scaduti i termini per il deposito del controricorso contro l'ultimo ricorso incidentale il cancelliere trasmette il ricorso al Presidente della Corte il quale lo assegna alle Sezioni unite o ad una delle quattro sezioni semplici. In particolare la Corte deve pronunciarsi a Sezioni unite,
1) obbligatoriamente in presenza di motivi attinenti alla giurisdizione.
2) a discrezione del Presidente sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza.
3) sui ricorsi contro le decisioni di secondo grado del Tribunale superiore delle acque, del Consiglio nazionale forense e contro i provvedimenti del C.S.M. in materia disciplinare
In tutti gli altri casi, assegnata la causa ad una delle quattro sezioni semplici il suo Presidente fissa l'udienza di discussione e nomina un relatore tra i magistrati della stessa. Venti giorni prima della udienza il cancelliere deve comunicare la data della stessa alle parti, le quali, se costituite, possono presentare delle memorie scritte in cancelleria fino a cinque giorni prima dell'udienza (art. 378). Copie degli atti che le parti hanno depositato sono comunicate dal cancelliere al pubblico ministero. L'udienza di discussione è descritta dall'art. 379: il consigliere di Cassazione incaricato fa la relazione della causa, i difensori delle parti se comparsi espongono le loro difese, infine il pubblico ministero formula oralmente le proprie conclusioni. La Corte si ritira quindi in camera di consiglio e delibera immediatamente la decisione. Occorre rilevare che nei casi previsti dall’art 375 all'udienza di discussione può essere sostituita la pronuncia in camera di consiglio di un ordinanza eccezion fatta per il caso di regolamento di competenza. Va anche detto che al giudizio in cassazione non si applicano gli istituti della interruzione e della estinzione per inattività delle parti ma solo quello dell’estinzione per rinuncia ex art. 390 finche non sia cominciata la relazione all'udienza, e che non sono ammesse prove costituende; ma solo la produzione di documenti relativi alla nullità della sentenza impugnata o all'ammissibilità del ricorso e del controricorso. La norma è stata interpretata estensivamente, consentendosi anche la produzione dei documenti relativi alla procedibilità o proseguibilità.
IL GIUDIZIO DI RINVIO
Entro un anno dalla pubblicazione della sentenza con cui la corte ha cassato con rinvio la causa può essere riassunta con citazione notificata personalmente alla controparte la quale deve contenere copia autentica della sentenza di cassazione (con ricorso in caso di causa di lavoro). La mancata riassunzione della causa nel termine previsto o il verificarsi, successivamente ad essa, di una causa di estinzione del giudizio di rinvio, comporta l'estinzione dell'intero processo. Il giudizio di rinvio è disciplinato dalle norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la Corte ha rinviato la causa (che sarà nella maggioranza dei casi il giudice di appello) ma le parti non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata tranne il caso in cui la necessità di prendere nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione. Unica eccezione è il giuramento decisorio che è sempre ammissibile. Per concludere va detto che nel caso in cui la decisione del giudice di rinvio sia impugnata a sua volta in cassazione se la Corte cassa con rinvio vi sarà la rimessione della causa ad un diverso giudice di pari grado che sarà giudice di secondo rinvio.
LA REVOCAZIONE
La revocazione è un mezzo di impugnazione a motivi limitati, sia ordinario che straordinario a seconda che i motivi per cui può essere proposta siano palesi, cioè conoscibili dalla parte sin dal momento della pubblicazione della sentenza, ovvero occulti, cioè conoscibili dalla parte solo a seguito della scoperta di fatti in precedenza non conosciuti. Giudice competente a conoscere della revocazione è lo stesso giudice (nel senso di stesso ufficio giudiziario) che ha pronunciato la sentenza impugnata. Sentenze impugnabili sono:
a) in ipotesi di revocazione ordinaria unicamente le sentenze d'appello o pronunciate in unico grado
- in ipotesi di revocazione straordinaria le sentenze d'appello o pronunciate in unico grado e le sentenze di primo grado passate in giudicato
La revocazione è un mezzo di impugnazione a duplice fase, rescindente e rescissoria. La prima fase rescindente ha ad oggetto il motivo di revocazione e, ove sia accertata la esistenza del motivo, si conclude con la rescissione della sentenza impugnata. La seconda fase rescissoria ha ad oggetto il rapporto sostanziale su cui si era pronunciata la sentenza impugnata e si conclude con una sentenza che decide il merito della causa (art. 402). Ove per la decisione del merito della causa non debbano essere assunti nuovi mezzi di prova la sentenza rescindente che pronuncia la revocazione può pronunciarsi contestualmente anche sul merito della causa (art. 402, 1° comma). La sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione è impugnabile unicamente attraverso i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione: appello o ricorso per cassazione a seconda che la sentenza revocata sia di primo o secondo grado (art. 403). La revocazione si propone con citazione (con ricorso nel rito speciale del lavoro) che deve indicare a pena di inammissibilità il motivo di revocazione nonchè, in caso di revocazione straordinaria le prove relative alla dimostrazione della sussistenza del motivo e del giorno in cui la parte ha avuto conoscenza del motivo stesso. La citazione deve essere depositata a pena di improcedibilità, entro venti giorni dalla notificazione, nella cancelleria del giudice adito insieme con la copia autentica della sentenza impugnata; le altre parti devono costituirsi entro lo stesso termine mediante deposito in cancelleria di una comparsa (art. 399). La proposizione della revocazione non sospende l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, ma la sospensione può essere chiesta al giudice della revocazione qualora dall'esecuzione possa derivare grave e irreparabile pregiudizio.
Il procedimento, in quanto non esplicitamente derogato, è quello (di primo o secondo grado) del giudizio in cui è stata emanata la sentenza impugnata (art. 400). La proposizione della revocazione contro una sentenza d'appello o pronunciata in unico grado non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo; tuttavia il giudice davanti al quale è proposta la revocazione può, su istanza di parte, sospendere l'uno o l'altro fino alla comunicazione della sentenza sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta .
I motivi di revocazione ordinaria sono indicati ai n. 4 e 5 dell'art. 395
1) Il n. 4 richiede che la sentenza sia effetto di un errore di fatto, risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità e incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare (errore di svista).Tale vizio presenta particolari affinità con gli errori materiali o di calcolo ma se ne distingue in quanto mentre l’errore materiale o di calcolo, emerge dal testo della sentenza l’errore di fatto emerge non dal testo della sentenza, bensì dagli atti o documenti della causa.
- Il n. 5 richiede che la sentenza sia contraria ad altra avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purchè non abbia pronunciato sulla relativa eccezione (GIUDICATO ESTERNO non fatto valere né in primo né in secondo grado)
I motivi di revocazione straordinaria sono indicati ai n. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395.
1) Il n. 1 richiede che la sentenza sia l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra Occorre rilevare che non è sufficiente che la controparte si sia comportata nel processo in modo sleale o scorretto ovvero che abbia effettuato, affermazioni o allegazioni false ma è necessario invece che vi siano stati artefici o raggiri normalmente extraprocessuali ad es. la mancata comunicazione della acquisizione della disponibilità di altro alloggio da parte del locatore che agiva per la cessazione della proroga legale.
2) Il n. 2 richiede che si sia giudicato in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza. Da tale motivo è esclusa solo la falsità del giuramento la quale può dar luogo solo a risarcimento, dei danni in caso di condanna penale per falso giuramento; La prova della falsità (naturalmente decisiva) deve essere precostituita alla domanda di revocazione.
3) Il n. 3 richiede che dopo la sentenza siano stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario. Si tratta solo di documenti decisivi che già esistevano al momento del processo, e non anche di documenti sopravvenuti
4) Il n. 6 richiede che la sentenza sia effetto di dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.
In tutte queste ipotesi la revocazione andrà proposta entro il termine di trenta giorni decorrente dal giorno in cui si è avuto conoscenza del motivo. In sintesi: la revocazione straordinaria costituisce l'unico mezzo di attacco del giudicato per cui essa è prevista solo in ipotesi eccezionali
REVOCAZIONE DEL P. M.
Nelle cause in cui è obbligatorio 1'intervento del pubblico ministero le sentenze d'appello o pronunciate in unico grado e le sentenze di primo grado passate in giudicato possono essere impugnate per revocazione straordinaria dal pubblico ministero ex art. 397.
- quando la sentenza è stata pronunciata senza che il pubblico ministero sia stato sentito (30 giorni)
.
2) quando la sentenza è l'effetto della collusione posta in essere dalle parti per frodare la legge (es. divorzio al di fuori delle ipotesi previste dalla legge ecc.). E’ da notare come la frode delle parti alla legge sostanziale è denunciabile solo dal pubblico ministero nelle ipotesi in cui il suo intervento sia obbligatorio e non anche dalle parti private (30 giorni).
REVOCAZIONE DELLE SENTENZE DELLA CASSAZIONE
L'art. 391-bis.prevede che se la sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione è affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell’art 287 ovvero da errore di fatto ai sensi dell'art. 395 n. 4, la parte interessata può chiederne la revocazione con ricorso proposto nelle forme degli art. 365 ss., da notificare entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza ovvero di un anno dalla pubblicazione. Sul ricorso si pronuncia la Corte di cassazione in camera di consiglio a norma dell'art. 375. In questi casi la revocazione è straordinaria per cui la pendenza del termine non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Va infine precisato che in caso di impugnazione per revocazione della sentenza della Corte di cassazione non è ammessa la sospensione dell'esecuzione della sentenza passata in giudicato, ne è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per riassumerlo.
L’OPPOSIZIONE DI TERZO
Si tratta di un mezzo di impugnazione riservato a coloro che non hanno assunto la veste di parte in senso formale nel processo.
L'art. 404 disciplina nell’ambito di un'unica disposizione, due mezzi di impugnazione notevolmente diversi quanto ai soggetti legittimati ad avvalersene ,ai motivi che ne sono a fondamento, e ai termini:
- l'opposizione di terzo c.d. ordinaria, proponibile da parte dei terzi i cui diritti sono pregiudicati dalla sentenza pronunciata tra altre persone (art. 404, 1° comma),
- l'opposizione di terzo c.d. revocatoria, proponibile dagli aventi causa e dai creditori di una delle parti contro le sentenze che sono l'effetto di dolo o collusione a loro danno.
L'opposizione di terzo ordinaria, unica fra tutte le impugnazioni, non è soggetta ad alcun termine di decadenza; a differenza di quella revocatoria che deve essere proposta entro il termine perentorio di trenta giorni decorrente dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la collusione. Giudice competente a conoscere dell'opposizione di terzo è lo stesso che ha pronunciato la sentenza impugnata e il procedimento, la decisione e la sospensione dell'esecuzione sono disciplinati dagli artt. 405, 406, 407.
Sentenze impugnabili sono le sentenze passate in giudicato o comunque esecutive. Occorre rilevare che poiché i terzi legittimati a proporre opposizione di terzo possono intervenire in appello ne consegue che ove la sentenza esecutiva sia appellata l'opposizione di terzo (ordinaria o revocatoria) va proposta nella forma dell'intervento in appello e, se proposta anteriormente, va riunita all'appello benchè le due impugnazioni siano proposte originariamente innanzi a giudici diversi. L'opposizione di terzo ordinaria è un mezzo di impugnazione riservato ai terzi i cui diritti sono pregiudicati dalla sentenza pronunciata tra altre persone. Il danno che la sentenza pronunciata inter alios può arrecare ai terzi è dato dalla incertezza che la sentenza con il suo esistere può determinare in ordine alla titolarità o al contenuto del diritto del terzo ovvero nel danno che la esecuzione inter partes può arrecare al diritto del terzo. Legittimati all'opposizione di terzo ordinaria sono:
- i terzi titolari di diritti autonomi ed incompatibili rispetto al diritto oggetto della sentenza resa inter alios;
- i litisconsorti necessari pretermessi;
c) i falsi rappresentati
Naturalmente l'opposizione di terzo ordinaria è un mezzo di impugnazione facoltativo poichè il terzo, non essendo soggetto alla efficacia della sentenza resa inter alios, puo liberamente fare valere il suo diritto in un autonomo processo a cognizione piena. II vantaggio della opposizione di terzo è costituito dalla sua idoneità, ad eliminare la sentenza resa inter alios mentre lo svantaggio è costituito dalla perdita di un grado di giurisdizione, ove la sentenza da impugnare sia una sentenza d'appello.
I motivi di impugnazione sono a loro volta costituiti:
- dalla titolarità da parte del terzo del diritto autonomo ed incompatibile rispetto al diritto oggetto della sentenza resa inter alios;
- dalla violazione della regola del litisconsorzio necessario;
c) dalla falsità della rappresentanza.
Per concludere va detto che se l’opposizione sia fatta valere dal terzo titolare di un diritto autonomo ed incompatibile essa si atteggia come un mezzo di impugnazione che in caso di infondatezza del motivo accerta l’inesistenza del diritto del terzo e lascia intatta la sentenza inter partes, mentre in caso di fondatezza del motivo accerta la titolarità del diritto prevalente del terzo nei confronti di entrambe le parti del processo originario e rescinde, la sentenza resa inter alios.
Nell'ipotesi di violazione della regola del litisconsorzio necessario l'opposizione di terzo ordinaria si atteggia come un mezzo di impugnazione a fase rescindente e rescissoria. La prima fase rescindente è diretta ad accertare la fondatezza del motivo ed in caso di esito positivo comporta la rescissione della sentenza resa inter alios. Ad essa segue la fase rescissoria diretta a decidere il merito della controversia, se del caso previa rimessione della causa al giudice di primo grado ai sensi dell'art. 354, 1° comma.
Nell'ipotesi, infine, di falsa rappresentanza, l'opposizione di terzo ordinaria si atteggia come un mezzo di impugnazione esclusivamente rescindente che, in caso di fondatezza del motivo, si limita a rescindere la sentenza resa inter alios in quanto accerta l'invalido esercizio del diritto di azione.
L'opposizione di terzo revocatoria è il mezzo di impugnazione riservato ai creditori, agli aventi causa e in forza di una interpretazione estensiva ai terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti soggetti all'efficacia riflessa della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale. Si tratta di un mezzo di impugnazione a motivi limitati, e a fase rescindente e rescissoria dato che le uniche censure che terzi possono muovere alla sentenza resa tra le parti del rapporto pregiudiziale sono il dolo o la collusione perpetrati a loro danno. La fase rescindente è diretta a verificare la fondatezza o no del motivo e, in caso di esito positivo, si conclude con la rescissione della sentenza resa tra le parti originarie. Ad essa segue la fase rescissoria che è diretta a sostituire la sentenza rescissa con altra che si pronunci sul merito della causa.
LA TUTELA SOMMARIA
A differenza dei processi a cognizione piena che sono processi atipici ai quali si può ricorrere semplicemente affermando di essere titolare di un diritto i processi sommari disciplinati dal titolo 1 del 4 libro del codice sono processi tipici cioè processi ai quali si può ricorrere solo in presenza dei presupposti speciali di ammissibilità previsti per ciascuno di essi. Tali processi sono definiti sommari perché presentano una deviazione rispetto al modello previsto dal codice per il processo a cognizione piena .Tale cognizione infatti può essere
- sommaria perché parziale in quanto ha ad oggetto solo i fatti costitutivi allegati dall’attore. Ciò accade perché il contraddittorio assente nella prima fase può eventualmente essere instaurato dopo l’emanazione del provvedimento a seguito dell’iniziativa del soggetto passivo
- sommaria perché superficiale in quanto pur essendo il contraddittorio anticipato rispetto all’emanazione del provvedimento esso non avviene nelle forme e con le garanzie previste dal codice per i processi a cognizione piena.
Naturalmente è ovvio che tali processi non possono tendere a quella verità e certezza che è propria della cognizione piena ma solo alla probabilità e verosimiglianza del diritto. Le esigenze che sono alla base dei processi sommari sono
1) esigenza di economia di giudizi cioè evitare il costo del processo a cognizione piena quando ciò non sia giustificato da una contestazione effettiva (naturalmente deve trattarsi di diritti disponibili)
2) esigenza di evitare l’abuso del diritto di difesa quando è probabile che il convenuto abbia torto
3) esigenza di effettività della tutela giurisdizionale evitando che essa possa essere compromessa dai tempi anche fisiologici del processo a cognizione piena.
IL PROCEDIMENTO D’INGIUNZIONE
I procedimenti monitori assolvono alla funzione di evitare il costo del processo a cognizione piena quando esso non sia giustificato da una contestazione effettiva consentendo per un verso che il giudice emani un provvedimento di condanna in assenza di contraddittorio e per altro verso spostando sul convenuto l’onere di instaurare il processo a cognizione piena. Vi sono due modelli di procedimenti monitori
1) il procedimento monitorio puro che è caratterizzato dalla circostanza che la domanda è fondata su fatti meramente affermati ma non provati in modo alcuno. In questi casi il provvedimento che è emanato inaudita altera parte dal giudice è sospensivamente condizionato alla opposizione in termini del debitore la quale se effettuata, priva il provvedimento della possibilità di acquistare qualsiasi efficacia. Naturalmente in questi casi il provvedimento non può essere dichiarato provvisoriamente esecutivo in pendenza dei termini per proporre opposizione o nel corso del giudizio di opposizione e vi è la totale assimilazione del giudizio di opposizione ad un giudizio di primo grado avente ad oggetto unicamente l'accertamento dell'esistenza o no del diritto affermato dal creditore.
2) il procedimento monitorio documentale che è caratterizzato dalla circostanza che la domanda è fondata su fatti provati documentalmente. In questi casi il provvedimento che è emanato inaudita altera parte dal giudice è risolutivamente condizionato all'accoglimento dell'opposizione proposta dal debitore. Naturalmente in questi casi il provvedimento può essere dichiarato provvisoriamente esecutivo in pendenza dei termini per proporre opposizione o nel corso del giudizio di opposizione ed e destinato a sopravvivere in ipotesi di estinzione del giudizio dl opposizione il quale pertanto non può essere totalmente assimilato ad un giudizio di primo grado sia perché vi è già un vero e proprio provvedimento giurisdizionale, sia perchè esso ha ad oggetto oltre all'accertamento pieno dell’esistenza o no del diritto vantato dal creditore anche il controllo della validità del provvedimento emanato inaudita altera parte (cioè della sussistenza dei requisiti generali e speciali di ammissibilità).
La disciplina del nostro procedimento per ingiunzione, è contenuta negli art. 633 ss. del c.p.c. è costituisce una ibrida fusione dei due modelli. Il nostro legislatore infatti ha previsto sia ipotesi in cui la domanda è fondata su fatti provati documentalmente sia ipotesi in cui la domanda è fondata su fatti meramente affermati dall'attore e le ha assoggettate ad un unico schema procedurale secondo cui, in entrambe le ipotesi, il provvedimento che è emanato inaudita et altera parte, non perde efficacia a seguito della mera proposizione dell'opposizione, ma solo in seguito all'accoglimento dell'opposizione stessa; può essere dichiarato provvisoriamente esecutivo in pendenza dei termini per proporre opposizione o nel corso del giudizio di opposizione; ed è destinato a sopravvivere in caso di estinzione del giudizio di opposizione. Il procedimento d'ingiunzione è un processo tipico, cioè un procedimento che può essere utilizzato soltanto in presenza di determinati requisiti speciali di ammissibilità relativi all’oggetto e alla documentazione indicati dall'art. 633
- Per quanto riguarda l’oggetto va detto che il decreto ingiuntivo è limitato alle sole azioni di condanna aventi ad oggetto
- diritti di credito ad una somma di danaro liquida ed esigibile (ex art. 633, 2 comma).Sono esclusi i crediti che derivano da fatto illecito, mentre non lo sono gli interessi moratori e il maggior danno eccezion fatta per quello da svalutazione monetaria
b) diritti alla consegna di una determinatà quantità di cose fungibili
c) diritti alla consegna di cose mobili determinate.
2) Per quanto riguarda i requisiti relativi alla documentazione va detto che occorre la prova scritta del diritto tranne il caso in cui il credito abbia ad oggetto
- onorari o rimborsi di spese a favore di avvocati, procuratori o di chi in generale abbia prestato la propria opera in occasione di un processo
- onorari, diritti o rimborsi di spese spettanti a notai o ad altri esercenti una libera professione o arte per la quale esiste una tariffa legalmente approvata .
In questi casi infatti il requisito della prova scritta è di regola sostituito dalla parcella sottoscritta dal creditore e corredata dal parere della competente associazione professionale. Occorre rilevare che ai fini del decreto ingiuntivo la nozione di prova scritta non è quella prevista dal c.c. valida per il processo a cognizione piena, ma quella prevista dall'art. 634 c.p.c per il quale sono prove scritte idonee
- le polizze, e le promesse unilaterali per scrittura privata e i telegrammi, anche se mancanti dei requisiti prescritti dal codice civile (ad es lo scritto proveniente da un terzo o la scrittura privata del debitore non riconosciuta).
- gli estratti autentici delle scritture contabili di un imprenditore regolarmente bollate e vidimate che fanno prova non solo nei rapporti con un altro imprenditore ma anche nei confronti di chi non è imprenditore quando si tratta di crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché di crediti per prestazioni di servizi
- i libri e i registri della P.A. quando un funzionario all’uopo autorizzato o un notaio ne attesti la regolare tenuta e si tratti di crediti dello stato o di enti o istituti soggetti a tutela o vigilanza dello stato.
Ci si è chiesti se gli elementi di documentazione debbano essere considerati come prove o come requisiti formali dato che se si considerano requisiti formali, il giudice, dopo averne accertato la sussistenza deve necessariamente rilasciare il decreto ingiuntivo mentre se si considerano strumenti probatori, il giudice, può rilasciare il decreto solo dopo che li abbia valutati secondo il suo prudente apprezzamento e si sia convinto, della esistenza dei fatti costitutivi del credito. Inoltre va detto che se si considerano requisiti formali, siamo alla presenza di norme eccezionali e come tali non estensibili in via analogica.
IL PROCEDIMENTO
Il procedimento ingiuntivo descritto negli art 638 e s.s si introduce con ricorso, contenente oltre ai requisiti generali indicati dall’art 125
- l'indicazione. delle prove che si producono;
- l'indicazione del procuratore del ricorrente, oppure, quando è ammessa la costituzione personale, la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito. In mancanza di tale indicazione e dichiarazione le notificazioni al ricorrente possono essere fatte presso la cancelleria.
c) la dichiarazione della somma di danaro che il ricorrente è disposto ad accettare in mancanza della prestazione in natura, a definitiva liberazione dell'altra parte se si tratti di domanda di consegna di cose fungibili.
Il ricorso deve essere depositato in cancelleria insieme con i documenti che si allegano i quali una volta depositati, non possono essere ritirati prima della scadenza del termine stabilito nel decreto d'ingiunzione in modo da consentire alla parte avversaria di esaminarli al fine di decidere se proporre opposizione contro il provvedimento. Depositato il ricorso, in assenza di contraddittorio il giudice prende cognizione del fascicolo contenente il ricorso e i documenti. Si tratta di una cognizione sommaria sia perché parziale in quanto ha ad oggetto solo i fatti allegati dal ricorrente, sia perché superficiale dato che essa non avviene sulla base di prove che valgono nel processo a cognizione piena. Superficiale è anche la cognizione con riferimento all'avvenuto adempimento della prestazione o al verificarsi della condizione infatti per la prova della esigibilità del credito il legislatore si accontenta di elementi atti a far presumere il loro avverarsi. Una volta presa conoscenza del fascicolo il giudice:
1) se ritiene insufficientemente giustificata la domanda anzichè respingerla dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a integrare la prova e nell'ipotesi speciale di domanda riguardante la consegna di cose fungibili, se ritiene che la somma dichiarata non sia proporzionata invita il ricorrente a produrre un certificato della Camera di Commercio, Industria ed Agricoltura dal quale risulti il prezzo delle cose dovute. Ove il ricorrente non risponda all'invito, o non ritiri il ricorso oppure se la domanda non sia accoglibile il giudice rigetta la domanda con decreto motivato che non pregiudica la riproposizione della domanda in via ordinaria o nella forma speciale del ricorso ex art. 638.
2) Se invece ritiene che sussistano le condizioni per l’emissione con decreto ingiunge all'altra parte di pagare la somma o di consegnare la cosa o la quantità di cose chieste o, invece di queste, di pagare la somma che il creditore si è dichiarato disposto ad accettare nel termine di 40 giorni con l’espresso avvertimento che entro lo stesso termine può essere fatta opposizione e che, in mancanza di opposizione, si procederà ad esecuzione forzata. Quando ricorrano giusti motivi il termine può essere ridotto a 10 giorni o aumentato fino a 60 giorni. Il ricorrente deve poi provvedere a notificare al debitore, una copia autentica del ricorso e del decreto di ingiunzione entro il termine di 60 giorni dalla pronuncia se la notificazione è fatta nel territorio della repubblica e di 90 giorni negli altri casi (art. 644) e la notificazione determina la pendenza. della lite (art. 643, 3 comma). In mancanza di tale notificazione il decreto d'ingiunzione diventa inefficace ma la domanda può essere riproposta
Il decreto ingiuntivo non è provvisoriamente esecutivo ex lege, ma il giudice può attribuirgli tale efficaciaex art. 642 c.p.c:
- se il credito è fondato su cambiale anche non bollata assegno bancario, assegno circolare, certificato di borsa, atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato
- se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo ma in tal caso il giudice può imporre al ricorrente di prestare una cauzione
Il decreto ingiuntivo esecutivo costituisce titolo per l'iscrizione della ipoteca giudiziale.
IL GIUDIZIO D’OPPOSIZIONE
L'opposizione è l'impugnazione tipica del decreto di ingiunzione. Essa si propone con atto di citazione, se la controversia è soggetta al rito ordinario, o con ricorso, se la controversia è soggetta al rito del lavoro. A seguito dell'opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del processo di primo grado ma i termini di comparizione sono ridotti della meta (art. 645, 2° comma). L'opposizione da vita ad un giudizio a cognizione piena in cui le parti risultano invertite anche se va precisato che non vi è l'inversione dell'onere della prova il quale continuerà a gravare sempre sul creditore opposto che assume formalmente la veste di convenuto. Il giudizio d'opposizione ha una doppia funzione: esso infatti ha ad oggetto sia l'accertamento del credito fatto valere con il decreto ingiuntivo sia l’impugnazione del decreto stesso. Nel corso del giudizio d'opposizione può avvenire:
1) che il giudice concede, con ordinanza, la provvisoria esecuzione del decreto d'ingiunzione se l'opposizione non è fondata su prove scritte o di pronta soluzione ed essa non sia già stata concessa ai sensi dell'art. 642 oppure se il creditore offra cauzione per l'ammontare delle eventuali restituzioni, spese, e danni (si tratta di un potere non di un dovere del giudice) Concessa l'esecuzione provvisoria il decreto è titolo per iscrivere ipoteca giudiziale ex art.655. Occorre rilevare che l'espressione prove di pronta soluzione va intesa nel senso di prove che possono essere acquisite nell'ambito della stessa udienza, per le quali cioè non è necessaria la fissazione di una nuova udienza
2) che l’opponente quando ricorrono gravi motivi chieda al giudice di sospendere la provvisoria esecuzione concessa ai sensi dell'art. 642. Occorre rilevare al riguardo che tale sospensione non è titolo per la cancellazione dell'ipoteca giudiziale eventualmente iscritta.
3) che se il processo si estingue per inattività delle parti o rinuncia agli atti del giudizio, il decreto che non né sia già munito acquista efficacia esecutiva (immutabilità), divenendo equivalente ad una sentenza di condanna passata in giudicato. Questa disposizione costituisce una deroga all'art. 310, 2° comma, c.p.c. che si limita a salvare dall'estinzione del processo a cognizione piena, di primo grado, le sole sentenze di merito, ed e invece conforme al dettato dell'art. 338 c.p.c., relativo all'estinzione del giudizio d'appello.
4) che il giudizio d'opposizione si concluda:
a) con il rigetto dell'opposizione, per cui la sentenza dichiara la legittimità del decreto e l'esistenza del diritto. In questo caso il decreto diventa immutabile ex art. 653, 1° comma; e costituisce il titolo esecutivo, mentre sarà l'accertamento contenuto nella sentenza a fare stato tra le parti, cioè ad avere efficacia di giudicato. In sostanza in questa ipotesi l'opposizione non ha efficacia sostitutiva rispetto al decreto;
b) con il totale accoglimento dell'opposizione con sentenza dichiarativa dell'inesistenza del diritto. In questo caso il decreto è eliminato dal mondo giuridico.
- con l'accoglimento parziale dell’opposizione. In questo caso la sentenza dichiara l'illegittimità del decreto e l'esistenza del diritto ma per un quantum diverso da quello indicato originariamente, il titolo esecutivo è costituito dalla sentenza ma gli atti d'esecuzione già compiuti in base al decreto conservano i loro effetti nei limiti della somma o della quantità ridotta.
MANCATA OPPOSIZIONE
Nel caso in cui, entro il termine stabilito dall'art. 641, (40 giorni)non sia stata proposta opposizione, il giudice che ha pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del ricorrente lo dichiara esecutivo e altrettanto avviene nel caso in cui l’opposizione sia stata proposta, ma il debitore non si sia costituito. Nel primo caso però il giudice deve ordinare che sia rinnovata la notificazione (del ricorso e del decreto) quando risulta o appare probabile che l'intimato non abbia avuto conoscenza del decreto (art. 647, 1°comma).
Bisogna precisare che l'espressione dichiara esecutivo il decreto va interpretata nel senso che il decreto acquista efficacia di cosa giudicata sostanziale. In mancanza dell’opposizione il decreto divenuto esecutivo ex art. 647 puo essere impugnato con revocazione ex art. 395, nn. 1, 2, 3, 6; con 1'opposizione di terzo revocatoria ex art 404, 2° comma, e con l'opposizione tardiva ex art. 650 ove l'intimato non abbia potuto fare opposizione per mancata tempestiva conoscenza del decreto a causa di irregolarità nella notificazione o per caso fortuito o forza maggiore; e anche quando, pur avendo avuto tempestiva conoscenza del decreto, non abbia potuto proporre opposizione per caso fortuito o forza maggiore. L'ultimo comma dell'art. 650 prevede, poi, che l'opposizione non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione.
IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO
Il procedimento per convalida di sfratto costituisce un procedimento speciale di cognizione caratterizzato:
a) sul piano strutturale dalla circostanza che lo svolgimento del processo con le forme e le garanzie proprie della cognizione piena (libro II c.p.c.) è fatto dipendere dalla volontà del convenuto, per cui ove il convenuto, regolarmente citato, non manifesti tale volontà il processo, sempre che sussistano i presupposti generali e speciali di ammissibilità si conclude nelle forme semplificate dell'ordinanza di convalida apposta in calce alla citazione e non con sentenza
- sul piano funzionale dall’esigenza di economia processuale, di evitare il costo del processo a cognizione piena quando esso non sia giustificato da una contestazione effettiva del convenuto per cui, in tale ipotesi, viene consentito al locatore di munirsi tramite una procedura fortemente semplificata; di un titolo esecutivo di formazione giudiziale per la riconsegna del bene locato senza essere costretto a percorrere, la lunga strada del processo a cognizione piena.
Il procedimento per convalida di sfratto è un processo giurisdizionale contenzioso idoneo ad attribuire al locatore vittorioso utilità equivalenti a quelle proprie di una sentenza passata in giudicato dato che l'ordinanza di convalida di sfratto ex art. 663 contiene, un accertamento del diritto del locatore alla restituzione dell'immobile che fa stato in tutti i futuri giudizi fra le stesse parti. Del tutto diversa per struttura e funzione, dall'ordinanza di convalida di sfratto ex art. 663 c.p.c., è l'ordinanza immediata di rilascio ex art. 665 c.p.c. Questa disposizione presuppone infatti che vi sia la contestazione della domanda da parte del conduttore convenuto e quindi la sua volontà che il processo si svolga nelle forme e con le garanzie della cognizione piena ma in parziale deroga a quelle forme e a quelle garanzie consente al giudice di emanare, su richiesta del locatore, un provvedimento di condanna con riserva delle eccezioni sollevate dal convenuto che non siano fondate su prova scritta.
Premesso che in base alla legge n. 392/1978, sull'equo canone, la durata della locazione avente per oggetto immobili urbani per uso abitativo non può essere inferiore a quattro anni e che il contratto si intende rinnovato per lo stesso periodo se nessuna delle parti comunica disdetta all'altra, con lettera raccomandata almeno sei mesi prima della scadenza, l'art. 657, 1° comma, disciplina il caso in cui il termine per la disdetta non è ancora scaduto e il locatore voglia escludere la rinnovazione tacita del contratto. In questo caso il locatore può intimare la licenza per finita locazione almeno sei mesi prima della scadenza del contratto, e contestualmente citare il conduttore a comparire davanti al giudice per ottenere da questi un provvedimento di condanna in futuro al rilascio dell'immobile locato, che sarà azionabile solo quando alla scadenza del contratto non vi sia la restituzione spontanea dell’immobile. La licenza per finita locazione è atto sostanziale di disdetta, mentre la citazione contestuale è un atto processuale. L'interesse del locatore a promuovere questo procedimento è palese: egli intende premunirsi di un provvedimento avente efficacia esecutiva da poter azionare alla scadenza del contratto. Il 2° comma, disciplina invece il caso in cui il contratto sia già scaduto e la disdetta sia già stata spedita ma il conduttore non procede a rilasciare l'immobile. In tal caso il locatore può intimare lo sfratto e contestualmente citare il conduttore in giudizio per ottenere un provvedimento di condanna al rilascio immediato dell'immobile locato.
L'art. 658, disciplina infine il caso dell’inadempimento del conduttore nel pagamento del canone consentendo al locatore di intimare lo sfratto per morosità indipendentemente da qualsiasi valutazione sulla gravità dell'inadempimento, e contestualmente citare il convenuto a comparire all’udienza di convalida. In questa ipotesi il locatore non mira ad ottenere un provvedimento di condanna all'immediato rilascio dell'immobile ma un provvedimento di risoluzione del contratto.
IL PROCEDIMENTO
Il giudizio sia ex art. 657 che ex art. 658, è introdotto con citazione contenente i requisiti di cui all'art. 163 c.p.c.
Competente per materia per la fase di rilascio è il pretore del luogo dove si trova l’immobile locato. L'intimazione deve contenere la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio da parte del locatore nel comune dove ha sede il giudice adito, altrimenti tutti gli atti gli potranno essere notificati presso la cancelleria.
L'intimazione deve essere notificata secondo le regole generali degli art. 137 e ss. ,ma è esclusa la notificazione al domicilio eletto (art. 660, 1° comma). Se l'intimazione non è stata notificata in mani proprie, l'ufficiale giudiziario deve spedire avviso all'intimato dell'effettuata notificazione a mezzo di lettera raccomandata, e allegare all'originale dell'atto la ricevuta di spedizione. Una volta notificata la licenza o l'intimazione di sfratto con la contestuale citazione a comparire, si può verificare che all'udienza fissata:
a) non compaia il locatore;
b) non compaia il conduttore,
c) il conduttore compaia e non sollevi eccezioni
d) il conduttore compaia e si opponga.
Nel primo caso il processo è destinato ad estinguersi, ma gli effetti sostanziali dell'atto di disdetta eventualmente contenuto nella citazione permangono. Nel secondo e terzo caso il processo si conclude in forme semplificate avendosi al posto della sentenza un’ordinanza esecutiva costituita da un timbro apposto in calce alla citazione con cui si definisce il giudizio e che è idonea a passare in giudicato(art. 663). Nel quarto caso il processo si svolge secondo le forme ordinarie. Occorre rilevare che nell'ipotesi in cui il conduttore non sia comparso, il giudice deve ordinare che sia rinnovata la notificazione della citazione se risulta o appare probabile che l'intimato non ne abbia avuto conoscenza o non sia potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore (art. 663).
Nel caso di sfratto per morosità, il locatore, per ottenere la convalida, deve attestare in giudizio per iscritto o verbalmente anche a mezzo del suo procuratore, che la morosità persiste e il giudice può anche imporgli di prestare una cauzione (art. 663, 3° comma). Ai sensi dell’art. 664 c.p.c., il locatore può chiedere al giudice adito di pronunciare decreto d'ingiunzione per l'ammontare dei canoni scaduti e da scadere fino all'esecuzione dello sfratto e per le spese relative all'intimazione. Tale decreto pur essendo immediatamente esecutivo è soggetto all'opposizione la quale peraltro non toglie efficacia alla già avvenuta risoluzione del contratto. Occorre infine precisare che mentre la mancata opposizione del conduttore comparso ha carattere definitivo, di ammissione dei fatti costitutivi allegati dall’attore l’ammissione conseguente alla mancata comparizione può essere superata tramite il rimedio dell'art. 668. Si tratta della c.d. opposizione tardiva dopo la convalida, concessa nelle ipotesi di mancata tempestiva conoscenza della citazione per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore; nonché nelle l'ipotesi in cui il conduttore pur avendo avuto conoscenza della citazione, non sia potuto comparire all'udienza di convalida per caso fortuito o forza maggiore. Con tale opposizione che non è più consentita ove siano decorsi 10 giorni dal primo atto di esecuzione l'intimato mira ad ottenere la rimessione in termini. Concludendo va ricordato che nel caso in cui l’ordinanza sia stata illegittimamente concessa si applica il principio della prevalenza della sostanza sulla forma per cui essa sarà impugnabile con gli stessi rimedi previsti per le sentenze.
ORDINANZA IMMEDIATA DI RILASCIO EX ART 665
L’ordinanza immediata di rilascio è prevista dall’art 665 il quale recita che se l'intimato comparisce e oppone eccezioni non fondate su prova scritta, il giudice, su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario, pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni del convenuto. Il provvedimento è immediatamente esecutivo ma può essere subordinato alla prestazione di una cauzione. Tale ordinanza che è diversa dalla ordinanza di convalida di sfratto in quanto non definisce il giudizio costituisce sul piano strutturale una delle ipotesi tipiche di condanna con riserva delle eccezioni del convenuto previste dal nostro ordinamento mentre sul piano funzionale è una tipica applicazione della tutela sommaria (sommaria perchè parziale) previste per evitare l'abuso di diritto di difesa da parte del convenuto.
Occorre rilevare che la scheletrica disposizione dell'art. 665 presenta numerose lacune di difficile se non impossibile, soluzione a causa dell'assenza nel nostro ordinamento di una disciplina generale della condanna con riserva a cui riferirsi. In particolare è incerto:
a) se l'ordinanza immediata di rilascio sia subordinata o no ad una delibazione sommaria dell'infondatezza delle eccezioni sollevate dal convenuto (a nostro modo di vedere la risposta è positiva)
b) che cosa debba intendersi con l'espressione gravi motivi in contrario (a nostro modo di vedere in questo caso viene lasciato al giudice ampio potere discrezionale)
- quale sia natura dell'ordinanza. Al riguardo va detto che mentre la giurisprudenza di merito è varia la cassazione ritiene che si tratti di un provvedimento sommario semplificato esecutivo cioè di un provvedimento che in caso di estinzione della fase relativa alle eccezioni riservate, conserva unicamente efficacia esecutiva per cui un successivo giudizio a cognizione piena, potrebbe sempre accertare l'inesistenza del diritto a tutela del quale l'ordinanza era stata emanata.
DIFFERFNZE TRA DECRETO INGIUNTIVO E LA CONVALIDA DI SFRATTO
La differenza fondamentale tra il decreto ingiuntivo e il provvedimento di convalida di sfratto è data dal fatto che mentre il primo è emanato inaudita et altera parte in assenza di contraddittorio anticipato, il secondo è emanato dopo che l'intimato sia stato messo in condizione di contraddire. Ciò comporta che mentre l'opposizione a decreto ingiuntivo presuppone la già avvenuta emanazione di un provvedimento decisorio, anche se sommario ed è quindi una vera e propria impugnazione ordinaria che, se non proposta, rende immutabile il decreto e la statuizione in esso contenuta in ordine al diritto azionato dal creditore; la mancata opposizione del conduttore intimato e convenuto ai sensi degli art. 657 e 658 si verifica quando ancora non è stato emanato alcun provvedimento decisorio; per cui essa opera solo come non contestazione dei fatti affermati dall'attore e non come preventiva rinuncia all'impugnazione o come accettazione del provvedimento che verrà in seguito emanato dal giudice. Ciò significa che il giudice dovrà in ogni caso verificare la sussistenza dei presupposti generali e speciali di ammissibilità e il convenuto potrà proporre impugnazione
FUNZIONE E STRUTTURA DELLA CONDANNA CON RISERVA .
Per evitare che il convenuto abusi del diritto di difesa il legislatore ricorre alla tecnica della condanna con riserva delle eccezioni. In base ad essa il giudice, conosciuti i soli fatti costitutivi del diritto, emette un provvedimento giurisdizionale di merito rinviando ad una fase processuale successiva la cognizione in ordine alle eccezioni del convenuto. Il provvedimento caratterizzato da una cognizione sommaria perché parziale è immediatamente esecutivo ma tale efficacia è risolutivamente condizionata all'accoglimento delle eccezioni. La tecnica della condanna con riserva è una tecnica processuale estremamente ambita dato che offre al creditore sicure garanzie di riscossione del credito ed una esecuzione anticipata rispetto alla cognizione piena ma allo stesso tempo è molto pericolosa dato che comporta una compressione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio pur in assenza di un periculum in mora per l’attore. I presupposti di tale tecnica sono:
- la prova piena o la non contestazione dei fatti costitutivi del diritto azionato
b) la delibazione sommaria del giudice sulla infondatezza delle eccezioni sollevate dal convenuto.
In questo modo, mentre la verifica dei fatti costitutivi allegati dall'attore avviene con una cognizione piena, la verifica della fondatezza delle eccezioni del convenuto avviene con una cognizione superficiale in quanto il giudice può avvalersi di ogni elemento dedotto in giudizio. Nel nostro ordinamento le ipotesi di condanna con riserva, sono tipiche. L’ipotesi più generale è quella che si ricava dall’art 1462 c.c. il quale consente ad una delle parti contrattuali di subordinare mediante apposita clausola il proprio diritto di sollevare eccezioni in giudizio al previo adempimento degli obblighi contrattuali. In questo caso infatti il giudice verrà a conoscenza delle difese del convenuto solo dopo la condanna. Altre ipotesi di condanna con riserva sono quelle previste dagli artt 35 e 36 c.p.c.(eccezione di compensazione e cause riconvenzionali). L'ipotesi tradizionale è comunque quella prevista dalla legge sulla cambiale e sull’assegno bancario dove la condanna con riserva è pronunciata in tutti i casi in cui il convenuto sollevi eccezioni di lunga indagine e sempre che non concorrano gravi ragioni in contrario. Anche l’ordinanza di immediato rilascio dell'immobile ex art. 665 c.p.c. e quella che ex’art 648 1° comma consente nel giudizio di opposizione la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo costituiscono ipotesi tipiche di condanna con riserva. Per concludere va detto che la forma del provvedimento di condanna con riserva può essere sia la sentenza quanto l'ordinanza. Le sentenze di condanna con riserva sono da considerare species del genus delle sentenze non definitive; e come tali sopravvivono alla estinzione del giudizio relativo alle eccezioni riservate. Quanto alle ordinanze di condanna con riserva, va detto che mentre l'ordinanza ex art. 648, 1° comma, si consolida in ipotesi di estinzione del giudizio di opposizione, l’ordinanza ex art. 665 secondo la Cassazione, conserverebbe solo efficacia esecutiva in ipotesi di estinzione del giudizio.
PROCEDIMENTO EX ART. 148 C.C.
Premesso che ex art. 147 C.C il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli il successivo art . 148 C.C. prevede un procedimento sommario indicando al primo comma i soggetti obbligati al mantenimento e cioè i genitori in proporzione alle rispettive sostanze e alle loro capacità di lavoro professionale o casalingo e, in assenza di mezzi da parte dei genitori, gli altri ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità. Secondo tale articolo in caso di inadempimento il presidente del tribunale su istanza di chiunque vi ha interesse, sentito l'inadempiente ed assunte sommarie informazioni, può ordinare con decreto che una quota dei redditi dell'obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata direttamente all'altro coniuge o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione della prole. Come è evidente siamo in presenza di un procedimento in cui la cognizione è sommaria perchè superficiale dato che le modalità di acquisizione al processo degli strumenti di conoscenza non sono quelle previste dal libro 2° del c.p.c., ma sono determinate dal giudice di volta in volta, con l'unico vincolo di far presto. Conclusa la cognizione, il giudice emette un provvedimento giurisdizionale avente la forma del decreto che ai sensi del 3 comma dell'art. 148 c.c. costituisce titolo esecutivo e deve essere notificato agli interessati ed eventualmente al terzo debitore i quali possono proporre opposizione nel termine di 20 giorni dalla notifica instaurando un procedimento a contraddittorio pieno diretto ad accertare oltre all’eventuale illegittimità del decreto anche l’an e il quantum del diritto. Nel decreto di condanna all'adempimento dell’obbligo di mantenimento, il giudice può anche ordinare che il terzo debitor debitoris (datore di lavoro del soggetto obbligato o conduttore dell'immobile di proprietà dello stesso) versi direttamente una parte dei redditi dell'obbligato (cioè dello stipendio o del canone) a chi sopporta le spese per il mantenimento. Tale forma di tutela è estremamente incisiva: si determina infatti una cessione legale del credito periodico che il soggetto obbligato vanta nei confronti del terzo debitor debitoris, il quale si libererà del proprio obbligo pagando direttamente al soggetto che sostiene le spese del mantenimento.
La tecnica utilizzata è simile a quella del decreto ingiuntivo ma se ne discosta perché mentre il decreto ingiuntivo è emanato inaudita et altera parte ed è quindi, un provvedimento sommario a cognizione parziale, il decreto ex art. 148 c.c. è invece emanato quando il contraddittorio sia pur nei confronti della sola parte inadempiente si è realizzato ed è quindi, un provvedimento sommario a cognizione superficiale. Oltre a ciò va detto che la funzione del decreto ex art 148 non è quella di economia dei giudizi bensì quella di effettività della tutela
IL PROCEDIMENTO DI REPRESS1ONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE EX ART. 28 L. 300/70
L'art. 28 L.300/70 prevede un procedimento sommario di carattere superficiale a tutela di esigenze di urgenza ed effettività della tutela giurisdizionale in caso di comportamento antisindacale del datore di lavoro. Soggetti legittimati ad agire sono gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse.
L'atto introduttivo è il ricorso al pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunciato. A seguito del ricorso il pretore convocate le parti e assunte sommarie informazioni pronuncia nel termine di due giorni decreto motivato ed immediatamente esecutivo con cui ordina la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Data la brevità del termine da (ritenersi comunque ordinatorio) è da ritenere che le parti possano essere convocate anche per via telefonica, telegrafica, ecc. e che le sommarie informazioni vengano assunte anche d'ufficio con modalità stabilite dal giudice. Contro il decreto del pretore entrambe le parti, possono proporre opposizione nel termine di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento la quale però non sospende l'efficacia esecutiva del decreto non essendo esso revocabile fino alla sentenza con cui viene definito il giudizio di opposizione. Occorre rilevare che sia il decreto che la sentenza sono garantiti da una sanzione penale in caso di inottemperanza del datore. Nel caso in cui non venga proposta opposizione il decreto resta fermo e diviene immutabile .
PROVVEDIMENTI ANTICIPATORI DI CONDANNA EMESSI IN CORSO DI CAUSA
La l. 353/90 ha introdotto nell'ordinamento due nuove ipotesi di provvedimenti anticipatori di condanna: l'ordinanza per il pagamento delle somme non contestate e l'ordinanza di ingiunzione. Per effetto dell’art 186 bis le liti da pretesa insoddisfatta e non contestata potranno sempre dar luogo alla rapida formazione di un titolo esecutivo essendo consentito in qualsiasi controversia all’attore, di ottenere immediatamente il pagamento delle somme di danaro che il convenuto non gli contesti ma che semplicemente si rifiuta di pagare finche dura la controversia. Dall’esame di tale articolo risulta che:
a) oggetto del provvedimento può essere solo il pagamento di somme e non anche l'adempimento di ogni altra obbligazione
2) presupposti del provvedimento sono l’istanza della parte e la non contestazione proveniente dalle parti costituite
- termine finale per l'emanazione dell'ordinanza è il momento della precisazione delle conclusioni
- l'efficacia del provvedimento è data dal suo costituire titolo esecutivo ma non anche titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale
5) il regime del provvedimento è quello dell'ordinanza revocabile per cui essa non può mai pregiudicare la decisione della causa
Il precedente più immediato della disposizione in esame è costituito, senza dubbio dall'art. 423 1° comma, ma a differenza dell’ordinanza ex art. 423, 1° comma, l'art. 186 bis precisa che la non contestazione deve provenire dalle parti costituite, per cui essa non può essere pronunciata in ipotesi di contumacia, ed inoltre detta il regime dell'ordinanza nel corso e in caso di estinzione del processo di cognizione. Occorre rilevare che la disposizione dell’art 186 bis ha dato luogo a vari problemi interpretativi sia per ciò che concerne i presupposti sia per ciò che concerne la natura dell’ordinanza. Quanto ai presupposti va detto che generalmente si ritiene
a) che occorre la non contestazione dei fatti posti dall'attore a fondamento del diritto di credito e, al tempo stesso la mancata proposizione da parte del convenuto di eccezioni di merito;
b) che occorre la verifica in iure, da parte del giudice, della idoneità dei fatti dedotti dall'attore a produrre gli effetti da lui affermati e dell'assenza di fatti impeditivi modificativi o estintivi emergenti dagli atti e rilevabili d'ufficio
c) che vi sia la delibazione della infondatezza delle eccezioni di rito sollevate dal convenuto e della inesistenza di impedimenti di rito rilevabili d'ufficio
Va anche precisato che la non contestazione deve essere parziale dato che in mancanza di contestazione totale il giudice se si tratta di diritti disponibili anzichè emanare l’ordinanza dovrebbe invitare le parti a precisare le conclusioni nella stessa udienza e pronunciarsi con sentenza ai sensi dell’art 187. Quanto al momento in cui l'ordinanza può essere pronunciata, non dovrebbero esserci dubbi circa l'inammissibilità di una sua emanazione anteriore alla prima udienza richiedendosi quanto meno il fallimento del tentativo di conciliazione così come esposto nella relazione Acone-Lipari al senato.
Per quanto riguarda infine la natura dell’ordinanza va detto che alcuni ritengono che si tratti di un provvedimento ordinatorio definitivo che attribuisce efficacia esecutiva all'accordo delle parti, altri, che si tratti di un provvedimento sommario semplificato esecutivo cioè di un provvedimento dotato solo di efficacia esecutiva e non anche di efficacia di giudicato formale o sostanziale per cui in caso di estinzione del processo a cognizione piena, l'accertamento contenuto nell'ordinanza potrebbe essere messo in discussione in un futuro processo a cognizione piena, se del caso instaurato in via di opposizione all’esecuzione ex art. 615. mentre a nostro modo di vedere si tratta di un provvedimento a contenuto decisorio cioè di un provvedimento idoneo a diventare immutabile (DIFFERENZA DA VERDE)
L’ORDINANZA DI INGIUNZIQNE EX ART l86 TER
L’ordinanza ex art 186 ter non fa altro che trapiantare in un processo iniziato nelle forme della cognizione piena la disciplina del procedimento per ingiunzione contenuta negli art 633 s.s. I presupposti speciali di ammissibilità per l'emanazione dell'ordinanza d'ingiunzione di pagamento o di consegna sono:
a) quanto all'oggetto gli stessi indicati per il decreto ingiuntivo e cioè credito di una somma di danaro liquida ed esigibile, credito di una determinata quantità di cose fungibili o credito alla consegna di una cosa mobile determinata, il tutto sempre che, ove il diritto dipenda da una controprestazione, questa sia stata adempiuta
b) quanto agli elementi di documentazione del credito, il solo requisito della prova scritta, nel senso ampio di cui all’art. 634,
- quanto al termine finale in cui può essere richiesta, il momento della precisazione delle conclusioni.
La provvisoria esecutorietà dell'ordinanza ex art. 186 ter, è dichiarata ove ricorrano i presupposti di cui all'art. 642, nonchè, ove la controparte non sia contumace, quelli di cui all'art. 648, 1° comma. La formulazione della disposizione non è delle più felici. A nostro modo di vedere deve ritenersi che
1) in ipotesi di contumacia del convenuto l'ordinanza di ingiunzione deve essere dichiarata provvisoriamente esecutiva solo ove ricorrano i presupposti di cui all'art. 642, 1° comma e cioè credito fondato su cambiale, assegno bancario o circolare, certificato di liquidazione di borsa, atto notarile o atto pubblico mentre può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva nel caso previsto dal 2 comma cioè quando vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo
2) in ipotesi di controparte costituita l’ordinanza deve essere dichiarata provvisoriamente esecutiva solo quando ricorrano i presupposti del 1° comma dell’art 648 e cioè quando le eccezioni proposte dal convenuto non siano fondate su prova scritta o di pronta soluzione con la precisazione però che la provvisoria esecutività non potrà essere mai disposta ove la controparte abbia disconosciuto la scrittura privata prodotta contro di lei o abbia proposto querela di falso contro l'atto pubblico.
A differenza del decreto ingiuntivo il quale non può mai essere revocato dal giudice istruttore nel corso del giudizio di opposizione, ma solo dichiarato nullo per difetto dei presupposti generali o speciali di ammissibilità, l'ordinanza di ingiunzione ex art. 186-ter, sia o no esecutiva è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli artt. 177 e 178, 1° comma. Ciò comporta che la revoca dell’ordinanza di ingiunzione esecutiva costituisce titolo per la cancellazione dell'ipoteca giudiziale eventualmente iscritta e che l'ordinanza è destinata ad essere assorbita dalla sentenza di accoglimento o di rigetto che definisce il giudizio a cognizione piena. Nel caso invece di estinzione del giudizio a cognizione piena, a nostro modo di vedere l’ordinanza ex art 186 ter al pari del decreto ingiuntivo è destinata ad divenire immutabile trattandosi di un provvedimento sommario con attitudine al giudicato e ciò malgrado il 4° e 5° comma dicano solo che essa acquisti efficacia esecutiva ove non ne sia già munita (DIFFERENZA DA VERDE). Per concludere va precisato che l’ordinanza di ingiunzione ex art 186 ter deve essere notificata a pena di inefficacia al contumace con l’espresso avvertimento che ove la parte non si costituisca entro il termine di 20 giorni dalla notifica essa diverrà esecutiva (deve ritenersi diviene immutabile).
TUTELA CAUTELARE
Sappiamo che ogni processo ha una sua durata fisiologica. Poiché può accadere che durante il tempo occorrente per ottenere una sentenza esecutiva l’attore possa subire un pregiudizio grave o irreparabile il legislatore ha cercato di neutralizzare tale pregiudizio sia a livello sostanziale tramite istituti come ad es. il pegno e l’ipoteca (interruzione della prescrizione) sia a livello processuale tramite la tecnica dei titoli esecutivi di formazione stragiudiziale e soprattutto tramite la tecnica della tutela sommaria cautelare. In questo modo si cerca di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale cioè di far sì che l’attore consegua tutto quello e proprio quello che ha diritto di conseguire a livello di diritto sostanziale. La funzione della tutela cautelare è dunque quella di neutralizzare i danni che possono derivare all’attore che ha ragione dalla durata del processo a cognizione piena quando essi non siano già stati neutralizzati da istituti di diritto sostanziale, da specifici effetti sostanziali della domanda, dalla esistenza di titoli esecutivi stragiudiziali o infine tramite il ricorso a processi sommari non cautelari. Premesso che la differenza sostanziale tra la tecnica della tutela sommaria cautelare e la tecnica della tutela sommaria non cautelare è data dal fatto che solo la seconda è destinata a sfociare in provvedimenti idonei a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso va detto che la tecnica della tutela cautelare consiste nel conferire alla parte il potere di chiedere al giudice l’emanazione di un provvedimento sommario al termine di un procedimento (o di un sub procedimento in caso di richiesta ante causa) egualmente sommario sulla base della valutazione
- della probabile esistenza del diritto che costituisce o costituirà oggetto del processo a cognizione piena cd. FUMUS BONI IURIS
- della probabile sussistenza di un danno che può derivare all'attore dalla durata, o anche a causa della durata, del processo a cognizione piena cd. PERICULUM IN MORA
Caratteristica strutturale della tutela cautelare è la provvisorietà del provvedimento cioè la sua inidoneità, a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso. Al riguardo va però detto che la provvisorietà del provvedimento, non comporta necessariamente anche la provvisorietà degli effetti si pensi ad es. alla conversione del sequestro conservativo in pignoramento o alla sentenza che accertando l’esistenza del diritto per cui la cautela era stata concessa consolidi gli effetti anticipatori già prodotti dalla misura cautelare. Accanto alla provvisorietà la dottrina suole indicare come ulteriore e complementare caratteristica strutturale dei provvedimenti cautelari la strumentalità. Con questa espressione si vuole indicare che le misure cautelari non sono mai fine a se stesse, ma sono immancabilmente preordinate alla emanazione di un ulteriore provvedimento definitivo, di cui assicurano provvisoriamente la fruttuosità pratica. Da quanto detto ne deriva che i provvedimenti cautelari
a) se emanati ante causam sono destinati sempre a divenire inefficaci se il giudizio di merito non sia instaurato entro il termine perentorio fissato dal giudice o, in mancanza entro il termine perentorio di trenta giorni previsto in via generale dalla legge (art. 669-octies c.p.c.). Lo stesso dicasi quando il processo di merito si estingua o si concluda con sentenza anche non passata in giudicato che dichiari l’inesistenza del diritto per cui la cautela era stata concessa.(art 669-novies)
b) possono essere sempre revocati o modificati se durante l'istruzione da parte del giudice della causa di merito si verifichino dei mutamenti nelle circostanze (art. 669-decies)
PERICOLO DA INFRUTTUOSITA’ E DA TARDIVITA’
Il periculum in mora che i provvedimenti cautelari sono chiamati a neutralizzare può essere di due specie :
- il c.d. pericolo da infruttuosità cioè il pericolo che, durante il tempo necessario per lo svolgimento del processo a cognizione piena, sopraggiungano dei fatti tali da rendere impossibile o molto più difficoltosa la concreta possibilità di attuazione della sentenza a cognizione piena (si pensi ad es al pericolo neutralizzato dai sequestri conservativi o giudiziari)
b) il c.d. pericolo da tardività cioè il pericolo che sia la mera durata del processo col protrarre nel tempo lo stato di insoddisfazione del diritto ad essere causa di pregiudizio (si pensi ad es. al pericolo neutralizzato dall’assegno provvisorio in tema di alimenti o dall’ordinanza di reintegra immediata nel posto di lavoro o in genere da un provvedimento d’urgenza ex art 700)
Come è evidente mentre nel primo caso il provvedimento cautelare mira solo ad apprestare in anticipo i mezzi atti a far si che l'esecuzione forzata del diritto quando sarà possibile sia praticamente efficace nel secondo caso il provvedimento cautelare mira ad accelerare la soddisfazione in via provvisoria del diritto. In altri termini mentre in caso di pericolo da infruttuosità la misura cautelare deve prevenire il danno che può derivare dal verificarsi, durante le more del processo, di fatti che possano impedire la soddisfazione del diritto controverso, nel caso di pericolo da tardività la misura cautelare deve impedire, tramite la tecnica della anticipazione della soddisfazione, il pregiudizio che il perdurare di una situazione antigiuridica provoca al titolare del diritto. Coerentemente a queste due specie di pericula in mora, è possibile distinguere i provvedimenti cautelari in due grosse categorie:
- provvedimenti cautelari conservativi della situazione di fatto o di diritto su cui dovrà incidere la futura sentenza,
- provvedimenti cautelari anticipatori della soddisfazione del diritto.
Occorre rilevare che la corrispondenza tra pericolo da infruttuosità e provvedimenti cautelari conservativi da un lato e tra pericolo da tardività e provvedimenti cautelari anticipatori dall'altro lato viene meno con riferimento ai provvedimenti di istruzione preventiva i quali per un verso sono destinati ad anticipare la acquisizione del materiale istruttorio e per altro verso hanno lo scopo di prevenire il danno, ulteriore rispetto a quello derivante dalla mera durata del processo, che può derivare al diritto alla prova dalla perdita del mezzo di prova o dell'oggetto della prova.
IL SISTEMA CAUTELARE ITALIANO
Per comprendere il sistema di tutela cautelare attualmente vigente in Italia è opportuno notare che in astratto sono pensabili due sistemi:
A) Il sistema totalmente atipico che prevede un unico procedimento cautelare per tutti i pericula in mora che assurgano agli estremi della irreparabilità del pregiudizio e che è destinato a sfociare in provvedimenti cautelari il cui contenuto non è predeterminato dal legislatore, ma viene individuato di volta in volta dal giudice es tipico il sistema tedesco
- il sistema tipico temperato da una misura atipica a carattere residuale che prevede sia misure cautelari tipiche per pericula in mora a loro volta tipicizzati dal legislatore e rispetto ai quali è irrilevante un indagine sulla irreparabilità o meno del pregiudizio sia la predisposizione di una misura cautelare atipica e residuale diretta a neutralizzare tutti i pericula in mora non previsti dalle misure tipiche i quali assurgano agli estremi della irreparabilità del pregiudizio. Questo sistema è quello accolto dal codice di procedura dove accanto a misure come i sequestri, ordinanze provvisionali vi è l’art 700
LA PERICOLOSITA’ DELLE MISURE CAUTELARI ED I RIMEDI
E’ opinione comune che la tutela cautelare come del resto ogni forma di tutela sommaria presenta un alto grado di pericolosità dato che può accadere che ove al termine del giudizio a cognizione piena l’attore risulti soccombente il provvedimento cautelare si risolva in un danno ingiusto a carico del destinatario passivo. Per ovviare a ciò il legislatore ha fatto ricorso all’istituto delle cauzioni (oggi previste in via generale dall'art. 669-undecies c.p.c.) le quali pertanto costituiscono un provvedimento contro cautelare, a garanzia del diritto al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96, 2 comma, c.p.c. spettante al convenuto in caso di inesistenza del diritto per cui la misura cautelare è stata concessa ed eseguita. In realtà il rimedio utilizzato dal legislatore è criticato dalla dottrina prevalente sostenendosi da più parti che lo strumento tecnico delle cauzioni può concretamente operare solo ove le misure cautelari siano poste a tutela di diritti a contenuto e funzione prevalentemente patrimoniali e il soggetto che chiede la misura cautelare sia un soggetto abbiente.
LE MISURE CAUTELARI TIPICHE
I sequestri sono tipici provvedimenti cautelari, a contenuto conservativo diretti ad assicurare la fruttuosità pratica del provvedimento principale che sarà nel caso di sequestro giudiziario una sentenza di condanna alla consegna o al rilascio, e nel caso di sequestro conservativo una sentenza di condanna al pagamento di una somma di danaro.
SEQUESTRO GIUDIZIARIO
Il sequestro giudiziario di beni è disciplinato dall’art 670 n.1 c.p.c. il quale recita che il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario di beni mobili o immobili, aziende o altre universalità di beni, quando ne è controversa la proprietà o il possesso, ed è opportuno provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea. Presupposti di tale sequestro giudiziario sono dunque:
1) in primo luogo l'esistenza di una controversia sulla proprietà o sul possesso della cosa non necessariamente di un processo pendente
2) in secondo luogo, l'opportunità di provvedere alla custodia o alla gestione temporanea dei beni controversi. Occorre cioè che il soggetto dimostri che, nell'attesa della sentenza a cognizione piena, il bene oggetto di controversia rischi di essere soggetto a deterioramento, sottrazione o alterazione se lasciato nella disponibilità della controparte o di un terzo
Occorre rilevare che poiché il sequestro giudiziario, mira ad assicurare la fruttuosità pratica di una futura esecuzione per consegna o rilascio ex art. 605 ss. c.p.c. esso è ammissibile solo con riferimento a beni determinati, infungibili e suscettibili di detenzione. Con lo stesso provvedimento con cui autorizza il sequestro giudiziario, il giudice nomina il custode, stabilisce i criteri e i limiti dell'amministrazione delle cose sequestrate e le particolari cautele idonee a rendere più sicura la custodia e a impedire la divulgazione dei segreti. Il giudice può nominare custode quello dei contendenti che offre maggiori garanzie e da cauzione oppure lo stesso soggetto che già detiene o possiede il bene oggetto di controversia. Il custode della cosa sequestrata ha gli obblighi e i diritti previsti negli articoli 521, 522, 560.
L'art. 677 dispone poi che sequestro giudiziario si esegue a norma degli articoli 605 e seguenti, in quanto applicabili (esecuzione per consegna o rilascio)omessa la notificazione del precetto nonchè la comunicazione di cui all'articolo 608, 1° comma ove si tratti di bene immobile e sia nominato custode il detentore del bene.
Il c.p.c. non prevede la trascrizione del sequestro giudiziario di beni immobili, coerentemente alla circostanza che la cautela contro atti di disposizione giuridica in tema di beni immobili non è assicurata dal sequestro giudiziario, ma dal diverso istituto, della trascrizione delle domande giudiziali previsto dal c.c. Ci si è chiesti se il sequestro giudiziario assolve la funzione di cautela sia contro atti di disposizione materiale sia contro atti di disposizione giuridica del bene. A nostro modo di vedere deve ritenersi che
1) se il sequestro ha ad oggetto beni mobili o universalità di beni mobili, esso ha funzione di cautela contro i danni derivanti sia da atti di disposizione materiale sia da atti di disposizione giuridica. Entrambe queste funzioni sono realizzate tramite la responsabilità civile e penale a carico del custode;
- se invece il sequestro ha ad oggetto beni immobili, esso ha funzione di cautela solo contro i danni derivanti da atti di disposizione materiale dato che quella contro i danni derivanti da atti di disposizione giuridica è assicurata dal diverso istituto della trascrizione delle domande giudiziali.
SEQUESTRO CONSERVATIVO
La disciplina del sequestro conservativo è contenuta negli artt. 2905, 2906 del c.c. e negli artt. 671 ss c.p.c.
Il sequestro conservativo è un istituto avente la finalità di conservare il patrimonio del debitore che ex art. 2740 c.c. è posto a garanzia dell'adempimento delle sue obbligazioni. L'art. 2905, 1° comma, c.c. prevede che il creditore può chiedere il sequestro conservativo dei beni del debitore secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile. A tal fine l'art. 671 del c.p.c. recita che il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia(generica ex art 2740) del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento. Una volta ottenuto il sequestro non hanno effetto in pregiudizio del creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa sequestrata, in conformità alle regole stabilite per il pignoramento. Come è evidente si tratta solo di una inefficacia relativa dato che gli atti di disposizione eventualmente compiuti sono pienamente validi ed efficaci tra il debitore e il terzo, essendo solo inopponibili al creditore sequestrante. Da quanto detto ne deriva che a differenza del sequestro giudiziario il sequestro conservativo ha la funzione di assicurare la fruttuosità pratica di una futura espropriazione forzata (esso è strumentale ad una sentenza di condanna ad una somma di danaro e non ad una sentenza di condanna alla consegna o al rilascio) e che a differenza del pignoramento esso crea un vincolo di cui si può giovare solo il creditore sequestrante e non anche gli altri creditori del debitore che eventualmente intervengano nel processo di espropriazione avente ad oggetto il bene sequestrato.
La norma che più di ogni altra consente di individuare il nesso di strumentalità che sussiste tra il sequestro conservativo e la sentenza a cognizione piena è l’art 686 c.p.c il quale dispone che una volta che il creditore sequestrante abbia ottenuto una sentenza di condanna esecutiva, il sequestro si converte automaticamente in pignoramento. Sarà quindi la sentenza di condanna a produrre gli effetti giuridici ulteriori ed in primo luogo a consentire la messa in moto e la prosecuzione del processo di espropriazione forzata. Legittimati al rilascio del sequestro conservativo sono solo i creditori che si affermano titolari di un diritto di credito avente per oggetto una somma di denaro o una certa quantità di cose fungibili, e non anche quelli che si affermano titolari di diritti di credito aventi per oggetto la consegna o il rilascio di una cosa determinata. Non è necessario che il credito vantato sia liquido certo ed esigibile essendo sufficiente solo che sia approssimativamente determinabile nel suo ammontare e ciò sia al fine di poter commisurare il valore dei beni da assoggettare a sequestro; sia al fine di rendere applicabile al sequestro il principio della proporzione tra il valore dei beni pignorati e il valore del credito per cui si procede. Ci si è chiesti se sia ammissibile il sequestro conservativo quando il creditore disponga di un titolo esecutivo. Al riguardo bisogna distinguere
- se si tratta di un titolo esecutivo di formazione giudiziale, il sequestro è inammissibile perchè il creditore può sia iscrivere ipoteca giudiziale sia iniziare l'esecuzione.
- se si tratta di un titolo esecutivo di formazione stragiudiziale il sequestro è invece ammissibile dato che il creditore può iniziare il giudizio a cognizione piena per conseguire la certezza propria del giudicato sostanziale in ordine all'esistenza del diritto azionato e per ottenere una sentenza di condanna con cui poter iscrivere l’ipoteca giudiziale.
Per concludere va detto che pur essendo il periculum in mora tipicizzato dal legislatore e cioè l'insolvenza del debitore la valutazione in ordine alla sua sussistenza in concreto è rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Al riguardo la giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri di massima ad es rapporto tra consistenza del patrimonio del debitore ed entità del credito, comportamento del debitore che lasci presumere che egli, ponga in essere atti tali da depauperare il suo patrimonio sottraendolo così all'esecuzione.
AZIONI DI NUNCIAZIONE
Le azioni di nunciazione, sono tipici procedimenti cautelari atti a dare tutela giurisdizionale urgente a situazioni sostanziali di marca tipicamente proprietaria.
Le denunce di nuova opera e di danno temuto sono disciplinate sia dagli art 669 bis e seguenti sia dagli artt. 1171 e 1172 c.c.
1) L'art. 1171 c.c., al primo comma, dispone che il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da una nuova opera, da altri intrapresa sul proprio come sull'altrui fondo, sia per derivare danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o del suo possesso, può denunciare all'autorità giudiziaria la nuova opera, purchè questa non sia terminata e non sia trascorso un anno dal suo inizio.
La norma tipicizza tanto la situazione soggettiva tutelata quanto il periculum in mora. Legittimato attivo è solo il proprietario, il titolare di un diritto reale di godimento o il possessore, e la situazione di pericolo deve essere determinata dal ragionevole timore di un danno causato da un'attività umana in itinere. Si ritiene al riguardo che occorra una relazione di causa/effetto tra la nuova opera e il timore ragionevole del danno (nesso eziologico); il quale deve essere ingiusto o comunque incidente su interessi giuridicamente rilevanti non essendo sufficiente il mero danno materiale. Il pregiudizio che la misura cautelare tende a neutralizzare può consistere:
1) nel periculum da infruttuosità pratica della sentenza di condanna alla distruzione dell'opera illegittimamente compiuta quando essa non possa trovare attuazione essendo la distruzione della cosa pregiudizio all’economia nazionale
2) nel periculum da tardività del provvedimento principale
Il contenuto del provvedimento cautelare che può essere emanato dal giudice è descritto dal 2° comma dell'art. 1171 e può consistere tanto nella sospensione dell'opera quanto nell'autorizzazione alla sua continuazione. Nel caso in cui il giudice ordini la sospensione dell'opera il provvedimento ha carattere di anticipazione parziale della futura sentenza di accoglimento in quanto non può contenere l'ordine di demolizione ma solo impedire che il diritto del proprietario o il possesso continui ad essere violato durante il tempo necessario per ottenere una sentenza di condanna. Il legislatore, consapevole della pericolosità intrinseca ad ogni misura cautelare, ha previsto che, sia nel caso di sospensione che di continuazione dell'opera il giudice disponga il versamento di una cauzione al fine di bilanciare gli opposti interessi in gioco.
La cauzione, posta a carico del beneficiario della misura cautelare, infatti mirerà a garantire o il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione, qualora la cautela risulti infondata o il risarcimento del danno subito dal denunziante; e le spese necessarie per la demolizione o riduzione dell'opera quando dopo che sia stata autorizzata con la misura la prosecuzione dell'opera, il denunziante ottenga una sentenza a lui favorevole.
2) L'art. 1172, 1° comma, c.c. dispone che il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma 1'oggetto del suo diritto o del suo possesso, può denunziare il fatto all'autorità giudiziaria e ottenere, secondo le circostanze, che si provveda per ovviare al pericolo. La situazione cautelata è anche qui la proprietà e il possesso; e tipico è il periculum in mora che deve consistere nel pericolo di un danno, qualificato come grave e prossimo che può derivare al bene oggetto di proprietà o di possesso da un edificio, albero o altra cosa. La particolarità della norma è data dal fatto che essa costituisce uno dei pochi casi in cui si mira a sanzionare non un illecito di danno (v. art. 1171 c.c.), ma un illecito di pericolo. In sostanza la misura cautelare mira ad eliminare una situazione di pericolo che ancora non ha prodotto un danno, siamo cioè di fronte ad una tutela c.d. inibitoria, diretta a prevenire il verificarsi del danno stesso. A differenza del contenuto del provvedimento ex art. 1171, che è tipico qui dovendosi rimuovere un pericolo, il legislatore ha ritenuto opportuno lasciare al giudice il compito di determinare in concreto secondo le circostanze quale sia la misura cautelare più opportuna (atipico).
La misura cautelare è predisposta non tanto per neutralizzare un pericolo da infruttuosità di una futura esecuzione forzata ma soprattutto e in primo luogo per neutralizzare un pericolo da tardività della sentenza. Sempre a differenza della denuncia di nuova opera dove vi è un’anticipazione solo parziale del contenuto del provvedimento definitivo nella denuncia di danno temuto l'anticipazione può essere completa dato che in questo caso il danno non si è ancora verificato,(si tratta cioè di un provvedimento cautelare a contenuto totalmente anticipatorio ad es. ordine di abbattimento di un albero). Per concludere va però precisato che anche se la misura cautelare è idonea a tutelare pienamente il titolare del diritto ciò non esclude la necessità di una successiva fase a cognizione piena.
I PROVVEDIMENTI DI ISTRUZIONE PREVENTIVA
L’ordinamento prevede accanto ai provvedimenti cautelari diretti a tutelare situazioni giuridiche sostanziali anche provvedimenti cautelari diretti a tutelare un diritto processuale e precisamente il diritto alla prova. Le ipotesi più rilevanti di provvedimenti di questo tipo sono quelle previste dalla sezione 4 del capo 3 libro 4 c. p. c. dedicata ai procedimenti di istruzione preventiva e precisamente l'assunzione di testimoni a futura memoria(art. 692), l'accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale (art. 696) nonché quella prevista dall’art 670 n 2 relativo al sequestro giudiziario di prove
L'art. 692 dispone che chi ha fondato motivo di temere che siano per mancare uno o più testimoni, le cui deposizioni possono essere necessarie in una causa da proporre, può chiedere che ne sia ordinata l'audizione a futura memoria. L'art. 696 prevede che chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato dei luoghi o la qualità o la condizione di cose, può chiedere che sia disposto un accertamento tecnico o un'ispezione giudiziale.
Come è evidente mentre il provvedimento di cui all'art. 692 mira a neutralizzare il pregiudizio consistente nel rischio di perdere il mezzo di prova cioè di non poter utilizzare la testimonianza nel futuro processo; al contrario il provvedimento di cui all'art. 696 tende a neutralizzare non tanto il rischio di perdere il mezzo di prova (tanto l'ispezione quanto la consulenza tecnica sono infatti sempre possibili), quanto piuttosto quello di perdere l'oggetto stesso della prova( e il caso di merci deperibili di cui sia necessario accertare l'avaria al momento della consegna o dello stato dei luoghi suscettibile di modificazione nel tempo).
Poiché il diritto cautelato è il diritto alla prova il provvedimento che il giudice emanerà non anticipa in modo alcuno come invece accade per gli altri provvedimenti cautelari la decisione sul merito della controversia, ne taluno dei suoi effetti. per cui la valutazione del fumus boni iuris da parte del giudice non avrà ad oggetto la verosimiglianza della fondatezza del diritto sostanziale, bensì l'ammissibilità e la rilevanza, dei mezzi di prova che si intendono assumere in via preventiva per il futuro giudizio.
Il ricorso infatti deve contenere l'indicazione dei fatti sui quali debbano essere interrogati i testimoni, e l’esposizione sommaria delle domande o eccezioni alle quali la prova è preordinata. Occorre rilevare che l’esposizione sommaria non occorre quando l'istanza di istruzione preventiva sia proposta in corso di causa e nelle fasi di sospensione e interruzione del processo. Come tutti i provvedimenti cautelari anche i provvedimenti ex artt. 692 e 696 sono strumentali al processo a cognizione piena e precisamente all'ordinanza che, nell'ambito del giudizio, disporrà in ordine all'ammissibilità e rilevanza della prova. La differenza rispetto ai normali provvedimenti è data dalla loro efficacia che è illimitata nel tempo dato che una volta ottenuto il rilascio della misura istruttoria, il ricorrente non ha l'obbligo di instaurare il giudizio di merito entro un termine stabilito dal giudice ed il provvedimento cautelare non diviene inefficace se il processo a cognizione piena, si estingua. Per quanto riguarda le modalità di assunzione delle prove va detto che devono essere rispettate per quanto possibile le disposizioni degli artt. 191 ss e che al termine dell'assunzione delle prove viene redatto processo verbale ai sensi dell'art. 207.
Quanto agli effetti dell'assunzione preventiva, dei mezzi di prova va detto che essa non pregiudica ne le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza ne la loro rinnovazione nel giudizio di merito. Per concludere va chiarito che la produzione anche in copia o il semplice richiamo dei processi verbali relativi ai mezzi di prova assunti in via preventiva sarà possibile solo se abbia avuto esito positivo il giudizio di ammissibilità effettuato dal giudice del merito. E questa l'unica ipotesi in cui la produzione di documenti è soggetta alla valutazione preventiva di ammissibilità.
SEQUESTRO GIUDIZIARIO DI PROVE
L'art. 670 n. 2 dispone che il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario di libri, registri, documenti, modelli, campioni e di ogni altra cosa da cui si pretenda desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione; ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea.
La misura cautelare in esame si differenzia dal sequestro giudiziario di beni in relazione all'oggetto, ai presupposti e alla funzione, mentre valgono anche per essa le disposizioni circa la custodia previste per il sequestro ex art. 670 n.1
Oggetto di sequestro non sono mobili, immobili, aziende o altre universalità, ma documenti modelli ecc.
I presupposti per il rilascio della misura cautelare sono i seguenti:
a) l'astratta idoneità del documento o di altro bene a fornire elementi di prova. Il giudice dovrà cioè valutare in base ad una cognizione sommaria se la prova che si intende assumere sia rilevante ai fini della esistenza o inesistenza del diritto che si intende far valere (o che è già stato fatto valere) nel processo a cognizione piena
b) l'opportunità della custodia temporanea;
c) la sussistenza di una controversia sul diritto all'esibizione o alla comunicazione.
Occorre rilevare che poiché generalmente si ritiene che l’ordine di esibizione o di comunicazione ex art. 210 c.p.c. non è eseguibile coattivamente mentre il sequestro giudiziario di documenti ex art. 670 n.2 è eseguibile coattivamente ai sensi dell'art. 677, in giurisprudenza si ritiene che solo nell’ipotesi in cui vi sia una controversia relativa al diritto all'esibizione e il periculum in mora della distruzione, deterioramento o perdita dei documenti, viene assicurata l'ottemperanza all'ordine di esibizione della parte o del terzo; ottenendosi più di quanto si possa ottenere in via generale .
I PROVVEDIMENTI D’URGENZA
L'art.700, posto al termine del capo relativo ai procedimenti cautelari, dispone che fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito.
Dalla lettera della disposizione si desume che ci troviamo di fronte ad un procedimento sommario cautelare volto all’emanazione di un provvedimento idoneo, ad assicurare o ad anticipare, provvisoriamente, gli effetti della futura decisione sul merito. Tale provvedimento, caratterizzato da una cognizione sommaria perchè superficiale è:
- provvisorio perchè inidoneo a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso essendo questa dettata unicamente dalla sentenza emessa al termine del processo a cognizione piena,
- strumentale in quanto la sua efficacia viene meno se non è iniziato o proseguito il processo destinato a sfociare nella sentenza di merito.
La funzione dell'istituto è quella di munire di tutela sommaria urgente tutti i diritti purchè, oltre al requisito generalissimo del fumus boni iuris (requisito non previsto espressamente dall'art.700, ma indicato nell'art.669-sexies), il titolare abbia fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile.
A differenza delle altre misure cautelari che sono misure tipiche i provvedimenti d'urgenza sono caratterizzati da una duplice atipicità essendo atipico sia il periculum in mora sia il contenuto dei provvedimenti. Da quanto detto ne deriva che tali provvedimenti possono essere richiesti (a tutela di qualsiasi diritto) per neutralizzare qualsiasi periculum in mora purchè esso assurga agli estremi del pregiudizio imminente ed irreparabile; e che il contenuto del provvedimento, viene individuato dal giudice, sulla base del solo criterio dell'idoneità ad assicurare provvisoriamente gli effetti della futura decisione sul merito. E’ agevole comprendere quindi l'importanza dell'art. 700. Tale norma infatti assolve la funzione di munire di tutela cautelare tutti quei diritti che, in assenza di misure cautelari tipiche potrebbero subire un pregiudizio imminente ed irreparabile a causa della durata anche fisiologica del processo a cognizione piena. Occorre però rilevare che l’art 700 a cui possono fare ricorso anche i giudici speciali non è tuttavia applicabile
a) ove a tutela di un diritto e soprattutto dello specifico periculum in mora sia già prevista dal codice o dalla legislazione speciale una misura cautelare tipica. L’applicazione è invece consentita quando si voglia neutralizzare un diverso pericolo
b) ove, a favore di un diritto, sia previsto un procedimento sommario tipico non cautelare: es. artt. l48 c.c.; 28 l. 300/70; oppure ove sia prevista una fase sommaria urgente, tipica, entro il processo ordinario a cognizione piena. es. artt. 642, 648,(esecuzione provvisoria decreto ingiuntivo) o infine un procedimento speciale sommario che si concluda con un provvedimento sommario esecutivo
c) per sospendere l'efficacia esecutiva di un provvedimento giurisdizionale o di un titolo esecutivo di formazione stragiudiziale
e) per ottenere la cancellazione dell’ipoteca giudiziale, prima del passaggio in giudicato della sentenza di rigetto o dei provvedimenti previsti dall'art. 2884 c.c.
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- quando si tratti non di diritto ma di interesse semplice
L’IRREPARABILITA’ DEL PREGIUDIZIO
Sul requisito dell'irreparabilità del pregiudizio va detto che le tradizionali teorie facenti capo al Satta, Montesano, e Andrioli, a nostro modo di vedere non possono essere accolte perché considerano l’irreparabilità con esclusivo riferimento al diritto mentre secondo noi essa va considerata soprattutto con riferimento alla persona titolare del diritto. A tal fine si deve ritenere che
a) non è causa di un pregiudizio irreparabile la violazione o la minaccia di violazione di un diritto avente funzione patrimoniale ma solo quella di un diritto a contenuto e funzione non patrimoniale,(es. diritti della personalità) e quella delle libertà costituzionalmente protette come ad es. diritto dei genitori ad educare i figli, diritto alla libera manifestazione del pensiero, diritto alla salute, etc
b) è irreparabile il pregiudizio derivante dalla violazione o dalla minaccia della violazione di diritti a contenuto patrimoniale, ma a funzione non patrimoniale si pensi ad es. ai crediti di mantenimento, al diritto del lavoratore illegittimamente licenziato o trasferito ad essere reintegrato nel posto di lavoro al diritto alla fruizione di un servizio pubblico essenziale gestito in regime di concessione o di monopolio, ecc.
c) è altresì irreparabile il pregiudizio quando pur trattandosi di un diritto a contenuto e funzione esclusivamente patrimoniale, lo scarto tra danno subito (anche a causa del protrarsi della violazione durante il giudizio di merito) e danno risarcito sia eccessivo si pensi ad es. alle ipotesi di concorrenza sleale, appalto
- è infine irreparabile il pregiudizio che possa essere cagionato al titolare di un diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento quando questi abbia urgenza di vincere la resistenza possessoria altrui per godere di una facoltà riconosciutagli dalla legge o dal contratto, e non sussistano i presupposti per la tutela possessoria (esempi sono: il diritto ad accedere sul fondo del vicino ,il diritto del conduttore alla manutenzione dell'immobile locato ovvero alla attivazione dell'impianto centralizzato di riscaldamento; il diritto del locatore di far visitare l'appartamento da parte di terzi in prossimità della scadenza del contratto di locazione).
LA PERICOLOSITA’ DELL’ART 700
Alcuni autori per ovviare alle ipotesi in cui l'attuazione dei provvedimenti d'urgenza determini una situazione di fatto irreversibile ritengono che i giudici debbano subordinare la concessione del provvedimento alla prestazione di cauzioni esose o restringerne l’ammissibilità(si pensi ad es. ai casi in cui la modifica o la revoca del provvedimento interverrebbe quando si e realizzata una situazione di fatto per la cui eliminazione sono necessarie azioni recuperatorie di esito incerto). A nostro modo di vedere invece la consapevolezza della pericolosità dei provvedimenti d'urgenza deve influire sul giudice nel senso:
1) di non imporre cauzione a danno dei non abbienti;
2) di ridurre la superficialità della cognizione in modo da limitare, il possibile ribaltamento del giudizio nel processo a cognizione piena
3) di valutare comparativamente il danno che subirebbe l'istante dalla mancata concessione del provvedimento d'urgenza e il danno che subirebbe la controparte dalla sua concessione;
4) di modellare ove possibile il contenuto del provvedimento d'urgenza in modo tale da neutralizzare il pregiudizio irreparabile dell'istante e allo stesso tempo ridurre al minimo il rischio della irreversibilità dei suoi effetti sia tramite cauzioni adeguate sia tramite l'anticipazione solo parziale di quanto richiesto ( ad es. dei soli interessi e non del capitale).
5) di utilizzare semmai la dichiarazione giurata dell'avvocato (istituto dell’affidavit di origine anglosassone)
CONTENUTO DEI PROVVEDIMENTI EX ART 700
Il contenuto del provvedimento ex art: 700 è individuato unicamente sulla base della sua idonietà ad assicurare, provvisoriamente, e secondo le circostanze gli effetti della decisione sul merito. Ciò significa che il provvedimento può avere sia carattere conservativo sia carattere anticipatorio per cui esso mira a neutralizzare sia un pericolo da infruttuosità sia un pericolo da tardività. Poichè tuttavia nel nostro ordinamento il settore della tutela cautelare conservativa è quasi completamente coperto da misure cautelari tipiche, la necessità di ottenere un provvedimento ex art. 700 si avvertirà più spesso con riferimento al pericolo da tardività essendo assai limitati, nell'ordinamento, i procedimenti cautelari tipici tendenti a neutralizzarlo.
LA DISCIPLINA DEI PROVVEDIMENTI CAUTELARI IN GENERALE
Sino all’emanazione della legge del 90 /353 non esisteva nel nostro ordinamento un unico modello di procedimento cautelare applicabile a tutti i provvedimenti cautelari tipici o atipici richiesti prima o nel corso del giudizio a cognizione piena. La legge 90/353 ha introdotto per i procedimenti cautelari una disciplina unitaria che deve essere integrata con quella dei procedimenti cautelari tipici. Si tratta della disciplina contenuta nella 1 sezione titolo 1 del 4° libro intitolata dei procedimenti cautelari in generale e composta da 13 articoli da 669 bis a 669 quaterdecies. Quest’ultimo articolo è quello che segna il campo di applicazione di tale disciplina affermando che le disposizioni di tale sezione si applicano a tutti i provvedimenti cautelari previsti dalle sezioni 2, 3, 5, (cioè sequestri, nuova opera danno temuto procedimenti d’urgenza e possessori)ed in quanto compatibili agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali. Ai provvedimenti di istruzione preventiva previsti dalla sezione 4 si applica invece solo l’art 669 septies relativo al provvedimento negativo. La disciplina si articola in tre fasi
1) la fase di autorizzazione del provvedimento cautelare che ha caratteristiche strutturali simili a quella dell’attività di cognizione e si svolge su domanda dell’interessato. Tale fase si chiude con un provvedimento che ha la forma del decreto o dell’ordinanza con il quale il giudice previo riscontro dei presupposti e delle condizioni di fondatezza della misura cautelare autorizza oppure nega l’autorizzazione della misura stessa.
2) la fase di attuazione della misura cautelare che ha caratteristiche strutturali assimilabili a quelle dell’esecuzione forzata e dove il provvedimento autorizzativo ha le stesse caratteristiche di un titolo esecutivo
3) la fase dell’impugnazione che consente un controllo sul provvedimento autorizzativo dato che esso può incidere durevolmente ed irreparabilmente sulla situazione tra le parti
FASE DI AUTORIZZAZIONE
La disciplina della prima fase inizia con l’art 669 bis il quale recita che la domanda si propone con ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente. Tale ricorso deve contenere oltre ai requisiti generali previsti dall’art 125, l’indicazione delle condizioni proprie dell’azione cautelare e cioè del periculum in mora e del fumus boni iuris, nonchè se proposto ante causam anche gli elementi individuatori della proponenda azione per il merito. Depositato il ricorso il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta senza ritardo al P. del tribunale o al pretore dirigente il quale provvede a designare il magistrato al quale è affidata la trattazione del procedimento che sarà sempre un giudice unico tranne il caso delle sezioni specializzate agrarie. L’individuazione del giudice competente è compiuta dagli art 669 ter, quater, quinquies i quali distinguono l’ipotesi della domanda proposta ante causam da quella proposta in corso di causa. In particolare
1) nel caso di richiesta ante causam la domanda si propone al giudice competente a conoscere del merito e nel caso in cui questo sia il G. di pace al pretore. Se il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di merito la domanda va proposta al giudice del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento che sarebbe competente per materia o per valore.
2) nel caso di richiesta in pendenza del procedimento di merito il ricorso va proposto al giudice di tale procedimento e più esattamente
- al G. I. se la causa pende davanti al tribunale
b) al pretore se la causa pende davanti a lui o al G. di pace
c) al giudice che ha pronunciato la sentenza se vi è la pendenza del termine d’impugnazione
d) al giudice del luogo dove dovrebbe essere eseguito il provvedimento cautelare che sarebbe competente per materia o per valore se la causa pende innanzi ad un giudice straniero o quando l’azione civile sia stata esercitata o trasferita nel processo penale
e) al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito se il giudizio penda dinnanzi agli arbitri o quando la controversia sia oggetto di clausola compromissoria o sia compromessa in arbitri
Occorre rilevare che nel caso in cui la causa penda davanti al tribunale se il G. I. non è stato ancora designato o se il giudizio è sospeso o interrotto l’istanza va proposta al presidente del tribunale il quale si limita a designare il magistrato al quale è affidata la trattazione del procedimento. Quanto alle modalità dell’instaurazione del contraddittorio e alla possibilità della parte di replicare con atto difensivo scritto deve ritenersi malgrado la genericità della disciplina che il giudice pronuncia un decreto di comparizione delle parti da notificarsi alla controparte insieme con il ricorso e che il convenuto possa depositare una memoria difensiva scritta all’udienza di comparizione. Il contraddittorio che si svolge in tale udienza è sommario. Tale sommarietà si manifesta in primo luogo nel fatto che per la prova del fumus e del periculum il giudice può basarsi anche solo sui documenti esibiti dal ricorrente o assumere solo quando occorre sommarie e rapide informazioni senza alcuna particolare formalità o infine solo sulla verosimiglianza delle asserzioni della parte istante. Dispone infatti l’art’ 669 sexies che il giudice sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda . In secondo luogo la sommarietà del contraddittorio si concreta nel fatto che in taluni casi la legge consente al giudice di provvedere inaudita et altera parte. Dispone infatti il 2° comma che quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento il giudice provvede con decreto motivato assunte ove occorra sommarie informazioni fissando con lo stesso decreto l’udienza di comparizione delle parti davanti a se entro un termine perentorio non superiore a 15 giorni e assegnando all’istante un termine perentorio non superiore ad 8 giorni per la notificazione del ricorso e del decreto che può essere triplicato nel caso in cui la notificazione debba essere effettuata all’estero. A tale udienza il giudice conferma modifica o revoca con ordinanza i provvedimenti emanati con decreto.
PROVVEDIMENTO DI RIGETTO O DI ACCOGLIMENTO
Le disposizioni dell’art 669 sexies evidenziano che di regola la forma del provvedimento cautelare è quella dell’ordinanza. Solo in caso di provvedimento emanato inaudita et altera parte la forma è quella del decreto destinato poi ad essere confermato revocato o modificato dalla successiva ordinanza. Gli art 669 septies e octies si preoccupano del contenuto del provvedimento. Il primo prende in considerazione il provvedimento a contenuto negativo disponendo che esso è dato sempre con ordinanza che può essere
a) di incompetenza la quale non preclude la riproposizione del ricorso
b) di rigetto nel merito. In questo caso la riproposizione del ricorso è consentita solo quando si verifichino mutamenti nelle circostanze (compreso lo ius superveniens) o quando vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto
Nel caso in cui l’ordinanza di incompetenza o di rigetto è pronunciata nel procedimento autonomo introdotto ante causam essa provvede definitivamente anche sulle spese. Contro la condanna alle spese che è immediatamente esecutiva può essere proposta opposizione con le forme previste per l’opposizione a decreto ingiuntivo in quanto applicabili entro il termine perentorio di 20 giorni dalla pronuncia dell’ordinanza se avvenuta in udienza o altrimenti dalla sua comunicazione. L’art 669 octies prende invece in considerazione il provvedimento di accoglimento disponendo che nel caso di richiesta ante causam la sua efficacia è condizionata dalla introduzione del giudizio di merito entro un termine perentorio non superiore a 30 giorni fissato dal giudice che decorre dalla pronuncia dell’ordinanza se avvenuta in udienza o altrimenti dalla sua comunicazione. In mancanza di fissazione da parte del giudice il termine è di 30 giorni. Sia il provvedimento di accoglimento che quello di conferma o di modifica possono contenere ex art 669 undecies l’imposizione alla parte istante di versare valutata ogni circostanza una cauzione per l’eventuale risarcimento dei danni.
INEFFICACIA DEL PROVVEDIMENTO
La legge affida all’art 669 novies il compito di esplicitare e disciplinare la sanzione di inefficacia del provvedimento nel caso
- di mancata instaurazione del giudizio di merito nel termine perentorio di 30 giorni fissato dalla legge o dal giudice quando il provvedimento sia ante causam
b) di estinzione del giudizio di merito successivamente al suo inizio
c) di mancato versamento della cauzione
d) di dichiarazione di inesistenza del diritto cautelato fatta sia con sentenza anche se non ancora passata in giudicato sia con ordinanza pronunciata a seguito di ricorso al giudice che ha emesso il provvedimento
e) di appartenenza della causa di merito ad un giudice straniero o ad un arbitrato italiano o estero
Nel caso di mancato inizio o di estinzione del giudizio di merito la parte interessata propone un ricorso al giudice che ha emesso il provvedimento il quale stende in calce al ricorso un decreto che convoca le parti e che va notificato alla controparte. All’udienza se non c’è contestazione il giudice dichiara con ordinanza esecutiva l’inefficacia del provvedimento dando le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente. Se vi è contestazione l’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento decide con sentenza provvisoriamente esecutiva salva la possibilità di emanare le ordinanze di revoca o di modifica. Nel caso di mancato versamento della cauzione o di dichiarazione di inesistenza del diritto il giudice provvede con la stessa sentenza o con ordinanza a seguito di un ricorso presentatogli. Nel caso di giurisdizione straniera o di arbitrato italiano o estero il giudice provvede a dichiarare l’inefficacia
a) se dopo la pronuncia della sentenza straniera o del lodo arbitrale la parte che aveva chiesto il provvedimento non presenti domanda di esecutorietà in Italia degli stessi entro i termini previsti a pena di decadenza dalla legge o dalle convenzioni internazionali
b) se sono pronunciati sentenza straniera anche se non ancora passata in giudicato o lodo arbitrale che dichiarino inesistente il diritto per il quale il provvedimento era stato concesso. In questo caso la dichiarazione d’inefficacia avviene con le stesse modalità previste per il mancato inizio.
REVOCA E MODIFICA
L’art 669 decies disciplina l’istanza di revoca o di modifica del provvedimento cautelare nel corso dell’istruzione e fino alla rimessione in decisione dato che prima del giudizio di merito ciò non è possibile. Tale istanza si distingue dal reclamo previsto dall’art 669 terdecies perchè a differenza di questo non contesta l’originaria concedibilità del provvedimento ma fa valere mutamenti sopravvenuti. La revoca o la modifica sono dunque disposti dal G.I. della causa di merito solo a seguito di istanza di parte e solo quando si siano verificati mutamenti nelle circostanze eccezion fatta per il sequestro conservativo in cui ciò è possibile anche quando venga offerta cauzione. Il procedimento nel silenzio della legge dovrebbe essere uguale a quello previsto per la concessione ed è ammissibile anche nei confronti di provvedimenti confermati, modificati, o concessi in sede di reclamo. Nel caso in cui la causa di merito sia devoluta alla giurisdizione straniera o ad arbitrato nonché in caso di azione civile trasferita o esercitata nel processo penale l’istanza di revoca o di modifica si propone al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare.
FASE DI ATTUAZIONE
La fase di attuazione delle misure cautelari è disciplinata dall’art 669 duodecies il quale dispone che salvo le norme che disciplinano autonomamente l’esecuzione dei sequestri i provvedimenti cautelari si attuano
1) se hanno ad oggetto somme di danaro con le forme del pignoramento in quanto compatibili per cui in questo caso il giudice competente viene individuato ex art 16 e 26 c.p.c. e quindi non coincide con quello che ha emanato il provvedimento
2) se hanno ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento(non di quello che l’ha modificato) il quale determina anche le modalità di attuazione e ove sorgano difficoltà o contestazioni dà con ordinanza i provvedimenti opportuni sentite le parti. Ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito.
FASE DI IMPUGNAZIONE
La fase dell’impugnazione dei provvedimenti cautelari disciplinata dall’art 669 terdecies costituisce una delle più importanti novità della nuova disciplina. In linea di principio i provvedimenti cautelari essendo provvisori e quindi non definitivi non dovrebbero essere soggetti ad impugnazione essendo destinati ad essere assorbiti dalla pronuncia di merito. Poiché tuttavia il giudizio di merito può andare per le lunghe e i provvedimenti potrebbero creare delle situazioni difficilmente reversibili il legislatore del 90 ha introdotto l’istituto del reclamo affidandone la decisione ad un giudice diverso da quello che ha emanato il provvedimento e a composizione sempre collegiale disponendo altresì che tale decisione pur essendo sempre provvisoria e quindi revocabile o modificabile è destinata a sostituirsi in tutto e per tutto al provvedimento reclamato. Motivo di reclamo possono essere:
- errores in procedendo
2) errores in iudicando
3) fatti sopravvenuti all’emanazione del provvedimento
Il procedimento di reclamo è disciplinato sulla falsariga dei procedimenti in camera di consiglio alla cui disciplina compie diversi richiami. Provvedimenti impugnabili con il reclamo sono tutte le ordinanze con le quali prima dell’inizio o nel corso di causa di merito sia stato concesso o anche rigettato un provvedimento cautelare. Al riguardo bisogna tuttavia tener conto che la nuova disciplina è stata estesa dall’art.669 quaterdecies anche a tutti i provvedimenti aventi la forma dell’ordinanza pronunciati in tema di sequestri, di denunce, di procedimenti d’urgenza e possessori, nonché a tutti i provvedimenti cautelari previsti dal c.c. e dalle leggi speciali. Sono, invece, esclusi i decreti come ad es. quello ex art. 669 sexies emanato inaudita et altera parte. Giudici competenti per il reclamo sono:
- il tribunale contro i provvedimenti del pretore
- il collegio contro i provvedimenti del tribunale emanati dal giudice monocratico, il quale peraltro, non può più far parte del collegio.
- Una diversa sezione o la corte d’appello più vicina contro i provvedimenti della corte d’appello.
- Una diversa sezione del tribunale o in mancanza la corte d’appello contro i provvedimenti pronunciati dal tribunale in veste collegiale (sezioni specializzate agrarie),o in veste di giudice d’appello.
Il reclamo va proposto nel termine perentorio di 10 giorni dalla notificazione del provvedimento e il procedimento è disciplinato dagli art. 737 e 738 c.p.c. dai quali si desume che il presidente nomina tra i componenti del collegio un relatore che riferisca in camera di consiglio. Il collegio convocate le parti pronuncia non oltre 20 giorni dal deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile con la quale conferma, revoca o modifica il provvedimento cautelare. Tale ordinanza ha carattere sostitutivo e implica un riesame della domanda cautelare nel suo complesso e non del solo provvedimento cautelare. Il reclamo che può essere riproposto solo in caso di motivi sopravvenuti, non sospende l’esecuzione del provvedimento, ma il presidente del tribunale o della corte, investiti del reclamo, possono disporre con ordinanza non impugnabile la sospensione dell’esecuzione, o subordinarla alla prestazione di congrua cauzione quando per motivi sopravvenuti, il provvedimento cautelare arrechi grave danno. L’ordinanza che decide sul reclamo non è impugnabile neppure ex art. 111 Cost., ma può tuttavia essere revocata ai sensi dell’art.669 decies.
AMBITO DI APPLICAZIONE
L'art. 669-quaterdecies prevede che le disposizioni degli art. da 669 bis a 669-terdecies si applicano ai provvedimenti di sequestro, ai provvedimenti in tema di denuncia di nuova opera e di danno temuto, e ai provvedimenti d'urgenza ex art. 700, nonchè, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali.
Quanto ai procedimenti di istruzione preventiva di cui agli art. 692 ss., si applica solo l'art. 669-septies in tema di provvedimento negativo e di spese. La disposizione è di immensa importanza pratica, perché attribuisce a tale disciplina il significato e il valore di 1egge nuova che regola l'intera materia del procedimento cautelare non solo riguardo alle misure cautelari disciplinate dal codice di procedura civile, ma anche riguardo a tutte le misure cautelari disciplinate dal codice civile e dalle leggi speciali. In particolare l'art. 669-quaterdecies ha il compito di derogare esplicitamente al principio secondo cui lex posterior generalis non derogat priori speciali e di comportare, di conseguenza, l'abrogazione per incompatibilità di tutte le disposizioni procedimentali cautelari sparse nel codice civile o nelle leggi speciali .
Per comprendere la portata esatta di tale abrogazione cioè l’ambito di applicazione degli artt. 669-bis a: 669-terdecies, occorre pero avere chiarezza su cosa l'art. 669-quaterdecies intende per provvedimenti cautelari. Si tratta secondo tale articolo di provvedimenti sommari aventi la funzione di assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale tramite la neutralizzazione del pregiudizio irreparabile o comunque grave che può derivare all'attore che probabilmente ha ragione dalla durata o anche a causa della durata del processo a cognizione piena. Strutturalmente essi sono caratterizzati dalla provvisorietà cioè dalla loro inidoneità a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso e dalla strumentalità rispetto al processo a cognizione piena mirando ad assicurare attraverso la tecnica della conservazione o della anticipazione gli effetti del provvedimento definitivo. In particolare il provvedimento cautelare perde efficacia ove il giudizio a cognizione piena non sia instaurato entro il termine perentorio fissato dal giudice o dalla legge nonchè ove questo successivamente al suo inizio, si estingua. Da quanto detto ne deriva che sono esclusi dall’ambito di applicazione della disciplina
- innanzi tutto per difetto dei requisiti di provvisorietà e strumentalità i provvedimenti sommari idonei a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso giustificati da esigenze di economia dei giudizi o da ragioni d’urgenza. Si pensi ad es. al procedimento per ingiunzione ex art. 633 ss.; al procedimento per convalida di sfratto o di repressione della condotta antisindacale.
- In secondo luogo sono esclusi per difetto del requisito della strumentalità i c.d. provvedimenti sommari semplificati esecutivi dotati solo di efficacia esecutiva, ma privi di qualsiasi idoneità a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso come ad es. l'ordinanza immediata di rilascio ex artt 665 e l’ordinanza non impugnabile con cui il G.I. liquida le spese in caso di estinzione del processo per rinuncia
- In terzo luogo sono da escludere, per difetto del requisito della strumentalità, i provvedimenti di condanna con riserva di eccezioni dato che essi, sono destinati a perdere efficacia solo in caso di accoglimento delle eccezioni riservate, e non anche in caso di mancato inizio o di estinzione del processo a cognizione piena relativo alle eccezioni riservate.
L’ESECUZIONE FORZATA.
L’esecuzione forzata ha il compito di realizzare l’effettività della tutela giurisdizionale dato che le sentenze civili offrono solo la possibilità concreta di ottenere soddisfazione e dato che nel nostro ordinamento non è consentito l’uso della forza per costringere altri ad adempiere alle proprie obbligazioni.
Caratteristica dell'esecuzione forzata è il soddisfacimento coattivo del titolare del diritto tramite la sostituzione all'obbligato di un terzo: in particolare dell'organo giurisdizionale. Per sua natura l'esecuzione forzata non è utilizzabile
- per prevenire l'inadempimento;
- per la soddisfazione di diritti che avendo ad oggetto un facere infungibile presuppongono la necessaria cooperazione dell'obbligato.
Sia i1 codice civile (ant. 2910 ss., 2930 ss.) sia il c.p.c. (artt. 483 ss., 605 ss., 612 ss.) distinguono i processi di esecuzione forzata a seconda dell'oggetto dell'obbligo inadempiuto:
- l'espropriazione forzata, in ipotesi di inadempimento dell'obbligo (originario o derivato) di pagare una somma di denaro,
- l'esecuzione per consegna o rilascio in ipotesi di inadempimento dell’obbligo di consegnare un bene mobile o rilasciare un bene immobile
- l'esecuzione di obblighi di fare o di non fare, in caso di inadempimento dell'obbligo di eseguire un’opera o di distruggere un'opera effettuata in violazione di un obbligo di non fare.
Occorre rilevare che mentre nella espropriazione forzata eccezion fatta per l’ipotesi in cui sia pignorata una somma di danaro oggetto del processo esecutivo non è il bene oggetto dell'obbligo inadempiuto ma i beni appartenenti al patrimonio del debitore, nelle esecuzioni forzate per consegna o rilascio e per obblighi di fare o di non fare oggetto del processo esecutivo e direttamente il bene oggetto dell'obbligo inadempiuto. Si tratta della c.d. esecuzione forzata in forma specifica.
IL TITOLO ESECUTIVO
Ai sensi dell'art. 474 qualsiasi specie di esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. Si tratta quindi di un presupposto speciale di ammissibilità del processo esecutivo.
Il 1° comma, di tale articolo individua nella certezza, nella liquidità e nella esigibilità del diritto le caratteristiche comuni a tutti i titoli esecutivi. Come è noto un credito è liquido quando è determinato nel suo ammontare ed è esigibile quando non è soggetto a termine o a condizione sospensiva ovvero quando il termine è scaduto o la condizione si è verificata. Per quanto riguarda invece il requisito della certezza va detto che i titoli esecutivi presentano un diverso grado di certezza a seconda dei fatti costitutivi che sono alla base del credito e che tale diversità mentre non ha alcuna importanza per l'ufficio esecutivo che deve sempre dare corso al procedimento assume invece particolare rilievo in via di opposizione e sospensione dell'esecuzione.
Ai sensi dell'art. 474, 2 comma, sono titoli esecutivi:
1) Le sentenze, e i provvedimenti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva ad es. ordinanze di pagamento delle somme non contestate ex art186-bis e 423, 1° e 3° comma, alla ordinanza di condanna provvisionale di cui all'art. 423, 2° 3° e 4° comma, al decreto con cui il pretore dichiara esecutivo il verbale di conciliazione in materia di lavoro ai sensi degli arts. 411, 3° comma,
2) Le cambiali nonchè gli altri titoli di credito e gli atti ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia. Come ad es. l’assegno bancario il verbale di conciliazione, ecc. ecc.
3) Gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, relativamente alle obbligazioni di somme di danaro in essi contenute. A riguardo va detto che si ritiene che l'atto pubblico sia idoneo a consentire unicamente l'espropriazione forzata, non anche l’esecuzione per consegna o rilascio e di obblighi di fare o non fare
LA FASE PRELIMINARE DELLA NOTIFICAZIONE DEL TITOLO ESECUTIVO E DEL PRECETTO
Fase preliminare ad ogni specie di esecuzione forzata e la preventiva notificazione al debitore del titolo esecutivo e del precetto. Il precetto che deve contenere i requisiti di cui all’art 480 è una intimazione rivolta al debitore di adempiere l'obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di dieci giorni (o in quello maggiore concesso dal creditore), con l'avvertenza che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata. Nel caso in cui vi sia pericolo nel ritardo il creditore può chiedere al capo dell'ufficio giudiziario competente per l’esecuzione di essere autorizzato all'esecuzione immediata senza dover attendere il termine dilatorio di dieci giorni (art 482).Tale fase preliminare assolve ad una duplice funzione:
- avvisare il debitore della volontà di iniziare l'esecuzione forzata allo scopo di consentirgli un'ulteriore possibilità d’adempimento spontaneo
2) consentire al debitore di proporre ex art. 615 opposizione a precetto contestando il diritto del creditore istante di procedere ad esecuzione forzata ed instaurando a tal fine un autonomo processo a cognizione piena dato che nel nostro ordinamento, manca un controllo giurisdizionale preventivo sulla idoneità del titolo esecutivo a dare luogo ad una legittima esecuzione forzata, essendo previsto solo un controllo formale del cancelliere
Va precisato che l’opposizione al precetto sospende l’esecuzione solo quando vi sia l’istanza della parte e ricorrano gravi motivi che vengono valutati dal giudice dell’esecuzione e che di solito si concretano nella rilevante possibilità che l’opposizione sia accolta. Il debitore può contestare il diritto del creditore istante di procedere ad esecuzione forzata non solo prima dell'inizio dell'esecuzione tramite la cd. opposizione a precetto che va fatta con citazione al giudice competente per materia e per valore individuato ai sensi dell’art 17 c.p.c. ma anche dopo che 1'esecuzione sia iniziata tramite la cd. opposizione all’esecuzione che va proposta con ricorso al giudice dell'esecuzione il quale; dopo avere provveduto sulla eventuale istanza di sospensione, trattiene la causa presso di se soltanto se sia competente a conoscerla in base ai normali criteri di valore o materia altrimenti assegna alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice competente.
L’OPPOSIZIONE ALL’ESECUZIONE EX ART. 615
Oggetto dell’opposizione all’esecuzione è l'accertamento dell'esistenza o meno del diritto processuale di agire in via di esecuzione forzata. Motivi di tale opposizione possono essere:
a) motivi di rito, allorchè si contesti la qualità di titolo esecutivo del provvedimento, atto o documento sulla cui base si intende agire o si sta agendo: ad es. si contesta la presenza dei requisiti della liquidità o esigibilità, della sentenza o della scrittura privata autenticata ovvero si afferma che l'efficacia esecutiva è stata sospesa da parte del giudice della cognizione o che il provvedimento é stato riformato,
b) motivi di merito, allorchè si contesti che il diritto sostanziale rappresentato dal titolo non esiste per inesistenza dei fatti costitutivi o per esistenza di fatti impeditivi modificativi o estintivi. Al riguardo occorre però distinguere a seconda che il titolo esecutivo sia di formazione giudiziale o di formazione stragiudiziale.(ricorda Verde è la riduzione dei motivi in caso di titolo costituito da sentenza passata in giudicato)
Nelle ipotesi, eccezionali, nelle quali la legge consente che il titolo esecutivo possa valere anche a favore o contro soggetti diversi da quelli risultanti dal titolo (successioni a titolo particolare o universale: art. 475, successori a titolo universale: art. 477; terzi datori di pegno o di ipoteca o acquirenti del bene gravato da pegno o ipoteca: art. 602; subconduttori) l'opposizione all'esecuzione ex art. 615 è lo strumento tramite il quale poter contestare la qualità di successore del creditore, ovvero la qualità di erede del debitore, ovvero la qualità di subconduttore, ovvero fare valere l'ingiustizia della sentenza pronunciata contro il debitore ai sensi degli art. 2859 e 2870 c.c.
Per concludere va precisato che ai sensi del 2° comma dell’art. 615, eccezionalmente l'opposizione all'esecuzione può essere utilizzata anche come rimedio per contestare non l'an, ma il quomodo (come) della esecuzione ove si contesti la pignorabilità dei beni (art. 514,545).
LA SOSPENSIONE DELL ESECUZIONE
Ai sensi dell'art. 623, salvo che la sospensione sia disposta dalla legge o dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo, l'esecuzione forzata non può essere sospesa che con provvedimento del giudice dell'esecuzione. La sospensione dell'esecuzione, è una vera e propria misura cautelare concessa al debitore al fine di assicurargli la fruttuosità pratica della sentenza di accoglimento dell’opposizione per cui essa è soggetta, ex art. 669-quaterdecies, alla disciplina degli art. 669-bis e ss. in quanto compatibili. Le due uniche due grosse deviazioni rispetto a tale disciplina concernono:
a) la competenza esclusiva del giudice dell'esecuzione a disporre la sospensione dell'esecuzione già iniziata, anche se l'ufficio giudiziario cui appartiene non sia competente a conoscere della opposizione all'esecuzione;
- l'efficacia della sospensione fino al passaggio in giudicato della sentenza di primo grado di rigetto dell'opposizione o alla comunicazione della sentenza d'appello sempre di rigetto in deroga alla regola generale enunciata dall'art. 669-novies, secondo cui la misura cautelare perde efficacia a seguito della sentenza di primo grado, anche non passata in giudicato, che dichiari l'inesistenza del diritto per cui la cautela è stata concessa.
L’ESPROPRIAZIONE FORZATA
L'espropriazione forzata è il processo di esecuzione posto a garanzia della soddisfazione del creditore di somme di danaro disciplinato dagli art 2910 e s.s C.C nonchè dagli art 483 a 604 c.p.c.. La norma base in tema di espropriazione forzata è l’art. 2910 C.C. secondo cui il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare espropriare i beni del debitore, secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile. Poichè ai sensi dell'art. 2740 C.C. il debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri il creditore può assoggettare ad espropriazione sia beni mobili, che immobili, purchè essi abbiano valore di scambio possano cioè essere venduti e trasformati in danaro sia crediti che il debitore vanta nei confronti di terzi.
Eccezionalmente oggetto di espropriazione possano essere anche beni non del debitore, ma di terzi quando sono vincolati a garanzia del credito o quando sono oggetto di un atto che è stato revocato perchè compiuto in pregiudizio del creditore( pegno, ipoteca e alienazione in frode ai creditori,). Poiché il processo di espropriazione forzata è lo strumento di attuazione della responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 C.C. esso deve essere strutturato in modo da consentire il rispetto del principio della par condicio creditorum (art. 2741 c.c). Le regole stabilite dal codice di procedura civile possono essere cosi sintetizzate:
Preliminare alla espropriazione forzata è la notificazione al debitore del titolo esecutivo e del precetto. Il precetto diviene inefficace se nel termine di novanta giorni dalla sua notificazione non è iniziata l'esecuzione (art. 48l, 1° comma,). Se contro il precetto è proposta opposizione, il termine rimane sospeso e riprende a decorrere solo in seguito al passaggio in giudicato della sentenza di primo grado che rigetta l'opposizione o alla comunicazione della sentenza d'appello sempre di rigetto. L’espropriazione forzata si distingue in:
1) espropriazione mobiliare presso il debitore se ha ad oggetto beni mobili che si trovino presso il debitore
- espropriazione presso terzi se ha ad oggetto crediti del debitore verso terzi o beni mobili che siano in possesso di terzi
- espropriazione immobiliare se ha ad oggetto beni immobili
- espropriazione di beni indivisi se ha ad oggetto beni indivisi
- espropriazione contro il terzo proprietario se ha ad oggetto beni di proprietà di terzi soggetti a responsabilità per debiti altrui
L'espropriazione mobiliare e quella presso terzi è devoluta alla competenza per materia del pretore, mentre l'espropriazione immobiliare è attribuita al tribunale (art. 16). Comuni a tutte queste specie di espropriazione forzata sono le disposizioni contenute negli artt. da 483 a 512 relative agli istituti del pignoramento, dell'intervento dei creditori, della vendita e dell'assegnazione, e della distribuzione del ricavato. Il processo di espropriazione forzata è diretto dal giudice dell'esecuzione (art. 484) che è un giudice persona fisica simile al giudice istruttore che viene designato dal capo dell'ufficio giudiziario entro due giorni dalla presentazione del fascicolo dell'esecuzione, formato dal cancelliere dopo che l'ufficiale giudiziario abbia depositato in cancelleria l’atto di pignoramento. Il giudice dell'esecuzione, al pari del giudice istruttore, è immutabile per tutta la durata del processo di espropriazione ed esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento ad es. determinazione delle modalità della vendita e dell'assegnazione, formazione del progetto di distribuzione, riduzione del pignoramento ecc. ecc.
I provvedimenti del giudice dell'esecuzione hanno la forma della ordinanza modificabile e revocabile dallo stesso giudice, ma solo fino a che l'ordinanza non abbia avuto esecuzione (art. 487) (in questo la grossa differenza rispetto alla disciplina delle ordinanze del giudice istruttore di cui all'art. 177). Normalmente la legge prevede che, prima dell'emanazione di un provvedimento, il giudice dell'esecuzione debba ascoltare gli interessati (v. art. 485 cui si rinvia). Al giudice dell'esecuzione compete normalmente il potere-dovere di verificare d'ufficio l'esistenza dei requisiti extraformali e di taluni requisiti di forma contenuto posti dal legislatore a garanzia della legittimità del procedimento(giurisdizione, competenza, costituzione del giudice, legittimazione ad agire, capacita di essere parte, capacita processuale, difesa tecnica, inesistenza di precedenti pignoramenti, inesistenza di procedure concorsuali). Se la verifica d’ufficio ha esito negativo essa non assume autonomia e costituisce solo il substrato logico dell’ordinanza che provvede sull’istanza di assegnazione o di vendita. In caso contrario il giudice dell'esecuzione pronuncia ordinanza con la quale salvo le ipotesi di sanatoria o di rinnovazione dell'atto nullo ex art. 162 si chiude in rito il processo. Contro tale ordinanza le parti possono proporre opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617-618, su cui il giudice dell'esecuzione, provvede con sentenza impugnabile solo con ricorso per cassazione. Il giudice pronuncia altresì ordinanza suscettibile di opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617-618, nel caso in cui la verifica sia provocata dall’istanza del debitore o del creditore.
Il processo di espropriazione forzata può estinguersi per rinuncia o per inattività delle parti dichiarata con ordinanza dal giudice dell'esecuzione, contro la quale è ammesso reclamo al collegio (art. 630, 2° e 3° comma,)il quale provvede con sentenza appellabile ai sensi dell’art 130 disp. att.
IL PIGNORAMENTO
Ai sensi dell’art. 491 il pignoramento è l'atto con cui si inizia l’espropriazione forzata. Salve le forme particolari previste nei capi seguenti, il pignoramento consiste in un ingiunzione che l'ufficiale giudiziario fa al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla garanzia del credito esattamente indicato i beni che si assoggettano alla espropriazione e i frutti di essi (art 492 1° comma).
Il pignoramento è provocato dal creditore munito di titolo esecutivo ed è eseguito dall'ufficiale giudiziario, autore della ingiunzione di cui all'art. 492, senza che questi possa o debba effettuare alcun controllo, anche solo formale, sulla regolarità del titolo nonchè sulla appartenenza al debitore dei beni da pignorare.
La funzione del pignoramento è quella di assoggettare i beni pignorati ad un vincolo di indisponibilità che comporta un’inefficacia relativa dato che gli atti di disposizione giuridica eventualmente posti in essere dal debitore pur essendo validi sono inefficaci nei confronti del creditore pignorante e degli altri creditori che intervengono nell'esecuzione. Si evita così che durante il tempo necessario per procedere alla vendita forzata il debitore disponga dei beni pignorati, vanificando lo scopo del processo di espropriazione forzata. Soggetto destinato a beneficiare in ultima analisi del vincolo del pignoramento è l'aggiudicatario infatti l'art. 2919 c.c. dopo aver disposto l'efficacia traslativa della vendita forzata aggiunge che non sono però opponibili all'acquirente diritti acquistati da terzi sulla cosa, se i diritti stessi non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e degli altri creditori intervenuti nell'esecuzione.
Oggetto di pignoramento possono essere solo diritti su beni suscettibili di trasferimento ad es si può pignorare la proprietà, la nuda proprietà, l'usufrutto, i diritti patrimoniali derivanti da brevetti o dal diritto d’autore, le quote di una s.r.l. ma non ad es. l'usufrutto legale (art. 326 c.c.), la servitù scissa dal fondo dominante, l'uso, l'abitazione, diritti personali di godimento (locazione; comodato), le quote di società di persone i beni demaniali, i beni patrimoniali indisponibili dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni.
IL PIGNORAMENTO MOBILIARE PRESSO IL DEBITORE
II pignoramento mobiliare presso il debitore è disciplinato dagli artt. da 513 a 521 c.p.c., e dagli art 2913 e ss.c.c.
Su richiesta del creditore di procedere a pignoramento l'ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto (consegnatigli dal creditore), può ricercare le cose da pignorare nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti; può anche ricercarle sulla persona del debitore, osservando le opportune cautele per rispettarne il decoro.
Per casa del debitore si intende la sua dimora abituale esclusiva o con la sua famiglia o con terzi mentre per altri luoghi a lui appartenenti si intendono i luoghi di cui il debitore ha 1'esclusivo godimento quali lo studio professionale, l'azienda, il magazzino, ecc. Quando sia necessario aprire porte, ripostigli e recipienti, vincere la resistenza opposta dal debitore o da terzi, oppure allontanare persone che disturbano l'esecuzione del pignoramento l'ufficiale giudiziario provvede secondo le circostanze, richiedendo quando occorre, l'assistenza della forza pubblica. Ai sensi del terzo comma dell'art. 513 se le cose del debitore non si trovino in luoghi a lui appartenenti ma di esse il debitore né può disporre direttamente il pretore su ricorso del creditore può autorizzarne il pignoramento con decreto, si pensi ad es al motociclo che si trovi nella autorimessa di un terzo o ai quadri esposti in una galleria. L'art. 513, ultimo comma, prevede poi che in ogni caso l'ufficiale giudiziario può sottoporre a pignoramento, le cose del debitore che il terzo possessore consente (spontaneamente) di esibirgli. Come è facile intuire l'ufficiale giudiziario, recatosi nella casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenenti, deve pignorare le cose che vi rinviene senza dover effettuare alcuna indagine in ordine al se i beni stessi siano di proprietà del debitore o di terzi essendo guidato nella scelta delle cose da pignorare unicamente dai criteri indicati dall'art. 517 secondo cui il pignoramento, quando non vi è pregiudizio per il creditore, deve essere eseguito preferibilmente sulle cose indicate dal debitore. In ogni caso l'ufficiale giudiziario deve preferire il denaro contante, gli oggetti preziosi e i titoli di credito che ritiene di sicura realizzazione. Individuate in tal modo le cose da assoggettare a pignoramento, l'ufficiale giudiziario redige delle sue operazioni processo verbale, nel quale da atto dell'ingiunzione di cui all'art. 492 e descrive le cose pignorate, determinandone approssimativamente il valore facendosi assistere quando occorre, da uno stimatore da lui scelto. Nel processo verbale l'ufficiale giudiziario fa relazione delle disposizioni date per conservare le cose pignorate. Il processo verbale insieme al titolo esecutivo e al precetto deve essere poi depositato in cancelleria entro 24 ore dal compimento delle operazioni affinché il cancelliere formi il fascicolo dell'esecuzione da presentare entro due giorni al pretore dirigente per la designazione del giudice dell'esecuzione (art. 484).
I beni pignorati sono sottratti al possesso del debitore e affidati a un custode (art. 520) che quando vi sia il consenso del creditore può essere lo stesso debitore (art. 521, 1° comma). Si è detto che può accadere che vengano pignorati beni sui quali i terzi vantano dei diritti di proprietà. Ci si è chiesti quali siano i rimedi spettanti ai terzi. Al riguardo va detto che occorre in primo luogo che l’atto di alienazione del bene mobile abbia data certa anteriore al pignoramento altrimenti non ha effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell'esecuzione forzata. In secondo luogo la legge attribuisce al terzo che pretende di vantare un diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento sul bene mobile pignorato il rimedio dell’opposizione di terzo all'esecuzione ai sensi dell’art. 619. Tale opposizione che può contenere anche la contestuale richiesta di sospensione dell’esecuzione va fatta con ricorso al giudice dell'esecuzione prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione. Essa da luogo ad un processo a cognizione piena, autonomo ed esterno alla espropriazione forzata nel quale però il terzo opponente non può provare con testimoni (e quindi neanche per presunzioni) il suo diritto sui beni mobili pignorati nella casa o nell'azienda del debitore, tranne il caso in cui l'esistenza del diritto stesso sia resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitato dal terzo o dal debitore (si pensi al debitore che eserciti la professione di restauratore di quadri, ed in genere attività di lavorazione, riparazione o custodia di beni altrui). Secondo la giurisprudenza il terzo opponente deve provare, con atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento, non solo l'acquisto della proprietà del bene pignorato, ma anche l'affidamento del bene stesso al debitore per un titolo diverso dalla proprietà. (in sostanza vi è una presunzione di appartenenza dei beni del terzo che si trovano nella casa del debitore alla responsabilità per debiti dello stesso). Per concludere va precisato che se in seguito all'opposizione di terzo il giudice non sospende la vendita o se l'opposizione è proposta dopo la vendita stessa, i diritti del terzo si fanno valere sulla somma ricavata (art. 620) e l'opposizione di terzo all'esecuzione si converte in sostanza, in una opposizione in sede di distribuzione ai sensi dell’art. 512 con conseguente applicazione dell'art. 624, 2 comma, che prevede la sospensione necessaria della distribuzione.
IL PIGNORAMENTO PRESSO TERZI
Il pignoramento presso terzi disciplinato dal C.C. e dagli art. da 543 a 549 c.p.c., concerne il pignoramento dei crediti che il debitore vanta nei confronti di un terzo debitor debitoris e dei beni mobili del debitore che essendo in possesso di terzi non siano stati esibiti spontaneamente all’ufficiale giudiziario. Caratteristica di tale pignoramento a differenza di quello mobiliare o immobiliare è che il suo perfezionarsi richiede l'accertamento della titolarità del credito del debitore nei confronti del terzo debitor debitoris o della sua proprietà sul bene mobile posseduto dal terzo. Il pignoramento infatti è costituito da una fattispecie a formazione successiva di cui sono componenti essenziali l'atto complesso di cui all'art. 543 e il successivo accertamento del diritto del debitore verso il terzo realizzato a seguito di dichiarazioni lato sensu confessorie del terzo (art. 547) o, in mancanza, a seguito di accertamento giurisdizionale (artt. 548-549). L'atto complesso redatto dal creditore e notificato al debitore e al terzo a cura dell'ufficiale giudiziario è costituito:
a) dall’ingiunzione rivolta al debitore di non sottrarre il credito, che vanta nei confronti del suo debitore, alla garanzia del credito del creditore procedente e dei creditori che interverranno nell'esecuzione. Strettamente correlata a tale ingiunzione è la previsione dell'art 2914 n.2 secondo cui non hanno effetto nei confronti del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell'esecuzione, le cessioni dei crediti anche anteriori al pignoramento che siano state notificate al debitore ceduto o accettate dal medesimo successivamente al pignoramento. Lo stesso dicasi degli atti di estinzione del credito per volontà del creditore, non risultanti da data certa anteriore al pignoramento quali la novazione o la remissione del debito. Naturalmente è pacifico che l'accettazione, per essere opponibile al creditore pignorante, deve avere data certa anteriore al pignoramento.
b) dall'indicazione, almeno generica delle cose o delle somme dovute e dall'intimazione al terzo di non disporne senza ordine del giudice. Tale intimazione rivolta al terzo si distingue nettamente dall'ingiunzione rivolta al debitore dato che il terzo è soggetto, relativamente alle cose o alle somme da lui dovute, agli obblighi che la legge impone al custode.
c) dalla citazione del terzo a comparire, personalmente o a mezzo di mandatario speciale, all'udienza fissata dal creditore davanti al pretore del luogo di residenza del terzo, affinchè questi faccia la dichiarazione di cui all'art. 547.
Notificato l'atto complesso il pignoramento non si è ancora perfezionato essendo necessario l'accertamento del diritto del debitore esecutato nei confronti del terzo. A tal fine va precisato che se all'udienza fissata dal creditore il terzo compare e rende dichiarazioni positive senza che sorgano contestazioni, il pignoramento si perfeziona e il processo di espropriazione può proseguire. Se invece il terzo non compare, o pur comparendo rende dichiarazioni negative o dichiarazioni positive su cui sorgano contestazioni per il perfezionamento del pignoramento sarà necessario un accertamento giurisdizionale. L’art. 548 prevede infatti che su istanza di parte (del creditore o del debitore), il pretore provvede all'istruzione della causa a norma del 2° libro solo se essa non ecceda i limiti della sua competenza; altrimenti rimette le parti davanti al tribunale competente, assegnando loro un termine perentorio per la riassunzione. Con la stessa sentenza con cui definisce il giudizio il giudice se accerta l'esistenza del diritto del debitore nei confronti del terzo, fissa alle parti un termine perentorio per la prosecuzione del processo esecutivo dato che esso durante lo svolgimento del processo di cognizione viene sospeso ex lege.
IL PIGNORAMENTO IMMOBILIARE
Il pignoramento immobiliare è disciplinato dal C.C. e dagli art. da 555 a 559 c.p.c. L'individuazione del bene immobile da pignorare è effettuata dal creditore mediante un atto nel quale si indicano esattamente, con gli estremi richiesti dal codice civile per l'individuazione dell'immobile ipotecato, i beni e i diritti immobiliari che si intendono sottoporre a esecuzione. Tale atto, su istanza del creditore, è notificato al debitore a cura dell'ufficiale giudiziario che effettua anche l'ingiunzione prevista dall'art. 492 (art. 555, 1 comma). Immediatamente dopo la notificazione, l'ufficiale giudiziario (o in sua sostituzione il creditore pignorante) provvede alla trascrizione nei registri immobiliari la quale ha funzione costitutiva e non meramente dichiarativa del pignoramento. Il pignoramento cioè si perfeziona solo dal momento della trascrizione e non da quello anteriore della notificazione. Con il pignoramento il debitore è costituito ex lege custode dei beni pignorati. Ai sensi dell'art. 2914 n. 1 c.c. non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell'esecuzione, le alienazioni di beni immobili anche anteriori al pignoramento che siano state trascritte successivamente al pignoramento. Sono altresì inopponibili al creditore pignorante e ai creditori intervenuti nell'esecuzione le ipoteche, anche giudiziali, iscritte dopo la trascrizione del pignoramento, con la conseguenza che di esse non si deve tener conto nella distribuzione della somma ricavata. In tal modo il legislatore risolve il conflitto tra creditore pignorante e terzi sulla base del criterio della anteriorità della trascrizione.
INTERVENTO DEI CREDITORI
Poiché il processo di espropriazione forzata è lo strumento di attuazione della responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c. esso deve essere strutturato in modo da consentire il rispetto del principio della par condicio creditorum (art. 2741 c.c.). I creditori che possono intervenire nel processo di espropriazione forzata si distinguono in tre grosse categorie intersecantisi fra di loro:
1) creditori intervenienti muniti e non muniti di titolo esecutivo;
2) creditori intervenienti tempestivi e tardivi;
3) creditori intervenienti chirografari e muniti di diritti di prelazione.
Ai sensi dell'art. 499 i requisiti di ammissibilità dell'intervento sono l’indicazione del credito e quella del titolo di esso inteso solo come prova documentale del fatto costitutivo del diritto anche non in regola con i requisiti prescritti dal c.c.. Poiché la norma deve tener conto delle singole specie di espropriazione; si ritiene che
- per l’espropriazione mobiliare e presso terzi, deve trattarsi di credito certo, liquido ed esigibile. Occorre rilevare però che il requisito della certezza non può coincidere con la certezza propria dei titoli esecutivi, dato che legittimati all'intervento sono anche creditori non muniti di titolo esecutivo.
- per l’espropriazione immobiliare, invece si ci accontenta, anche di credito sottoposto a termine o a condizione cioè non esigibile.
Gli effetti dell'intervento, sono descritti dall'art. 500 il quale recita che esso da diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata e secondo le disposizioni contenute nei capi seguenti può dare anche diritto a partecipare all'espropriazione del bene pignorato e a provocarne i singoli atti. La disposizione è importantissima perchè opera una netta distinzione, tra fase espropriativa, nella quale i creditori intervenuti se non sono muniti di titolo esecutivo hanno poteri di impulso inferiori a quelli del creditore procedente, e fase distributiva o satisfattiva, nella quale tutti i creditori hanno diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata.
CREDITORI MUNITI E NON MUNITI DI TITOLO ESECUTIVO
Ai sensi dell’art. 526 i creditori intervenuti tempestivamente partecipano all'espropriazione dei beni pignorati e se muniti di titolo esecutivo, possono provocarne i singoli atti. In particolare solo i creditori muniti di titolo esecutivo:
- possono presentare istanza di assegnazione o di vendita
- devono prestare il loro consenso ai fini della estinzione del processo per rinuncia agli atti, prima della vendita o della assegnazione (art 629, l comma);
c) possono evitare l'estinzione del processo per inattività prima della vendita o della assegnazione (art. 630)
I creditori non muniti di titolo esecutivo, invece nella fase espropriativa, hanno diritto ad essere ascoltati nell'udienza fissata per provvedere in ordine alle modalità della vendita nonchè, una volta avvenuta la vendita o la assegnazione:
- hanno diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata alla stessa stregua dei creditori muniti di titolo esecutivo
- devono prestare il loro consenso ai fini della estinzione del processo per rinuncia agli atti
- possono evitare l’estinzione del processo per inattività
CREDITORI TEMPESTIVI E TARDIVI
Il momento rilevante ai fini della distinzione tra creditori tempestivi e tardivi è la prima udienza fissata per l'autorizzazione della vendita o per l'assegnazione. A questa regola si fa eccezione
- in materia di espropriazione mobiliare quando il valore dei beni pignorati, determinato in modo approssimativo dall'ufficiale giudiziario non superi dieci milioni di lire. In questo caso infatti l'intervento per essere tempestivo deve avvenire prima della presentazione dell'istanza di assegnazione o di vendita che a sua volta può essere presentata non appena siano decorsi dieci giorni dal pignoramento
- in materia di espropriazione presso terzi. In questo caso infatti l'intervento per essere tempestivo deve aver luogo non oltre la udienza di cui all'art. 547 in cui debitore e terzo debitor debitoris sono chiamati a comparire
La tempestività o no dell'intervento rileva ai soli fini della partecipazione alla distribuzione del ricavato dato che i creditori chirografari che intervengono tempestivamente partecipano in maniera piena e paritaria col creditore pignorante alla distribuzione del ricavato, mentre i creditori chirografari che intervengano tardivamente concorrono solo alla distribuzione della parte della somma ricavata che sopravanza dopo soddisfatti i diritti del creditore pignorante e di quelli intervenuti tempestivamente. I creditori muniti di diritto di prelazione, anche se intervengano tardivamente purchè prima dell'udienza fissata per l'approvazione del progetto di distribuzione concorrono alla distribuzione della somma ricavata in ragione dei diritti di prelazione La ratio di questo trattamento differenziato tra creditori chirografari e creditori muniti di diritto di prelazione che intervengono tardivamente è data dalla circostanza che la vendita forzata ha come effetto l'estinzione dei diritti di prelazione sul bene pignorato (cd. effetto purgativo della vendita forzata) e il loro trasferimento sulla somma ricavata.
In definitiva le attività del processo di espropriazione forzata sono molto semplici e si svolgono secondo questa sequela: il creditore si rivolge all'ufficiale giudiziario che provvede al pignoramento e ne deposita il relativo verbale insieme al titolo esecutivo ed al precetto nella cancelleria del giudice competente. Il cancelliere forma a questo punto il fascicolo dell'esecuzione che presenta al capo dell'ufficio giudiziario, affinchè questo designi il giudice dell'esecuzione. Non prima di dieci giorni(art. 501), e non oltre novanta giorni, dal pignoramento (art. 497) il creditore pignorante o un creditore intervenuto munito di titolo esecutivo devono presentare al giudice dell'esecuzione istanza di assegnazione o di vendita a seguito della quale il giudice dell'esecuzione fissa l'udienza per l'audizione delle parti e per disporre con ordinanza le modalità della vendita o l'assegnazione. E’ a questa udienza che normalmente costituisce il primo momento di contatto tra giudice e parti che, di regola, il legislatore ricollega il termine ultimo per gli interventi tempestivi.
CREDITORI CHIROGRAFARI E MUNITI DI DIRITTO DI PRELAZIONE
L'effetto purgativo, proprio della vendita forzata, induce il legislatore a favorire in ogni modo la partecipazione al processo di espropriazione dei creditori muniti di diritti di prelazione.
A tale scopo si provvede non solo con la irrilevanza della tardività del loro intervento ma anche con la necessità dell'avviso ai creditori che hanno sui beni pignorati un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri. In mancanza della prova di tale avviso, il giudice non può provvedere sull'istanza di assegnazione o di vendita. In realtà benchè l’art 498 parli in senso generico di diritti di prelazione il vero settore cui si riferisce l’istituto dell'avviso ai creditori iscritti è quello dell'ipoteca. L'avviso ai creditori iscritti è stato esteso dall'art. 158 disp. att. anche al creditore sequestrante quando dai pubblici registri risulta l'esistenza di un sequestro conservativo sui beni pignorati.
Occorre rilevare che per evitare che a causa dell’intervento il creditore pignorante, veda ridursi notevolmente l'utilità che sperava di conseguire attraverso l'espropriazione in atto il legislatore ha introdotto l’istituto dell’estensione del pignoramento(art 527) utilizzabile però solo in caso di espropriazione mobiliare. In virtù di esso il creditore pignorante ha facoltà di indicare ai creditori intervenuti tempestivamente l'esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili, e di invitarli ad estendere il pignoramento se sono forniti di titolo esecutivo o, altrimenti, ad anticipare le spese necessarie per l'estensione. Se i creditori intervenuti non si giovano, senza giusto motivo, delle indicazioni loro fatte o non rispondono all'invito entro il termine di dieci giorni, il creditore pignorante ha diritto di essere preferito loro in sede di distribuzione (in sostanza si tratta di un diritto di prelazione di origine processuale).
L’ACCERTAMENTO DEL CREDITO DEI CREDITORI INTERVENUTI
Come si è detto nel processo di espropriazione forzata manca una fase destinata all'accertamento necessario della esistenza del credito dei creditori intervenuti. Al riguardo l’art 512 prevede la possibilità di proporre opposizione in sede di distribuzione. Se infatti sorgano in sede di distribuzione controversie in ordine alla esistenza o all'ammontare del credito del creditore intervenuto, ovvero in ordine all'esistenza di diritti di prelazione; il giudice dell’esecuzione provvede all’istruzione della causa se competente altrimenti rimette le parti davanti al giudice competente fissando un termine perentorio per la riassunzione. A differenza delle altre opposizioni quella in sede di distribuzione determina la sospensione, se non automatica, necessaria della distribuzione della somma ricavata. Come è evidente l'accertamento del credito dei creditori intervenuti non è necessario, ma solo eventuale, dato che se la controversia non sorge il legislatore, utilizzando la tecnica della non contestazione, consente ai creditori intervenuti di partecipare alla distribuzione del ricavato indipendentemente da un accertamento in concreto del loro diritto.
In realtà per i creditori muniti di titolo esecutivo, un accertamento giudiziale del loro credito può essere provocato dal debitore già prima della fase della distribuzione dato che poiché essi sono legittimati a provocare la vendita forzata, sarà proponibile da parte del debitore opposizione all'esecuzione ex art. 615 sin dal momento del loro intervento. Per i creditori non muniti di titolo esecutivo invece il legislatore ha ritenuto che poiché essi non possono provocare la vendita forzata, un problema di accertamento del loro credito si pone solo ove, avvenuta la vendita forzata, il processo sia entrato nella fase della distribuzione e che quindi sia sufficiente quello che si verifica in sede di opposizione alla distribuzione ex art 512.Questa scelta del legislatore si è rivelata inesatta essendovi alcuni casi in cui il problema dell'accertamento del credito dei creditori intervenuti può sorgere prima della fase della distribuzione. Si tratta soprattutto delle ipotesi della conversione del pignoramento ex art. 495 (alla cui stregua il debitore ha diritto di sostituire alle cose pignorate una somma di danaro pari all'importo delle spese e dei crediti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti) della cessazione della vendita a lotti ex art. 504 (alla cui stregua se la vendita è fatta in più volte o a lotti essa deve cessare, quando il prezzo già ottenuto raggiunge l'importo delle spese e dei crediti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti) della riduzione del pignoramento ex art. 496 (alla cui stregua quando il valore dei beni è superiore all'importo delle spese e dei crediti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti, su istanza del debitore o anche d'ufficio, il giudice dell'esecuzione può disporre la riduzione del pignoramento). In mancanza di disposizione espressa la giurisprudenza ritiene che prima della fase della distribuzione, nelle ipotesi sopra indicate, il creditore deve fornire al giudice dell'esecuzione una prova lato sensu documentale del credito e del suo ammontare ai fini dell’ammissibilità del suo intervento. Contro l'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione ritenga inammissibili o ammissibili determinati interventi il creditore il cui intervento sia stato dichiarato inammissibile o il debitore possono proporre opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617-618, nel corso della quale il giudice conoscerà dell'esistenza e dell'ammontare dei crediti dei creditori intervenuti in modo sommario ( tramite le sole prove lato sensu documentali), ai fini della determinazione della somma di danaro da versare per la conversione del pignoramento o della cessazione della vendita a lotti o della riduzione o no del pignoramento, senza alcun pregiudizio per il debitore di provocare, nella successiva fase della distribuzione, un accertamento a cognizione piena sull'esistenza e l'ammontare del credito dei creditori intervenuti (non per il creditore, stante la definitività dell'accertamento relativo alla inammissibilità del suo intervento). La soluzione prospettata dalla giurisprudenza costituisce allo stato diritto vivente e come tale deve essere accolta. Per concludere va ricordato che eccezion fatta per i creditori intervenuti che possono vantare un accertamento passato in giudicato sull'esistenza e sull'ammontare del proprio credito per quelli che partecipano alla distribuzione in virtù dell'operare del meccanismo della non contestazione si pone il problema della stabilità o no della distribuzione del ricavato. Al riguardo sono state prospettate tre soluzioni
- secondo la prima, se la distribuzione non è stata preceduta da un accertamento giurisdizionale ex art. 512, la distribuzione è priva di qualsiasi stabilità e il debitore può agire in ripetizione d'indebito per ottenere dal presunto creditore la restituzione delle somme a lui attribuite in sede di distribuzione.
- secondo la seconda soluzione, la mancata proposizione dell’opposizione ex art 512 da parte del debitore darebbe luogo al formarsi, tramite il meccanismo della non contestazione, ad un accertamento giurisdizionale a tutti gli effetti in ordine all’esistenza e all'ammontare dell'intero credito che può essere utilizzato dal creditore anche in un futuro processo
- secondo la terza e a nostro modo autorevole soluzione, la mancata opposizione ex art 512 da parte del debitore varrebbe solo a garantire la stabilità della distribuzione, ma non darebbe luogo ad un accertamento a tutti gli effetti in ordine all'esistenza e all'ammontare dell'intero credito. In sostanza al debitore sarebbe preclusa ogni possibilità di ripetizione di indebito, ma non anche la contestazione dell'esistenza e dell'ammontare del credito in un futuro processo.
PIGNORAMENTO SUCCESSIVO
L’art 493 prevede che il bene sul quale è stato compiuto un pignoramento può essere pignorato successivamente su istanza di uno o più creditori. Ogni pignoramento ha effetto indipendente, anche se è unito ad altri in unico processo. Gli artt. 524 e 561 precisano, poi, che il pignoramento successivo non da luogo ad un separato processo di espropriazione, ma l'espropriazione si svolge in un unico processo nel quale il creditore che ha provocato il pignoramento successivo ha gli stessi poteri di un interveniente tempestivo o tardivo, a seconda del momento in cui è stato effettuato il pignoramento successivo.
La differenza tra intervento è pignoramento successivo è data unicamente dal fatto che mentre la eventuale invalidità del primo pignoramento o il suo venir meno a seguito di accoglimento dell'opposizione all'esecuzione ex art. 615, determina la caducazione degli interventi, i pignoramenti successivi essendo autonomi sopravvivono
LA VENDITA FORZATA
La vendita forzata ha la funzione di trasformare il bene pignorato in danaro che, dopo essere stato depositato nelle forme dei depositi giudiziari, sarà oggetto di distribuzione fra i creditori concorrenti.
Alla vendita forzata si perviene a seguito di istanza presentata dal creditore pignorante o da un creditore intervenuto munito di titolo nel rispetto del termine dilatorio di dieci giorni e del termine di decadenza di novanta giorni dal pignoramento (art. 497). Ove sia proposta successivamente, si verifica una estinzione del processo per inattività rilevabile solo su eccezione del debitore (o di creditori che vi abbiano interesse, ad es. perchè successivamente al pignoramento si sono muniti di un diritto di ipoteca), prima di ogni altra sua difesa ai sensi dell'art. 630, 2° comma. La disciplina procedurale della vendita forzata può essere cosi sintetizzata
a) La vendita immobiliare ha luogo sotto la direzione del giudice dell'esecuzione che ne determina le modalità e da i provvedimenti opportuni per eseguirla. Tale vendita può avvenire secondo modalità diverse: prima senza incanto, poi con incanto (v. artt. 570 ss. 576 ss.). Nella vendita con incanto è previsto l'istituto delle offerte dopo l'incanto o c.d. aumento di sesto (art. 584cioè avvenuto 1'incanto, sulla sua base possono essere ancora fatte offerte d'acquisto entro il termine di dieci giorni, purchè il prezzo offerto superi di almeno un sesto il prezzo raggiunto nell’incanto. In tal caso il giudice apre una nuova gara cui possono partecipare gli offerenti in aumento).
b) La vendita mobiliare ha luogo con le modalità stabilite dal giudice dell'esecuzione ma viene eseguita o a mezzo di un commissionario (art. 532 s.) o ad incanto tramite il cancelliere, l'ufficiale giudiziario o istituti specializzati (istituti di vendite giudiziarie) (arrt. 534, 159 disp. att.).
La vendita forzata si effettua sempre per contanti e se il prezzo non è pagato, l'aggiudicatario è dichiarato decaduto e si procede ad un nuovo incanto, a spese e sotto la responsabilità dell'aggiudicatario inadempiente. Le modalità sono determinate dal giudice dell'esecuzione nell'udienza appositamente fissata a seguito dell'istanza del creditore pignorante o di un creditore munito di titolo esecutivo nella quale il giudice ascolta tutte le parti le quali possono fare osservazioni circa il tempo e le modalità e debbono proporre, a pena di decadenza, le opposizioni agli atti esecutivi, che non determinano la sospensione automatica del procedimento esecutivo essendo essa lasciata alla valutazione discrezionale del giudice.
Per quanto riguarda gli effetti sostanziali della vendita forzata va detto che essa determina a favore dell'aggiudicatario un acquisto a titolo derivativo e non a titolo originario. Ciò significa che l'aggiudicatario in tanto diviene proprietario del bene in quanto il debitore ne sia proprietario all'atto del pignoramento.
La derivatività dell'acquisto dell'aggiudicatario è affiancata tuttavia da alcune particolarità infatti in primo luogo all'aggiudicatario non sono opponibili i diritti acquistati da terzi sulla cosa, se i diritti stessi non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori intervenuti nell'esecuzione, in secondo luogo, la vendita forzata determina l’estinzione dei diritti di prelazione che gravavano sul bene pignorato( c.d. effetto purgativo della vendita forzata). La regola generale della derivatività dell'acquisto dell'aggiudicatario subisce una sola eccezione in caso di espropriazione mobiliare infatti se il provvedimento di vendita forzata è accompagnato dall'acquisto del possesso in buona fede del bene mobile esso determina un acquisto a titolo originario a favore dell'aggiudicatario, in base al principio generale in tema di circolazione dei beni mobili di cui all'art. 1153 c.c..
Questa disciplina della vendita forzata fa sorgere un duplice problema e cioè la tutela del terzo proprietario del bene mobile acquistato a titolo originario dall'aggiudicatario in forza dell'art. 1153 c.c.e la tutela dell’aggiudicatario che, avendo acquistato a titolo derivativo, abbia eventualmente acquistato male e subito di conseguenza l'evizione. Entrambi questi problemi sono comunque risolti con estrema chiarezza dagli artt. 2920 e 2921 c.c i quali derogano alla disciplina generale. Va anche ricordato che nella vendita forzata non ha luogo la garanzia per vizi della cosa nè la rescissione per causa di lesione e che le locazioni consentite da chi ha subito l'espropriazione sono opponibili all'acquirente se hanno data certa anteriore al pignoramento. Per quanto riguarda la natura della vendita forzata va detto che si tratta di un trasferimento coattivo (a titolo derivativo) che avviene sulla base di un subprocedimento composto sia da elementi negoziali (in primis l'offerta dell'aggiudicatario) sia da elementi giurisdizionali (ordinanza con cui il giudice o un suo delegato dispone l'aggiudicazione e decreto di trasferimento ex art. 586). Ciò comporta che i rimedi esperibili per i vizi o illegittimità verificatisi nel subprocedimento di vendita non saranno quelli negoziali delle azioni di nullità, annullamento, rescissione, bensì l'opposizione agli atti esecutivi ex ar;t. 617-618 contro 1'ordinanza di aggiudicazione o il decreto di trasferimento. Lo stesso dicasi nel caso in cui al subprocedimento di vendita forzata si arrivi sulla base di un procedimento di espropriazione forzata illegittimo. Al riguardo va tuttavia precisato che poichè la proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi non determina la sospensione automatica del processo esecutivo e ben possibile che la vendita forzata avvenga in pendenza del giudizio di opposizione agli atti o che la invalidità del processo esecutivo sia dichiarata dopo che la vendita forzata sia già stata effettuata
Consapevole di ciò il legislatore per evitare che ex art 159, la nullità di un atto del processo di espropriazione forzata travolga la vendita già effettuata dispone all’art 2929 c.c. che la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita o l'assegnazione non ha effetto riguardo all'acquirente o all'assegnatario, salvo il caso di collusione con il creditore procedente. Secondo alcuni anche la sentenza che accolga successivamente l’opposizione non agli atti esecutivi ma all’esecuzione ex art 615 non travolge la vendita già effettuata.
L’ASSEGNAZIONE FORZATA
L'assegnazione forzata è l'attribuzione del bene pignorato ad un creditore, sulla base di un determinato valore. Essa determina un trasferimento coattivo del bene a favore di un creditore e, quanto agli effetti sostanziali, ha una disciplina affine, a quella della vendita forzata. In via generale il legislatore, nel timore che tramite l'assegnazione il bene posse essere attribuito a un creditore per un valore inferiore al prezzo che si sarebbe potuto ricavare in via di vendita forzata, guarda con sfavore alla assegnazione forzata prevedendo rigide condizioni per la sua ammissibilità:
- innanzi tutto va detto che il bene non può mai essere assegnato al creditore per un valore inferiore a quello di stima
- in secondo luogo, sia nella espropriazione mobiliare sia in quella immobiliare, la assegnazione forzata può avere luogo solo dopo che abbia avuto esito negativo la vendita con incanto e prima che si proceda ad un nuovo incanto nel quale nella espropriazione mobiliare è ammessa qualsiasi offerta mentre nella espropriazione immobiliare il prezzo base dell'incanto è di un quinto inferiore al valore di stima
c) in terzo luogo è necessario che vi sia l'accordo di tutti i creditori che siano intervenuti
d) infine va detto che se vi e intervento di creditori, fermo restando il rispetto del valore di stima, l'assegnazione non può essere fatta per un valore inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi diritto di prelazione anteriore
Vi sono tuttavia delle ipotesi, in cui la assegnazione è sottratta alle limitazioni sopra indicate e viene favorita dal legislatore. Queste ipotesi sono:
1) l'espropriazione di crediti esigibili entro novanta giorni. In tal caso i crediti sono assegnati in pagamento, salvo esazione, anche d'ufficio ai creditori concorrenti
2) 1'espropriazione mobiliare dei titoli di credito e delle altre cose il cui valore risulta dal listino di borsa o di mercato. In questo caso come per il precedente i creditori possono chiedere l'assegnazione, immediatamente, senza dover attendere l'esito negativo dell'incanto
3) 1'espropriazione mobiliare di oggetti d'oro e d'argento i quali non possono essere mai venduti per un prezzo inferiore al valore intrinseco e, se restano invenduti, sono assegnati anche d'ufficio ai creditori.
Per quanto riguarda gli effetti sostanziali della assegnazione forzata va detto che ex art. 2925 e ss c.c., gli effetti sostanziali della vendita forzata si applicano anche alla assegnazione forzata, salvo talune limitate deviazioni dovute alle peculiarità della assegnazione.
L’OPPOSIZIONE DI TERZO ALL’ESECUZIONE
L'opposizione di terzo all'esecuzione ex art 619 da luogo ad un processo a cognizione piena che si svolge nelle forme del secondo libro del c.p.c. Essa si introduce prima della vendita o dell’assegnazione con ricorso al giudice dell'esecuzione allo scopo di consentire a questi di pronunciarsi sulla istanza di sospensione che, quasi sempre, sarà contestualmente proposta. I1 giudice dell'esecuzione, dopo avere convocate le parti, se queste non raggiungono un accordo, quando è competente l'ufficio giudiziario al quale appartiene, provvede all'istruzione della causa a norma degli artt. 175 e seguenti; altrimenti fissa all’opponente un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti all'ufficio giudiziario competente per valore (cosi l'art. 619,3° comma). Oggetto immediato del processo è l'accertamento dell'inesistenza del diritto del creditore di espropriare i beni del terzo opponente in quanto non soggetti alla responsabilità per debiti del debitore esecutato.
Causa petendi, della domanda di opposizione è la titolarità da parte del terzo di un diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento opponibile al creditore o comunque di un diritto prevalente rispetto a quello del creditore. Occorre rilevare che l’eventuale rigetto dell'opposizione di terzo non significa necessariamente difetto di proprietà del terzo, potendo significare anche solo soggezione del bene del terzo a responsabilità per debiti del debitore esecutato. Va precisato poi che mentre nella espropriazione immobiliare, l'opposizione di terzo si atteggia come rimedio facoltativo dato che avendo l’aggiudicatario o l’assegnatario acquistato sempre ed esclusivamente a titolo derivativo il terzo può sempre rivendicare il bene nei suoi confronti nella espropriazione mobiliare, invece, poichè l'aggiudicatario o l'assegnatario può acquistare il bene a titolo originario in forza dell'art. 1153 c.c., l'opposizione di terzo si atteggia come rimedio necessario. Solo se i1 terzo riuscirà ad ottenere il provvedimento di sospensione dell’esecuzione potrà recuperare il bene, in mancanza potrà solo fare valere i diritti sulla somma ricavata fino a che non sia distribuita.
Secondo la giurisprudenza l'opposizione di terzo all'esecuzione da luogo ad una ipotesi di litisconsorzio necessario tra terzo, debitore esecutato e creditore pignorante.
LA DISTRIBUZIONE DEL RICAVATO
Nella fase della distribuzione del ricavato la rilevanza del titolo esecutivo viene meno dato che anche i creditori non muniti di titolo esecutivo, in grado di provocare la distribuzione del ricavato. In questa fase, dunque il titolo esecutivo diviene irrilevante e ciò che conta è l'esistenza o no del credito è l'ammissibilità dell'intervento. Tutti i creditori sono posti sullo stesso piano, con le sole notevoli particolarità derivanti dalla tempestività o no dell'intervento e dall'essere muniti o no di un diritto di prelazione. In generale si può dire che
1) se alla fase di distribuzione del ricavato, partecipa solo il creditore pignorante non essendovi stati interventi il giudice dell'esecuzione, sentito il debitore, dispone con ordinanza il pagamento in favore del creditore pignorante di quanto gli spetta per capitale, interessi e spese mentre il residuo della somma ricavata è consegnato al debitore o al terzo che ha subito l'espropriazione (cosi l'art..510, 1° e 3° comma).Contro tale ordinanza sia il debitore che il creditore possono proporre opposizione agli atti esecutivi, entro il termine di decadenza di 5 giorni dalla conoscenza dell'ordinanza. In caso contrario l'ordinanza diviene immutabile.
-
se alla fase di distribuzione vi è concorso di più creditori bisogna distinguere a seconda se vi sia o meno accordo tra creditori e debitore
- se vi è accordo tra debitore e creditori la distribuzione avviene sulla base di tale accordo eventualmente favorito dal giudice dell’esecuzione tramite la predisposizione di un progetto di distribuzione
b) se invece non vi è accordo, allora si aprirà la strada alle opposizioni in sede di distribuzione ex art. 512 con conseguente sospensione necessaria (totale o parziale a seconda dell'entità del dissenso) della distribuzione ai sensi dell'art. 624, 2 comma e la distribuzione avverrà sulla base dell'accertamento giurisdizionale contenuto nelle sentenze che si pronunciano sulle opposizioni ex art. 512.
In particolare nella espropriazione mobiliare la sequela individuata dagli art. 541 e 542 e la seguente. Se i creditori concorrenti chiedono la distribuzione della somma ricavata secondo un piano concordato, il giudice dell'esecuzione (ove approvi il piano) provvede in conformità, a meno che il debitore non si opponga al piano concordato proponendo opposizione ex art. 512. Se i creditori non raggiungono l'accordo, o il giudice dell'esecuzione non l'approva ciascun creditore può chiedere al giudice che si proceda alla distribuzione secondo un progetto di distribuzione redatto dal giudice stesso e sottoposto all'esame dei creditori e del debitore i quali potranno o approvarlo o proporre opposizione ex art.512.
Nella espropriazione immobiliare la sequela individuata dagli art. da 596 a 598 e la seguente. Entro trenta giorni dal versamento del prezzo il giudice dell'esecuzione provvede d'ufficio a formare un progetto di distribuzione che viene depositato in cancelleria per essere esaminato dai creditori e dal debitore e a fissare l'udienza per la loro audizione. All'udienza o i1 progetto è approvato ( la mancata comparizione all'udienza importa approvazione del progetto ai sensi dell'art. 598) o si raggiunge un diverso accordo tra creditori e debitori o si propongono opposizioni ex art. 512.
Ci si è chiesti quale sia la stabilità della distribuzione del ricavato. Al riguardo va detto che se alla distribuzione si perviene sulla base di accertamenti giurisdizionali passati in giudicato preesistenti o formatisi a seguito di opposizioni ex art. 512, non sorge alcun problema. La stabilità della distribuzione del ricavato sarà garantita a tutti gli effetti e contro eventuali illegittimità commesse dal giudice dell'esecuzione nel disporre con ordinanza il pagamento delle singole quote, può essere proposta l'opposizione agli atti esecutivi entro il termine di decadenza di cinque giorni.
Se invece alla distribuzione si pervenga sulla base di un accordo che a nostro modo di vedere ha natura processuale contro l'ordinanza del giudice dell'esecuzione potrà essere proposta solo opposizione agli atti esecutivi, per ragioni di rito e non anche di merito. In questo modo, si perviene al risultato della stabilita della distribuzione, anche se fondata sull'accordo delle parti. Le uniche ipotesi in cui i creditori potranno essere tenuti a restituire le somme ricevute in sede di distribuzione del ricavato sono quella della evizione dell’aggiudicatario o dell’assegnatario e quella della riforma in sede di processo di cognizione del provvedimento giurisdizionale esecutivo sulla cui base il creditore procedente o eventualmente altri creditori abbiano partecipato alla distribuzione.
L’ESPROPRIAZIONE DEI BENI INDIVISI
L'espropriazione dei beni indivisi è disciplinata dagli art. da 599 a 601 e dagli art. l80-181 disp. att.
Se i comproprietari sono tutti debitori nei confronti dell'unico creditore non sorge alcun problema dato che il creditore agisce espropriando i beni che si trovano in regime di comproprietà, seguendo le regole generali.
Se invece il creditore sia tale solo nei confronti di uno o di alcuni dei comproprietari si pone invece il problema di separare la quota del debitore da quella degli altri comproprietari.
Fermo restando il principio che titolo esecutivo e precetto si notificano al solo debitore e che il pignoramento si esegue nei soli confronti del debitore nelle forme previste dagli artt. 513 ss., 543 ss., 555 ss., va ricordato che l'art. 599, 2° comma, impone che si dia avviso del pignoramento agli altri comproprietari; in modo così da rendere inefficace nei confronti del creditore pignorante, una eventuale separazione della quota del debitore avvenuta senza ordine del giudice. Affinchè il processo di espropriazione possa procedere è necessario altresì che, con lo stesso avviso o con altro atto separato, tutti i comproprietari siano citati a comparire davanti al giudice dell'esecuzione (art. 180, 2 comma, disp. att.).
All'udienza il giudice dell'esecuzione, dopo aver sentito tutti gli interessati, può provvedere nel seguente modo
- quando è possibile provvede alla separazione in natura della quota spettante al debitore (art. 600 1 comma). Nel silenzio della legge deve ritenersi che la separazione in natura sia sempre possibile in caso di accordo dei comproprietari. In mancanza di accordo la separazione in natura sarà invece possibile solo se si tratta di beni mobili fungibili, e contro l’ordinanza che dispone la separazione sarà esperibile il solo rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi
- se la separazione in natura non è possibile il giudice, deve scegliere sulla base di una valutazione di opportunità se disporre la vendita della quota indivisa o la divisione giudiziale ex art. 784 ss. c.p.c.
Al riguardo va detto che la vendita della quota indivisa non è possibile quando è necessario il consenso degli altri comproprietari e deve comunque rispettare l'eventuale diritto di prelazione degli altri comproprietari (art. 732 c.c.). Essa inoltre non è opportuna quando sia presumibile che il prezzo ricavato sia inferiore al valore effettivo della quota. Per quanto riguarda invece la divisione giudiziale va detto che essa ha luogo nelle forme previste dagli art. 784 ss. c.p.c. e che l'eventuale patto di rimanere in comunione è inopponibile al creditore pignorante. Se si deve procedere alla divisione, il processo esecutivo è sospeso ex lege finche sulla divisione stessa non sia intervenuto un accordo tra le parti o sia pronunciata una sentenza di primo grado passata in giudicato o d'appello (art. 601, 1° comma).
Per concludere va ricordato che in ipotesi di comunione legale e di creditori personali dei singoli coniugi l’art 189 disp. att. c.c. dispone la responsabilità sussidiaria della comunione fino al valore della quota del coniuge obbligato.
L’ESPROPRIAZIONE CONTRO IL TERZO PROPRIETARIO
Gli artt 602 a 604 disciplinano 1'espropriazione avente ad oggetto un bene gravato da pegno o da ipoteca per un debito altrui oppure un bene la cui alienazione da parte del debitore è stata revocata per frode. Le disposizioni sono speculari all’art. 2910 2 comma c.c. secondo cui possono essere espropriati anche i beni di un terzo quando sono vincolati a garanzia del credito o quando sono oggetto di un atto che è stato revocato perché compiuto in pregiudizio del creditore. Si tratta delle tre ipotesi classiche di responsabilità per debito altrui alla cui disciplina vanno assoggettate anche le ipotesi di espropriazione del diritto di superfice o di enfiteusi trascritti su di un bene gravato da ipoteca posteriormente all'iscrizione dell'ipoteca stessa nonché quella di espropriazione di un bene la cui alienazione sia stata dichiarata simulata nei confronti del creditore del simulato alienante. Ai sensi dell'art. 602 all'espropriazione contro il terzo proprietario si applicano le disposizioni contenute nei capi precedenti in quanto non modificate dagli articoli che seguono. Le deviazioni dalla disciplina generale sono
- la necessità che il titolo esecutivo e il precetto siano notificati anche al terzo e che il precetto faccia espressa menzione del bene del terzo che si intende espropriare
- l’applicazione nei confronti del terzo di tutte le disposizioni relative al debitore con la sola eccezione del divieto di effettuare offerte all’incanto
Quanto ai creditori legittimati ad intervenire nel processo di espropriazione contro il terzo proprietario, va detto che normalmente saranno solo i creditori del terzo proprietario (i quali si soddisferanno dopo che sia stato soddisfatto il creditore procedente), ed in casi eccezionali anche i creditori del debitore ove si tratti di creditori ipotecari o di creditori che al pari del creditore procedente hanno esperito vittoriosamente l'azione revocatoria ex art. 2901 c.c.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO
Anche il processo esecutivo, al pari del processo di cognizione, si estingue per rinuncia agli atti e per inattività delle parti. Per la rinunzia agli atti occorre distinguere se essa avvenga prima o dopo la vendita o l’assegnazione. Nel primo caso è sufficiente il consenso dei soli creditori muniti di titolo esecutivo, nel secondo invece occorre il consenso di tutti i creditori .
L'estinzione per inattività delle parti si ha allorchè i creditori non proseguono o non riassumono il processo nel termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice nonchè se nessuna delle parti (da intendersi: nessun creditore) si presenta a due udienze consecutive (arts. 630 e 631). Nonostante il silenzio della legge, deve ritenersi che prima della vendita o dell'assegnazione l'inattività possa essere impedita, solo da attività poste in essere dai creditori muniti di titolo esecutivo. L'estinzione per inattività eccezion fatta per quella conseguente alla mancata comparizione a due udienze consecutive non è rilevabile d'ufficio, ma solo su eccezione della parte interessata prima di ogni altra difesa. L'estinzione è dichiarata dal giudice dell’esecuzione con ordinanza, contro la quale è proponibile reclamo al collegio che provvede con sentenza appellabile (art. 630).
Se l'estinzione del processo esecutivo si verifica prima dell'aggiudicazione o dell'assegnazione, essa rende inefficaci gli atti compiuti, ivi compreso il pignoramento. Se invece avviene dopo l'aggiudicazione o l'assegnazione queste conservano efficacia la somma ricavata è consegnata al debitore mentre le spese del processo estinto stanno a carico delle parti che le hanno anticipate.
L’ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA
L'esecuzione forzata in forma specifica si differenzia dalla espropriazione forzata perchè l’oggetto dell'esecuzione coincide con l'oggetto dell’obbligo di consegnare un bene mobile, di rilasciare un bene immobile, di eseguire un'opera, o infine di distruggere un'opera eseguita in violazione di un obbligo originario di non fare.
Secondo alcuni autori l’esecuzione forzata in forma specifica, non consentendo l’intervento dei creditori avrebbe in se connaturato il rischio di soddisfare l’avente diritto in via privilegiata rispetto agli altri creditori del comune debitore ma ha nostro modo di vedere tale opinione non può essere accolta perché essa ha sempre ad oggetto beni che sono già fuoriusciti dal patrimonio del debitore. Il legislatore ha anche avuto l'accortezza di disciplinare e risolvere l’unica vera ipotesi di contrasto tra avente diritto alla consegna di un bene mobile ed i creditori che abbiano già pignorato lo stesso bene. Dispone infatti l’art 607 che se nel corso dell’esecuzione per la consegna di un bene mobile le cose da consegnare sono pignorate, la consegna non può avere luogo, e la parte istante deve fare valere le sue ragioni mediante opposizione di terzo ex art. 619 ss. Solo se, risulterà vittorioso nel giudizio di opposizione di terzo l’avente diritto potrà ottenere la consegna del bene mobile dopo averlo separato dal pignoramento, in caso contrario infatti egli sarà costretto a cedere nei confronti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti nell'espropriazione.
Occorre rilevare che l’esecuzione forzata in forma specifica non è mai ammessa, se l'avente diritto può conseguire il bene attraverso atti di autonomia privata, senza necessità di aggredire la sfera possessoria dell'obbligato. Questo significa che l’esecuzione forzata per consegna, non è ammissibile quando si tratti di beni mobili fungibili reperibili sul mercato dato che in questi casi l'avente diritto alla consegna può acquistarli al mercato e agire solo per i danni contro l’obbligato inadempiente. Allo stesso modo l’esecuzione di obblighi di fare o di disfare non è ammissibile quando si tratti di una prestazione di fare o di non fare infungibile dato che non è consentito l’uso della forza per costringere altri ad adempiere alle proprie obbligazioni ad es per dipingere un quadro.
L’ESECUZIONE FORZATA PER CONSEGNA O RILASCIO
L'esecuzione forzata per consegna o rilascio è disciplinata dagli art. 605 a 611 c.p.c. e dall'art. 2930 c.c.
Ai sensi dell'art. 2930 c.c. se non è adempiuto 1'obbligo di consegnare una cosa determinata, mobile o immobile, l'avente diritto può ottenere la consegna o il rilascio forzato a norma delle disposizioni del c.p.c. Ciò significa che oggetto di esecuzione forzata per consegna o rilascio possono essere solo cose determinate infungibili che si trovano nella disponibilità dell’obbligato e più esattamente se si tratta di beni mobili nei luoghi in cui l’ufficiale giudiziario può ricercarli ai sensi dell’art 513. Da quanto detto deve quindi escludersi che possano formare oggetto di esecuzione forzata per consegna o rilascio i provvedimenti che riguardano persone come ad es quelli in tema di affidamento dei minori o quelli che riguardano cose mobili determinate solo nel genere ex art. 1378 c.c., prima della loro individuazione. Al riguardo va poi precisato che mentre i beni immobili sono considerati per tradizione sempre infungibili, per i beni mobili la nozione di fungibilità intesa come reperibilità del bene sul mercato è relativa dato che non può escludersi a priori che ove l'avente diritto alla consegna non abbia disponibilità economica per acquistare sul mercato un secondo bene per poi rivalersi per i danni il bene stesso diventi per lui infungibile.
Funzione della esecuzione in esame è la sostituzione dell'avente diritto all'obbligato nella relazione tra soggetto e cosa costituita dal possesso o dalla detenzione. Quanto alla struttura della esecuzione forzata per consegna o rilascio va detto che titoli esecutivi possono essere solo quelli previsti dai n. 1 e 2 dell'art. 474 e non anche gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli. Il precetto deve contenere, oltre alle indicazioni di cui all'art. 480 anche la descrizione sommaria dei beni (art. 605, 1° comma). Giudice competente è il pretore del luogo dove si trovano le cose. Nel processo esecutivo in esame è assente la figura del giudice dell'esecuzione, per cui occorre fare riferimento al giudice competente per l'esecuzione allorchè la legge, parla di giudice dell’esecuzione. L'esecuzione è condotta dall'ufficiale giudiziario e può esaurirsi senza che compaia il giudice, dato che questi è chiamato ad intervenire, emanando i provvedimenti temporanei occorrenti, solo quando nel corso dell'esecuzione sorgono difficoltà che non ammettono dilazione e per la liquidazione delle spese (art. 611).
La consegna forzata si svolge secondo le modalità descritte dall'art 606 in base alle quali decorso il termine indicato nel precetto, l'ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto si reca sul luogo in cui le cose presumibilmente si trovano e le ricerca a norma dell'art. 513. Dopo averle trovate ne fa consegna alla parte istante o a persona da lei designata. Il rilascio forzato avviene secondo le modalità descritte dall'art. 608 e cioè l’ufficiale giudiziario comunica almeno tre giorni prima alla parte, che è tenuta a rilasciare l’immobile, il giorno e l'ora in cui procederà. Nel giorno e nell'ora stabiliti, l'ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca sul luogo dell'esecuzione e, facendo uso, quando occorre del poteri riconosciutigli dall'art. 513, immette la parte istante o una persona da lei designata nel possesso (o nella detenzione) dell'immobile, consegnandogli le chiavi e ingiungendo altresì agli eventuali detentori di riconoscere il nuovo possessore. Tale ingiunzione sarà possibile unicamente nei confronti dei terzi detentori titolari di diritti dipendenti dalla posizione sostanziale dell'esecutato e compatibili con il diritto di chi agisce in esecuzione e non anche nei confronti di terzi detentori titolari di diritti dipendenti dalla posizione sostanziale dell’esecutato ma incompatibili con il diritto di chi agisce in esecuzione (ad es.nei confronti del terzo conduttore dell'alienante esecutato, con contratto di locazione avente data certa anteriore alla compravendita non nei confronti del subconduttore).
L’ESECUZIONE FORZATA DI OBBLIGHI DI FARE E DI NON FARE
L'esecuzione forzata di obblighi di fare e di non fare è disciplinata dagli art. da 612 a 614 c.p.c e da 2931 a 2933 c.c. Da queste disposizioni si desume che tale esecuzione può avere ad oggetto unicamente il compimento di opere materiali e che essa è ammissibile solo quando, per il compimento dell'opera non eseguita o per la distruzione di quella compiuta, occorra aggredire la sfera possessoria dell'obbligato e non anche quando l’opera può essere effettuata attraverso l'esercizio di atti di autonomia sostanziale, senza la necessita di invadere la sfera possessoria dell'obbligato (ad es. per distruggere quanto è stato costruito dal vicino sul proprio fondo in violazione delle norme sulle distanze legali, o le cose prodotte in violazione del brevetto per invenzioni industriali ecc e non ad es. per tinteggiare l'appartamento dell'avente diritto). Ai sensi dell'art. 2933, 2° comma, c.c. limite speciale di ammissibilità della esecuzione di disfare è la circostanza che la distruzione della cosa sia di pregiudizio all’economia nazionale.
Limite generale di ammissibilità della esecuzione forzata in esame è invece la fungibilità della obbligazione o della prestazione inadempiuta. La struttura della esecuzione forzata di obblighi di fare o di disfare si caratterizza per le seguenti peculiarità. Titolo esecutivo è esclusivamente la sentenza di condanna. Giudice competente è il pretore del luogo dove l’obbligo deve essere adempiuto (art. 16, 26). Il processo esecutivo inizia con ricorso al pretore con cui il creditore chiede che siano determinate le modalità dell'esecuzione. Il pretore, sentite le parti determina con ordinanza le modalità dell'esecuzione e designa l'ufficiale giudiziario e le persone che devono provvedere al compimento o alla distruzione dell'opera (art. 612). Nella esecuzione dell'opera l'ufficiale giudiziario può farsi assistere dalla forza pubblica e deve chiedere al pretore le opportune disposizioni per eliminare le difficoltà che sorgono nel corso dell'esecuzione a cui il pretore provvede con decreto.
Le spese dell'esecuzione, anticipate dalla parte istante, sono liquidate dal pretore con: decreto a norma dell'art. 642.
Occorre rilevare che in giurisprudenza si ritiene che se l'ordinanza di determinazione delle modalità dell'esecuzione disponga il compimento di opere contrastanti con il titolo ovvero risolva questioni inerenti al diritto di procedere ad esecuzione forzata o alla idoneità o no della esecuzione spontanea, essa ha il contenuto sostanziale di sentenza appellabile trattandosi nella prima ipotesi di provvedimento abnorme, e nelle altre due ipotesi di provvedimento che si é pronunciato sull'opposizione all'esecuzione ex art. 615 proposta informalmente dall'obbligato nel corso dell’udienza.
DIFFERENZA TRA TUTELA SPECIFICA E TUTELA RISARCITORIA
Con l’espressione tutela specifica o reale si indica quella tutela diretta a fare conseguire al titolare del diritto quelle stesse utilità garantitegli dalla legge o dal contratto e non utilità equivalenti. Essa è attuabile con l’esecuzione forzata per consegna, rilascio, fare o disfare
Con l’espressione tutela risarcitoria o per equivalente si indica quella tutela diretta a fare conseguire al titolare del diritto non la stessa utilità garantitagli dalla legge o dal contratto ma solo utilità equivalenti; cioè non l'utilità in natura (il bene dovuto) ma solo il suo equivalente monetario. Essa è attuabile solo con l’espropriazione forzata.
IL PROCESSO DEL LAVORO
La legge 11 agosto 1973, n. 533 ha novellato l'originario titolo IV del secondo libro del codice di procedura civile concludendo un'evoluzione iniziata con la legge 20 maggio 1970, n. 300, contenente il cd. Statuto dei lavoratori. In questo modo, i lavoratori hanno non solo un proprio statuto, ma possono anche, avvalersi, di un rito differenziato. I punti caratterizzanti il nuovo processo possono essere così sintetizzati:
- giudice competente per materia in primo grado, è il pretore essendosi scartata l'ipotesi di un giudice specializzato stante il divieto posto dall'art. 102 Cost.
- la fase preparatoria è stata disciplinata in modo da costringere le parti ad esporre compiutamente i fatti di causa e le prove in loro possesso in un momento anteriore all'udienza di discussione.
- la struttura inquisitoria dell'istruzione fa sì che fermo restando il principio della domanda, al giudice viene riconosciuto un ampio potere istruttorio ufficioso al fine di pervenire alla soluzione più corretta del conflitto;
- la concentrazione e immediatezza del procedimento vorrebbe chiudere il processo in una sola udienza, enfatizzando il divieto delle udienze di mero rinvio, imponendo al giudice di leggere immediatamente il dispositivo in udienza, ecc.;
- la svalutazione del processo di impugnazione è stata perseguita sia incentivando l’esecutività della sentenza di primo grado, sia rendendo più difficile un provvedimento di sospensione di tale efficacia, sia infine delimitando l'oggetto dell'appello.
- l'attenzione per una corretta ricostruzione del fatto;
g) la gratuità del procedimento.
Le controversie del lavoro e quelle previdenziali
Le controversie affidate alla competenza del giudice del lavoro sono elencate negli artt. 409 (quelle individuali di lavoro) e 442 (quelle in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria)
A) L'art. 409 ha preso il posto dell'art. 429 che era legato al soppresso ordinamento corporativo. Di conseguenza:
- il n. 1 fa riferimento ai rapporti di lavoro subordinato privato anche se non inerenti all'esercizio dell'impresa.
- il n.2 fa riferimento ai rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto nonché ai rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie
c) il n. 3 fa riferimento ai rapporti di lavoro autonomo, cioè rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale e altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato (cd rapporti di parasubordinazione).
- il n. 4 fa riferimento ai rapporti di lavoro dei dipendenti degli enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica. Sono tali gli enti che pur perseguendo un fine di lucro, realizzano altresì indirettamente, una finalità pubblica, attraverso un'attività imprenditoriale diretta alla produzione e allo scambio di beni e di servizi, in regime di concorrenza effettiva o soltanto potenziale, con gli imprenditori svolgenti analoghe attività
e) il n. 5 fa infine riferimento ai rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, sempre che non siano devoluti dalla legge ad altro giudice. La norma, posto che in materia di pubblico impiego vi è la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ha avuto scarse possibilità applicative, essendo riferibile ai casi residuali di locazione d'opera o di rapporti sporadici e temporanei. Il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 ha, peraltro, rivoluzionato il sistema, infatti quando entreranno in vigore gli artt. 68 ss. del citato decreto si avrà una ripartizione delle giurisdizioni fondata all'incirca sul seguente criterio direttivo: il giudice amministrativo conoscerà delle controversie che involgano l'organizzazione degli uffici e le responsabilità conseguenti; il pretore del lavoro avrà competenza su tutte le controversie che riguardino lo svolgimento del rapporto di lavoro e, in particolare, le questioni di carattere patrimoniale. La scelta del legislatore, è criticabile per tre fondamentali ragioni:
- sotto il profilo organizzativo perché non esistono le condizioni per trasferire ai pretori un numero enorme di controversie
- sotto il profilo tecnico, perchè vi saranno infinite occasioni di dubbio sulle reciproche giurisdizioni e, quel che è peggio, ipotesi di pregiudizialità tra processi affidati a giudici di diverso ordine
3)sotto il profilo ideologico, perché non è detto che il rapporto tra datore di lavoro e dipendente si ponga nello stesso modo nell'impiego pubblico e nell'impiego privato
B) Il pretore del lavoro ex art 442 è anche competente sulle controversie in materia previdenziale e precisamente per quelle riguardanti
1) le assicurazioni sociali, gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali e gli assegni familiari;
2) l'applicazione di norme relative ad ogni altra forma di previdenza e di assistenza obbligatoria
3) l'inosservanza degli obblighi di assistenza e di previdenza derivanti da contratti e accordi collettivi.
Occorre tuttavia rilevare che, le controversie riguardanti le pensioni di guerra, nonchè la liquidazione delle pensioni a carico dello Stato o di altro ente pubblico restano attribuite alla Corte dei conti e che appartengono al giudice amministrativo le controversie previdenziali quando sussista un collegamento causale con il sottostante rapporto di pubblico impiego non quelle dirette ad ottenere la singola prestazione assicurativa negata senza che venga in rilievo l'esistenza o il modo d'essere del rapporto di pubblico impiego che ne costituisce il presupposto (es. le controversie in tema di buonuscita ENPAS).
In definitiva in sede previdenziale, il pretore è essenzialmente competente in ordine a tre rapporti:
a)quello contributivo vero e proprio, relativo agli obblighi del datore di lavoro nei confronti dell'ente previdenziale quanto al pagamento dei contributi e delle sanzioni (civili) per il caso di omissioni e di irregolarità nel pagamento stesso;
-
quello fra datore e prestatore di lavoro relativo alla posizione assicurativa e al risarcimento del danno nel caso di omissione contributiva da parte del datore di lavoro
c) quello tra l'ente ed il prestatore di lavoro avente ad oggetto il riconoscimento del diritto previdenziale e la erogazione delle prestazioni.
I criteri di competenza e le questioni di rito e di competenza
Nel 1973 il legislatore aveva disegnato una disciplina della competenza fortemente innovativa, non solo perchè aveva previsto la competenza per materia e quindi inderogabile del pretore nella sua veste di giudice del lavoro, ma soprattutto perchè aveva individuato in modo originale i criteri di collegamento territoriali tra il pretore e la controversia e, perché aveva definito in maniera autonoma le conseguenze della violazione di tali criteri.
Quanto al primo aspetto va detto che la legge, istituendo negli uffici sezioni e giudici destinati a trattare le controversie del lavoro, non ha dato vita ad organismi dotati di particolare autonomia per cui il mancato rispetto del criterio attributivo all'interno dell'ufficio è di per se irrilevante ove si segua il rito speciale e, qualora ciò non avvenga, esso dà luogo a un vizio del provvedimento per mancato rispetto del rito e non per incompetenza.
Quanto alla competenza territoriale, va detto che l'art. 413 ha previsto numerosi fori alternativi speciali e cioè:
- quello del luogo in cui e sorto il rapporto (da intendersi come il luogo in cui e stato concluso il contratto);
b) quello del luogo dove si trova l'azienda o una dipendenza di questa, alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale prestava la sua opera al momento della fine del rapporto. Occorre rilevare che tale criterio ex art. 413 3° comma è utilizzabile anche dopo la cessazione o il trasferimento dell'azienda purchè la domanda sia proposta entro un periodo massimo di 6 mesi dal trasferimento o dalla cessazione.
Va anche chiarito che per le controversie di cui al n. 3 dell'art. 409, è competente il giudice nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell'agente, del rappresentante di commercio ovvero del titolare degli altri rapporti di collaborazione (rapporti di parasubordinazione)e che il 5 comma dell'art. 413 prevede, infine, come foro sussidiario quello generale delle persone fisiche. L'ultimo comma dell'art. 413 dichiara poi nulle le clausole derogative della competenza per territorio. Occorre rilevare che poiché la legge del 1973 introduce nel codice di procedura civile un rito speciale, può accadere che un errore sulla competenza comporti anche un errore sul rito ad es. iniziata la causa davanti al pretore con rito speciale, la stessa è ritenuta di competenza di altro giudice con rito ordinario e viceversa (questione di rito e di competenza) così come è possibile che vi sia solo un errore di rito ad es. iniziata una causa davanti al pretore con rito ordinario questi ritenga che la causa sia di sua competenza come giudice del lavoro e viceversa. Al riguardo va detto che il legislatore si è preoccupato di regolare negli art 426- 428 solo le ipotesi per le quali il problema da risolvere sia interno alle preture, e non anche quelle per le quali il problema sia esterno. In particolare
1) Quando è adito il pretore e sorge soltanto questione di rito, l'art. 426 disciplina il caso in cui si debba passare dal rito ordinario al rito speciale e l'art. 427 l'ipotesi inversa. In entrambi i casi il pretore provvede con ordinanza la quale per evitare un continuo passaggio tra i riti a nostro modo di vedere può essere revocata o modificata solo a conclusione dell’istruttoria. Con tale ordinanza il pretore nel primo caso deve concedere alle parti un termine, perentorio, entro il quale esse dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi (tale disposizione è oggi di scarsa importanza essendovi anche nel rito ordinario le preclusioni ricollegate alla prima udienza) mentre nel secondo caso deve limitarsi a disporre che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie con l'avvertimento che le prove acquisite avranno l'efficacia consentita dalle norme ordinarie.
2) Quando è adito il pretore del lavoro e questi rilevi d’ufficio una questione di rito e di competenza per materia o valore l'art. 427 dispone che egli rimetta con ordinanza la causa al giudice competente, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con il rito ordinario. Al riguardo va tuttavia detto che nonostante la lettera della legge la giurisprudenza ritiene che il giudice debba provvedere in questo caso con sentenza impugnabile con il regolamento di competenza così come provvede ai sensi del 4° comma dell’art 420 quando le parti abbiano sollevato espressamente una questione di competenza.
L'art. 428, disciplina infine, il caso della sola incompetenza territoriale del pretore del lavoro originariamente adito disponendo che essa può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all’art 416 o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l'udienza di cui all'art. 420 e che quando ciò avvenga il giudice rimette con sentenza la causa al pretore in funzione di giudice del lavoro, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con rito speciale.
Per concludere va chiarito che la disciplina sul rito è più rigida e meno severa di quella sulla competenza: più rigida perché l’errore sul rito può essere rilevato d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, meno severa perché l’errore sul rito può essere rimediato dal giudice dell’impugnazione dato che ex art 439 il tribunale se ritiene che il procedimento in primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto procede a norma degli art 426 e 427 (mutamento di rito)
LA FASE INTRODUTTIVA
Prima che sia dato inizio al processo, la legge prevede che le parti possano fare ricorso ad un tentativo di conciliazione stragiudiziale che si svolge secondo le procedure previste dai contratti o accordi collettivi ovvero davanti alle commissioni di conciliazione, di cui l'art. 410 disciplina minutamente l'istituzione, la composizione e il funzionamento. Gli artt. 411 e 412 regolano le possibili soluzioni, positiva o negativa, del tentativo. Nel primo caso, il processo verbale di conciliazione, depositato nella cancelleria della pretura nella cui circoscrizione è stato firmato diventa esecutivo con decreto del pretore, che ne constati la regolarità formale. Nel secondo caso, è prevista la possibilità di consenso delle parti su di una soluzione, anche parziale, della controversia ed il relativo verbale è in grado di acquistare anch'esso efficacia esecutiva. Se non c'è conciliazione preventiva, il processo viene iniziato con ricorso (art. 414) che viene depositato nella cancelleria del giudice competente insieme con i documenti in esso indicati (art. 415). I1 cancelliere provvede all'iscrizione della causa a ruolo e presenta immediatamente il fascicolo al giudice il quale entro cinque giorni dal deposito fissa l'udienza di discussione con decreto depositato in cancelleria. L'attore deve, poi, entro dieci giorni dalla data di pronuncia del decreto provvedere alla notificazione del ricorso e del decreto, in maniera che tra la data di notificazione e quella dell'udienza di discussione intercorra un termine (libero) non minore a 30 giorni elevato a 40 se la notificazione deve effettuarsi all'estero. In ogni caso tra la data di deposito del ricorso e l'udienza di discussione non devono decorrere più di 60 giorni, elevati ad 80 nel caso di notificazione all'estero.
I termini di cinque, dieci e sessanta (ottanta) giorni sono termini acceleratori e la loro inosservanza non intacca la validità degli atti processuali, ma può dar luogo solo ad una responsabilità del giudice. Il termine di 30 o 40 giorni ha carattere dilatorio e la sua inosservanza vizia non il ricorso introduttivo, ma il successivo atto di evocazione del giudizio. Se il convenuto, non si costituisce il giudice può disporre che sia rinnovata la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza in applicazione dell'art. 162. Se, invece, il convenuto si costituisce, il vizio è sanato ma il giudice può, a sua richiesta, fissare un’altra udienza per consentirgli l'adeguata articolazione delle sue difese. Nel rispetto del principio della concentrazione, l'art. 416 dispone che il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva con la quale il convenuto deve
- dichiarare la residenza o eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito (in mancanza, le comunicazioni e le notificazioni sarebbero effettuate nella cancelleria),
- proporre, a pena di decadenza, le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio,
- prendere posizione, in maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti posti dall'attore a fondamento della domanda,
- proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto;
e) indicare specificamente a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare
L'art. 417 consente alle parti (attore e/o convenuto) di stare in giudizio personalmente, quando il valore della causa non superi le lire 250.000. Qualora sia l'attore a usufruire di tale facoltà, egli può depositare il ricorso da lui redatto personalmente o proporre verbalmente la domanda davanti al pretore che ne fa redigere processo verbale. In questo caso la domanda e il decreto sono notificati all'altra parte a cura dell'ufficio.
Occorre rilevare che se il convenuto, propone domanda riconvenzionale, egli deve, chiedere a pena di decadenza con istanza contenuta nella stessa memoria, che il giudice pronunci, non oltre cinque giorni, un nuovo decreto di fissazione dell'udienza (art. 418). Sia la memoria che il decreto devono essere notificati, all’attore a cura dell'ufficio, entro 10 giorni dalla data di pronuncia del decreto e tra la data di notificazione di questi atti e l'udienza di discussione devono intercorrere non meno di 25 giorni (liberi). In ogni caso tra la proposizione della domanda riconvenzionale e l'udienza di discussione non devono decorrere più di 50 giorni. L'ultimo comma dell'art. 418 prevede anche che i termini di 50 e 25 giorni siano aumentati a 70 e 35 giorni se la notificazione debba farsi all’estero (ipotesi difficilmente realizzabile se il presupposto è che il ricorrente si sia già costituito). Anche nel processo del lavoro sono possibili interventi, volontari che però ex art. 419 non possono avere luogo oltre il termine stabilito per la costituzione del convenuto, e quindi almeno dieci giorni prima dell'udienza. Nel silenzio della legge la Corte costituzionale con sent. 23 giugno 1983, n. 193 ha esteso al caso dell'intervento le stesse disposizioni previste dall'art. 418 per la domanda riconvenzionale.
L’UDIENZA DI DISCUSSIONE
All'udienza di discussione, ex art. 420 il primo problema che si pone è quello della presenza delle parti. Se nessuna delle parti è presente alcuni ritengono che essendovi il divieto delle udienze di mero rinvio il giudice debba pronunciarsi nel merito mentre a nostro modo di vedere il giudice deve provvedere a norma dell’art 181 e cioè deve fissare una nuova udienza e se nessuna delle parti vi compare deve disporre con ordinanza non impugnabile la cancellazione della causa dal ruolo. Se è presente l’attore ma non il convenuto, si ha contumacia del convenuto sempre che il ricorso sia stato correttamente e tempestivamente notificato dato che in mancanza, il pretore deve disporne, la rinotificazione e fissare una nuova udienza. Il convenuto potrà costituirsi tardivamente, ma non potrà compiere le attività che, a pena di decadenza, andavano compiute con il deposito tempestivo della memoria difensiva. Quando le parti—una o entrambe—sono presenti, il giudice deve interrogarle liberamente. La mancata comparizione personale senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai fini della decisione. Le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore, il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La comparizione delle parti è necessaria anche perchè il giudice deve tentare di conciliare la lite (art. 420 ). I1 relativo verbale ha efficacia di titolo esecutivo qualunque sia l'obbligazione in esso contenuta. Occorre rilevare che tale conciliazione giudiziale non è impugnabile nei sei mesi successivi essendosi svolta alla presenza e con la garanzia del giudice. Dopo aver interrogato le parti il giudice valuta anche se il contraddittorio è integro e se vi è la necessità-opportunità di disporre la chiamata di terzi su istanza di parte ex art. 106, o d'ufficio ex art. 107. In caso di chiamata d’ufficio l'art. 420 dispone che il giudice fissi una nuova udienza e che, entro cinque giorni, siano notificati al terzo il provvedimento nonchè il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto, osservati i termini di cui all'art. 415 e con l'avvertenza che il termine massimo entro il quale deve tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione. Va, infine, ricordato che l'art. 151 d.a.c.p.c. prevede la riunione obbligatoria delle controversie di lavoro, previdenza e assistenza connesse anche soltanto per identità di questioni, salvo la facoltà di disporre la separazione delle cause ex art. 103 e 279 c.p.c.
Esaurita la fase preliminare il giudice passa all'esame del merito. Se il giudice ritiene la causa matura per la decisione o se sorgano questioni attinenti alla giurisdizione competenza o ad altre pregiudiziali di rito la cui decisione può definire il giudizio il giudice invita le parti a concludere e pronuncia sentenza anche non definitiva (non sono menzionate le questioni preliminari di merito perché essendo il processo del lavoro concentrato la loro trattazione può avvenire unitamente al merito).
Se invece la causa non può essere decisa immediatamente, bisogna procedere alla sua istruzione.
Il giudice valuta la rilevanza e l'ammissibilità dei mezzi di prova che le parti abbiano proposto tempestivamente e con ordinanza resa in udienza ne dispone l'immediata assunzione. Se ciò non é possibile ed é quello che normalmente avviene, egli fissa una nuova udienza, non oltre dieci giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano gravi motivi, un termine perentorio non superiore a cinque giorni prima dell'udienza di rinvio per il deposito in cancelleria di note difensive. Nella udienza di rinvio il giudice ammette anche i nuovi mezzi di prova che la controparte ha il diritto di proporre, nel termine perentorio di cinque giorni, in relazione alle prove proposte ed ammesse per la prima volta (art.420 co. 6 e 7). Posto che alle comunicazioni e notificazioni dovrebbe provvedere l'ufficio (ex art. 420 co. 1l°), in coerenza con il carattere ufficioso dell'istruzione, non è applicabile la decadenza prevista dall'art. 104 d.a.c.p.c. per il caso di mancata intimazione ai testi.
Nella normalità dei casi il pretore non può decidere subito la controversia, ma deve procedere all'assunzione delle prove. L'art. 421 parla di un potere del giudice di disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio e detta, poi, disposizioni particolari in ordine all'accesso sul luogo di lavoro, all'assunzione di testimoni quando esista una incapacità o un divieto e alla richiesta di informazioni alle associazioni sindacali. L'accesso si concreta in una particolare forma di ispezione (di cui all'art. 118), dalla quale si differenzia per la specificità del luogo, che ne è oggetto; per la necessita dell'istanza di parte e per l'obbligatorietà dell'accesso (non surrogabile, ad es., dalla consulenza tecnica). In sede di accesso, il giudice può disporre l'esame dei testimoni sul luogo stesso. Per quanto riguarda l’esame dei testi va detto che la disposizione ammette che il giudice senta, per interrogarle liberamente sui fatti di causa, persone che nel processo ordinario non possono testimoniare. Ciò significa che esse non giurano e che le loro risposte non hanno il valore di prova piena, ma sono utilizzabili solo come argomenti di prova.
Quanto al potere di richiedere informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali indicate dalle parti, va detto che esso costituisce l'omologo del potere delle parti di provocare l'intervento di tali associazioni, affinhé rendano in giudizio, tramite un rappresentante, informazioni o osservazioni orali o scritte (art. 425 co. 1°). Le parti, poi, hanno la possibilità di fare deduzioni riguardo a tali informazioni e osservazioni. I1 coordinamento fra le due disposizioni porta a ritenere che l'attività ufficiosa del giudice possa aver luogo solo quando le parti non abbiano fatto di loro iniziativa la relativa richiesta e le informazioni ed osservazioni delle associazioni sindacali appaiano rilevanti, ovvero, quando avendola fatta, le associazioni non abbiano dato risposta. Infatti, mentre l'associazione é tenuta a rispondere al giudice, ha invece solo facoltà di rispondere alla richiesta della parte.
Per concludere va ricordato che nel rito del lavoro sono previste forme più semplici e tempi più brevi per l'affidamento e l'espletamento della consulenza tecnica e che il giudice può autorizzare la registrazione su nastro delle deposizioni, in luogo della tradizionale verbalizzazione.
LA DECISIONE
Esaurita l'istruzione della causa, si passa alla fase della decisione. Gli art. 429 e ss. determinano i modi, le forme e l'efficacia di tale decisione, mentre l'art. 423 contempla alcuni provvedimenti a contenuto decisorio, che possono essere già emanati in corso di causa. Si tratta delle ordinanze esecutive per il pagamento delle somme non contestate (co. 1°) e di quelle per le quali il giudice ritenga il diritto accertato (co. 2°).
1) Quanto all’ordinanza per il pagamento di somme non contestate, va detto che essa al pari, di quella prevista per il rito ordinario dall'art. 186 bis, presuppone che il convenuto si sia costituito. Essa inoltre può essere revocata o modificata solo quando vi sia una contestazione successiva, essendo stata la parte rimessa in termini ex art. 184 bis; oppure quando vi sia una rivalutazione della non contestazione, avendo il giudice errato nel ritenere come non contestati fatti che viceversa erano stati contestati oppure fatti che riferendosi a situazioni indisponibili rientravano tra quelli non contestabili. Per quanto riguarda infine l'efficacia dell'ordinanza va detto che anche se l'art. 186 bis, previsto per il rito ordinario dispone che l'ordinanza conserva la sua efficacia anche in caso di estinzione del processo a nostro modo di vedere deve ritenersi che sia l’ordinanza ex art 186 bis sia quella ex art 423 1° comma non sopravvivono all’estinzione trattandosi di provvedimenti anticipatori eccezionali(c.d. provvedimenti interinali).
- Quanto all’ordinanza di cui all’art. 423 co. 2 va detto che il giudice su istanza del lavoratore può disporre il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova. Tale ordinanza (e solo questa) è revocabile con la sentenza che decide la causa e non sopravvive come la precedente all’estinzione del processo. Sia questa ordinanza che quella prevista nel primo comma costituiscono titolo esecutivo (art. 423 co. 3°).
Normalmente il giudice esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti pronuncia sentenza dando lettura immediata del dispositivo nella stessa udienza (art. 429 co. lo) tranne il caso in cui a seguito di istanza concorde delle parti non ritenga opportuno concedere un rinvio non superiore a dieci giorni, per il deposito di note difensive. All’udienza, immediatamente successiva il giudice, esaurita la discussione, da lettura del dispositivo che viene poi, allegato al fascicolo d'ufficio. Del dispositivo possono essere rilasciate copie in forma esecutiva (art. 431 co. 2) per procedere all'esecuzione forzata. I1 deposito della sentenza, composta dal dispositivo e dalla motivazione, deve avvenire nel termine di quindici giorni dalla pronuncia ed il cancelliere ne da immediata comunicazione alle parti (art. 430). Dal giorno del deposito la sentenza è impugnabile e diventa applicabile l'art. 327 (termine lungo). Occorre rilevare che se il pretore omette di leggere il dispositivo si ha una nullità della sentenza deducibile con l’impugnazione la quale non comporta la rimessione della causa al primo giudice. Se vi sono delle contraddizioni tra dispositivo letto e dispositivo inserito in sentenza esse vanno risolte in favore del primo, dato che leggendolo il giudice ha esaurito il suo potere di giudicare nella controversia mentre le eventuali contraddizioni tra motivazione e dispositivo possono costituire solo motivo di impugnazione.
L'ultimo comma dell'art. 429 contiene una disposizione di carattere sostanziale, perché offre al giudice il criterio per la determinazione degli interessi e dei danni subiti dal lavoratore nel caso di condanna del datore al pagamento di somme di danaro per crediti di lavoro. Altra regola di natura sostanziale é quella contenuta nell'art. 432, secondo cui quando sia certo il diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta, il giudice la liquida con valutazione equitativa. Per concludere va detto che ex art. 431, le sentenze di condanna pronunciate in favore del lavoratore per crediti derivanti dai rapporti di cui all' art. 409 ,sono provvisoriamente esecutive. Il giudice d'appello, può tuttavia sospendere anche parzialmente l'esecuzione soltanto quando dalla stessa possa derivare all’altra parte gravissimo danno. A seguito della legge del 90 n 353 anche le sentenze di condanna a favore del datore sono provvisoriamente esecutive ma il giudice d’appello ne può disporre la sospensione in tutto o in parte con ordinanza non impugnabile quando ricorrano gravi motivi.
All'esecuzione si può procedere anche con la sola copia del dispositivo in pendenza del termine per il deposito della sentenza. Interpretata letteralmente questa disposizione ci dice che, dovendo la sentenza essere depositata entro quindici giorni dalla lettura del dispositivo quest’ultimo ha efficacia di titolo esecutivo per quindici giorni ma la giurisprudenza ha ritenuto che il dispositivo conserva efficacia esecutiva fino al deposito della sentenza.
Nel caso in cui l'esecuzione sia iniziata sulla base del solo dispositivo quando è stata già depositata la sentenza, si ha una nullità formale da far valere con l'opposizione agli atti esecutivi (ex art. 617) mentre se ad esecuzione iniziata sulla base del solo dispositivo sopraggiunge il deposito della sentenza, è sufficiente depositare davanti al giudice dell'esecuzione il nuovo titolo, che integra o assorbe il primo.
LA FASE D'IMPUGNAZIONE
La legge del 1973 n. 533 ha dettato disposizioni particolari esclusivamente per l'appello prevedendo quanto al ricorso per cassazione, soltanto l'istituzione di una sezione destinata alla trattazione delle controversie del lavoro. Nulla invece è previsto per gli altri mezzi di impugnazione ma ciò non esclude l’ammissibilità della revocazione e della opposizione del terzo. Oggetto dell'appello sono le sentenze rese dal pretore come giudice del lavoro è decisiva, al fine di stabilire il modus procedendi, è la qualificazione data al rapporto dal giudice per cui anche se si contesta il rito seguito l'impugnazione andrà pur sempre proposta nelle forme del rito del lavoro. L'art. 440 esclude l'appello contro le sentenze che abbiano deciso una controversia di valore non superiore a lire cinquantamila che va determinato sulla base della domanda originaria, calcolando anche interessi e svalutazione (in tal modo, si rende possibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost). Occorre rilevare che nel caso in cui più soggetti propongano in unico ricorso domande connesse contro lo stesso convenuto, le domande non si sommano tra loro. L'appello si propone con ricorso contenenti i requisiti di cui all’art. 342 depositato nella cancelleria del tribunale territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza elevati a 40 nel caso di notificazione all’estero per cui non potrà mai aversi improcedibilità per mancata tempestiva costituzione dell’appellante. Nel caso in cui i motivi non siano sufficientemente specificati non si avrà l'inammissibilità dell’appello ma solo una nullità sanabile ex nunc. Occorre rilevare che poiché nel rito ordinario l’appello va notificato alla controparte mentre nel rito del lavoro esso va depositato può accadere che se all’udienza non siano comparse entrambe le parti il giudice può non sapere se l'appello sia stato tempestivamente e correttamente notificato così come può accadere che assente l'appellato, il giudice riscontri che l'atto di appello non sia stato tempestivamente o regolarmente notificato. Poichè queste ipotesi non rientrano nel disposto dell'art. 348, è necessario un adattamento. L’opinione prevalente è che l'impugnazione sia comunque ammissibile e che il giudice prima di dichiararne l'improcedibilità debba fare almeno un tentativo per salvarla fissando una nuova udienza. Altro problema di raccordo riguarda il 3 comma dell'art. 330 secondo cui dopo un anno dalla pubblicazione della sentenza, l'impugnazione, se è ancora ammessa, si notifica personalmente a norma degli art. 137 e ss.. Al riguardo la giurisprudenza ha, ritenuto che l'art. 330 co. 3 valga solo per 1'ipotesi in cui venga proposta l'impugnazione e non per quella in cui venga notificata un’impugnazione già proposta con il tempestivo deposito del ricorso per cui la notificazione può essere fatta nel domicilio eletto. Il legislatore non ha dedicato alcuna norma alla competenza ed in relazione al rito si è limitato a disporre nell’art 439 che il tribunale, se ritiene che il procedimento in primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto, procede a norma degli art. 426 e 427. Da quanto detto ne deriva che le questioni di rito sono rilevabili d'ufficio anche dal giudice d'appello ma se in primo grado è già sorta una questione al riguardo, è necessario che la parte proponga il relativo motivo d'appello. Tali questioni di rito comportano l'eventuale invalidità degli atti compiuti, ma non la rimessione della causa al primo giudice; dovendo in questi casi il giudice d’appello decidere anche nel merito. Occorre rilevare che poiché il lavoratore può procedere all'esecuzione con la sola copia del dispositivo l'art. 433 co. 2 prevede la possibilità di proporre ad esecuzione iniziata l'appello con riserva dei motivi da presentare nei termini di cui all’art 434 il quale anche se dichiarato inammissibile non esclude la riproponibilità del rimedio quando la sentenza sia depositata essendo esso mirato solo ad ottenere la sospensione dell’esecuzione. Una volta che sia stato eseguito il deposito del ricorso il presidente del tribunale, entro cinque giorni, nomina il giudice relatore e fissa, con decreto l'udienza di discussione davanti al collegio non oltre sessanta giorni (o ottanta in caso di notificazione all'estero). L'appellante, nei dieci giorni successivi alla comunicazione del deposito del decreto, deve provvedere a notificare all’appellato sia il ricorso che il decreto e tra la data di notificazione e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore a venticinque giorni elevato a sessanta nel caso di notificazione all'estero (art. 435).
L'appellato deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza, depositando in cancelleria il fascicolo e una memoria difensiva, contenente la dettagliata esposizione di tutte le sue difese (art. 436). La mancata o la tardiva presentazione della memoria difensiva importa la preclusione di tutte le attività che, a pena di decadenza, andavano compiute con l'atto di costituzione. In caso di soccombenza ripartita, l'appellato può proporre a pena di decadenza appello incidentale nella stessa memoria difensiva la quale deve contenere l’esposizione dei motivi specifici su cui fonda l'impugnazione e deve essere notificata alla controparte almeno dieci giorni prima dell'udienza di discussione. All'udienza di discussione la trattazione è totalmente collegiale. Dopo che il giudice incaricato fa la relazione orale della causa il collegio sentiti i difensori e le parti pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo in udienza. Non sono ammesse nuove domande ed eccezioni ed eccezion fatta per il giuramento decisorio ed estimatorio nuovi mezzi di prova salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione L'art. 437 offre la possibilità di differire fino a dieci giorni la decisione. Nell'ipotesi eccezionale di ammissione di nuovi mezzi di prova, il collegio fissa con ordinanza una successiva udienza da tenersi entro venti giorni (art. 437 co. 30). Se dispone una consulenza tecnica, il collegio rinvia ad altra udienza da fissarsi non oltre trenta giorni e il consulente deve depositare il proprio parere almeno dieci giorni prima della nuova udienza (art. 441). La giurisprudenza ritiene che le parti possano produrre nuovi documenti, purchè li depositino con gli atti introduttivi.
La decisione può avere contenuto processuale o di merito ed ha sempre forma di sentenza. Sentenze processuali possono aversi per inammissibilità, improcedibilità e per estinzione. Si ha inammissibilità, quando:
- l’appello sia proposto fuori termine;
- vi sia stata acquiescenza;
- le parti non abbiano integrato tempestivamente il contraddittorio
d) la sentenza sia inappellabile;
- non siano stati presentati i motivi nel termine di cui all’art. 434
- l'appello con riserva dei motivi sia presentato prima dell'inizio dell’esecuzione
Per quanto riguarda l’estinzione va detto che si ritiene, che qui non abbia rilievo l'inattività delle parti, ma solo la rinuncia gli atti.
Le sentenze di merito possono essere di accoglimento o di rigetto anche parziale. Il dispositivo della sentenza deve essere letto in udienza e il deposito della sentenza, completa della sua motivazione, deve aver luogo entro quindici giorni dalla pronuncia (art. 438 co. lo). All’esecuzione si può procedere in base alla sola copia del dispositivo ma non essendo previsto un ricorso per cassazione con riserva dei motivi per poter ottenere la sospensione dell’esecuzione bisogna prima depositare in cassazione il ricorso completo dei motivi e poi fare istanza al tribunale per la sospensione, che sarà concessa solo se dall'esecuzione possa derivare grave ed irreparabile danno.
LE CONTROVERSIE DI PREVIDENZA E DI ASSISTENZA
Il nostro sistema, per motivi di economia processuale e per un favor riconosciuto alla P.A., prevede che le istanze assistenziali e previdenziali siano portate in primo luogo davanti all'amministrazione, e solo quando questa abbia rigettato l'istanza ovvero, disinteressandosene, abbia mostrato di non volerla o poterla delibare in un ragionevole periodo di tempo è possibile ricorrere al giudice.
Il legislatore ha cioè configurato l’istanza alla pubblica amministrazione, come una condizione di proponibilità della domanda giudiziale. Occorre rilevare che poiché l'amministrazione, deve provvedere nel termine di 120 giorni altrimenti la richiesta si intende respinta; e poiché contro il provvedimento anche implicito di rigetto, si deve proporre il ricorso amministrativo da quanto detto ne deriva che l'azione giudiziaria diventa procedibile soltanto se siano decorsi altri 180 giorni dal ricorso senza che l'amministrazione abbia provveduto. Tenuto conto di ciò il legislatore ha stabilito che il giudice ordinario non deve tener conto dei vizi, delle preclusioni e delle decadenze verificatesi nelle procedure medesime. Va anche chiarito che nel caso in cui leggi speciali prevedano per il ricorso amministrativo termini superiori a 180 giorni l'azione giudiziaria diventa comunque procedibile dopo che siano trascorsi 180 giorni dalla presentazione del ricorso.
L'improcedibilità temporanea della domanda deve essere rilevata dal giudice nella prima udienza di discussione, ma essa non può più essere dichiarata se i 180 giorni, che non erano trascorsi al momento della presentazione della domanda, sono invece decorsi al tempo della prima udienza di discussione. Se invece l’azione è improcedibile il giudice sospende il processo e fissa un termine perentorio di sessanta giorni per la presentazione del ricorso in sede amministrativa (art. 443 co. 2°). Nel caso in cui tale termine non sia osservato, il processo si estingue ma l'attore può ripresentare la domanda. Dopo che il ricorso sia presentato il processo deve essere riassunto a cura dell’attore nel termine perentorio di 180 giorni, che decorre dalla cessazione della causa di sospensione dato che in mancanza il processo si estingue. Giudice competente per le controversie in materia previdenziale è il pretore, che ha sede nel capoluogo della circoscrizione del tribunale nella quale risiede l'attore. Se la competenza in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali riguarda addetti alla navigazione marittima, è competente il pretore del luogo in cui ha sede l'ufficio del porto di iscrizione della nave (art. 444 co. 2). Infine per le controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro e all'applicazione delle sanzioni civili per l'inadempimento di tali obblighi, è competente il pretore del luogo in cui ha sede l'ufficio dell’ente. I1 procedimento è uguale a quello descritto per le controversie di lavoro eccezion fatta per alcune disposizioni riguardanti la consulenza tecnica e la partecipazione al processo degli istituti di patronato e di assistenza sociale. Quanto alla consulenza tecnica, va detto che essa è facoltativa, che i consulenti che devono scelti tra quelli iscritti in appositi albi; sono nominati all’udienza di discussione, che il termine per il deposito della relazione può essere prorogato fino a sessanta giorni e che nelle controversie in materia di invalidità pensionabile, il consulente deve valutare anche l'aggravamento della malattia, e di tutte le infermità successivamente verificatesi.
Per quanto riguarda invece la partecipazione degli istituti di patronato e di assistenza sociale va detto che la legge riconosce all’istituto al quale la parte è legata da rapporto di assistenza il potere di rendere informazioni e osservazioni orali o scritte in ogni grado del processo. Al riguardo va però precisato che è necessario che vi sia l’istanza della parte dato che ad essi non può fare ricorso il giudice d'ufficio e che le informazioni hanno solo una funzione meramente integrativa delle prove già raccolte. A conclusione del processo il giudice pronuncia sentenza, che è provvisoriamente esecutiva (art. 447 ) ed alla quale si applica il disposto dell'art. 431 (possibilità di sospensione in appello).
LA COSA GIUDICATA
La cosa giudicata è un istituto di carattere generale che indica la immodificabilità del provvedimento o perchè sono stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione ordinaria o perché è decorso inutilmente il termine per proporli. Dispone l’art 324 che la sentenza passa in cosa giudicata formale quando essa non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai n. 4 e 5 dell’art 395. Occorre rilevare che tale stabilità attiene a tutte le sentenze siano esse processuali o di merito. La nozione di cosa giudicata in senso sostanziale si ricava dall’art 2909 c.c. il quale recita che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Come è facile intuire poiché la legge parla di accertamento la cosa giudicata in senso sostanziale riguarda solo le sentenze di merito aventi ad oggetto diritti indisponibili dato che i diritti disponibili sono soggetti sempre ad autonomia negoziale. Da essa deriva un vincolo sia per il giudice che per le parti che può venir meno solo in caso di impugnazione straordinaria. Il passaggio in giudicato di una sentenza determina
1) la conclusione del processo
2) la preclusione per le parti di chiedere al giudice di giudicare una seconda volta sullo stesso oggetto (ne bis in idem)
La giurisprudenza generalmente distingue tra
a) giudicato interno che è quello che si forma all’interno di uno stesso processo e che può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, si pensi ad es a quello che si forma su una parte della sentenza quando la parte impugna solo un capo di essa o a quello che si forma su una sentenza non definitiva non impugnata.
b) giudicato esterno che è quello che si forma in un diverso processo e che può essere rilevato solo ad istanza di parte
LIMITI DELLA COSA GIUDICATA
I limiti del giudicato sono oggettivi e soggettivi
a) i limiti oggettivi si riferiscono all’oggetto della sentenza e alla causa petendi. La cosa giudicata si forma cioè sull’oggetto della domanda nei limiti della causa petendi (delle ragioni fatte valere in giudizio) cd. giudicato esplicito e non anche sulle eventuali questioni pregiudiziali di merito a meno che le parti non chiedano espressamente ai sensi dell’art 34 l’accertamento incidentale. Al riguardo va però precisato che si suole dire che il giudicato copre non solo il dedotto ma anche il deducibile cioè non solo le ragioni fatte valere in giudizio ma anche quelle che pur non essendo espressamente dedotte costituiscono il presupposto logico e necessario della decisione e che esso investe non solo le statuizioni espresse nel dispositivo ma anche le affermazioni che il giudice fa e che sono il fondamento logico della decisione cd. giudicato implicito
b) i limiti soggettivi si riferiscono agli effetti della sentenza. Essa infatti pur dovendo essere riconosciuta da tutti produce effetti nei confronti delle sole parti o loro eredi o aventi causa
Per concludere va detto che nel caso di contrasto di giudicati e cioè quando il giudice pronunzia per errore sulla medesima controversia malgrado il giudicato precedente alcuni ritengono che valga la prima sentenza avendo il giudice esaurita la sua funzione mentre la giurisprudenza prevalente ritiene che debba darsi la preferenza alla seconda essendo le parti scontente a tal punto da adire un altro giudice.